di Riccardo Achilli
Un tema di cui non si parla più,
dopo la sepoltura dell’esperimento di Jospin e della Aubry delle 35 ore
settimanali, è quello riassumibile con lo slogan “lavorare di meno per lavorare
tutti”. La principale obiezione dei liberali a tale idea è che contribuirebbere a ridurre la
produttività del lavoro, già molto bassa in Italia rispetto ai concorrenti
europei, aggravando la competitività delle imprese.
E’ tuttavia ovvio che in una fase
in cui aumenta il bacino dei senza-lavoro, puntare sull’incremento di
produttività di chi già lavora è il modo per non riassorbire più i disoccupati,
creando quindi un sistema di esclusione perenne dal mercato del lavoro di ampie
fasce di popolazione attiva che, allungandosi il periodo di disoccupazione,
perderebbe ogni potenzialità personale di rientro nel circuito lavorativo.
Andando poi ad osservare con
maggiore attenzione la critica principale che si fa alla riduzione dell’orario
di lavoro per aumentare l’occupazione, notiamo che, in realtà, il problema
competitivo che affligge l’economia italiana non è la produttività del lavoro, quanto
invece la produttività totale dei fattori, ovvero il rendimento complessivo che
tutti i fattori produttivi forniscono alla crescita, e che dipende dalle
condizioni di contesto in cui i fattori produttivi stessi forniscono il loro
contributo.
I dati Ocse ci dicono, in
effetti, che, nel periodo 2000-2010, mentre il PIL italiano cresceva ad un
tasso medio annuo dello 0,3%, l’input di lavoro è cresciuto più lentamente del
PIL (+0,2%) mentre l’input di capitale è aumentato in misura molto più
significativa rispetto alla crescita (+0,7%). Anche se misurato in un periodo
più lungo (1995-2010) l’input di capitale cresce più rapidamente di quello del
lavoro (rispettivamente, +0,7%, contro +0,4%, a fronte di una crescita media
dello 0,9%).
Quindi, per garantire un
determinato percorso di crescita, come quello manifestato dalla nostra
economia, l’esigenza di immissione di capitale supera quella di immissione di
lavoro. In altri termini, il capitale è meno produttivo del lavoro[1]. D’altra parte, la
produttività del lavoro cresce più rapidamente rispetto alla produttività
totale dei fattori: fra 1985 e 2010, la prima cresce, in termini reali, del 28,8%,
la seconda del 10,8% (dati Ocse). Quindi il problema non è che il lavoratore
italiano sia di per sé poco produttivo, ma che il contesto in cui opera ne
abbassa significativamente l’apporto al processo produttivo: la bassa
produttività del capitale ne è la spia evidente, e dipende da fattori quali il
sottodimensionamento cronico di gran parte del nostro tessuto produttivo,
accompagnato da sottocapitalizzazione e da modelli di governance padronali poco
idonei a supportare qualità ed innovazione, dalla modestissima quota di spesa
di R&S sul PIL, soprattutto di parte privata (e dall’assenza di meccanismi
di collegamento efficaci fra ricerca pubblica ed imprese), dall’estensione
anomala di forme di economia irregolare o criminale, dall’inadeguatezza delle
infrastrutture di trasporto e dal permanere di un digital divide in alcune aree
del Paese, dai tempi elefantiaci della pubblica amministrazione. Tutti questi
elementi riducono la produttività totale dei fattori, incidendo prima e
soprattutto sul rendimento del capitale investito, e poi su quello del lavoro,
la cui produttività è resa più bassa dalla bassa produttività del capitale (per
rendere l’idea, utilizzando una metafora estrema, è ovvio che un’ora di lavoro
effettuato con un tornio a controllo numerico abbia una produttività superiore
ad un’ora di lavoro effettuata con un tornio manuale; è evidente che la
produttività del lavoro non può prescindere dalla produttività potenziale del
capitale, che nel caso del tornio numerico è più alta rispetto a quello manuale).
Tra l’altro, negli anni più
recenti, la produttività totale dei fattori è in evidente rallentamento, mentre
quella del lavoro rimane stabile, se non in lieve crescita: fra 2000 e 2010, la
prima diminuisce del 5,3%, mentre la seconda aumenta dell’1,9%. In altri
termini, negli ultimi 10-12 anni, in Italia, il lavoro è stato talmente
produttivo da più che compensare il tracollo della produttività del capitale!
Abbandoniamo quindi l’argomento
sciocco secondo cui una riduzione dell’orario di lavoro per far crescere
l’occupazione sia ostacolata da un presunto gap di produttività del lavoro,
lasciando tale argomento ai padroni che vogliono imporre un neo-fordismo di
ritorno. E cerchiamo di capire se realmente tale strategia sia sostenibile. Mettiamoci
nell’ipotesi peggiore, cioè la più costosa per il sistema, quella in cui, per
assurdo, si ipotizzi una riduzione dell’orario di lavoro per tutti gli
occupati, ed in quantità tale da liberare spazio per assumere tutti i
disoccupati, ufficiali e nascosti (è naturalmente una ipotesi artificiosa, che
serve solo per evidenziare l’onere sistemico massimo).
Ipotizziamo in un primo momento
che, per non incidere sulla competitività, la riduzione dell’orario sia pagata
soltanto dai lavoratori (rimuoveremo questa ipotesi subito dopo). E facciamo,
per assurdo e per motivi prudenziali, l’ipotesi che si intenda dare lavoro
all’intera platea di disoccupati (ipotesi fantascientifica, anche in condizioni
di piena occupazione un tasso frizionale di disoccupazione esisterà sempre, ed
ovviamente è anche necessario per evitare di andare oltre il punto del NAIRU[2], poiché, contrariamente a quanto
affermano i tifosi di ogni tipo di peronismo, l’inflazione è
una bomba piazzata sotto i piedi delle stesse condizioni di equità sociale e
distributiva). Ciò significa che, fra disoccupati ufficiali e nascosti, dai
dati Istat al 2011 emerge che occorrerebbe dare lavoro a 3,64 milioni di
persone. La retribuzione oraria media lorda di un lavoratore nel 2011
(dirigenti esclusi) è di 15 euro all’ora, equivalente ad una retribuzione media
lorda di 24.363 euro annui (Istat). Moltiplicando tale dato per il numero
complessivo di ore lavorate da impiegati, quadri ed operai nel 2011, si ottiene
un monte-retribuzioni complessivo pari a 549,9 miliardi di euro.
L’immissione al lavoro di tutti i
3,64 milioni di disoccupati, ufficiali o nascosti, ovvero un incremento
occupazionale del 16,1%, mantenendo invariato il monte-retribuzioni complessivo
pagato dai datori di lavoro, costerebbe al lavoratore medio, su 13 mensilità,
una riduzione di stipendio pari a 260,12 euro al mese. a ciò vanno aggiunti altri
costi, come ad esempio il costo della formazione del neo-assunto da parte
dell’impresa: poiché la formazione professionale per gli adulti costa, al
settore privato, circa 4 miliardi all’anno (dato Isfol) se tale costo fosse
fatto pagare ai lavoratori, comporterebbe una ulteriore riduzione di circa 12
euro sul loro stipendio mensile. Considerando altri costi di coordinamento e di
tipo organizzativo per l’immissione di nuovi occupati, alla fine si arriverebbe
ad un sovraccosto di 20 euro al mese. Sommati ai 260 euro di cui sopra,
sarebbero circa 280 euro mensili cui l’occupato medio dovrebbe rinunciare per
una politica di pieno impiego basata sulla riduzione del suo orario di lavoro.
A livello sistemico, il costo del
pieno impiego sarebbe di 95,4 miliardi/anno. Se fosse lo Stato a pagare tali 95,4
miliardi, lasciando quindi immutati i salari dei lavoratori, pur a fronte di
una riduzione del loro orario di lavoro di un 16% medio (equivalente, posto che
l’orario di lavoro settimanale medio degli italiani è di 37 ore, ovvero di 7,4
ore su una settimana di cinque giorni, ad una situazione in cui si lavorano 7,4
ore dal lunedì al giovedì, e nel giorno di venerdì si lavora solo per un’ora e
mezza circa) occorrerebbe considerare che lo Stato risparmierebbe 3,5 miliardi
all’anno di indennità di disoccupazione e mobilità (perché se lavorano tutti,
tali voci non esistono più) e guadagnerebbe 63 miliardi di euro in più da
contributi sociali ed imposte sul reddito. In sostanza, circa 66 miliardi fra
minori spese e maggiori entrate, per cui il costo complessivo massimo (si
ricordi che stiamo considerando il caso, del tutto fantascientifico, che la
riduzione dell’orario di lavoro comporti l’assunzione di tutti i disoccupati,
ivi compresi quelli nascosti) di tale operazione sarebbe pari a meno di 30
miliardi all’anno. Sarebbe cioè pari all’1,9% del PIL, oppure al 3,8% del
totale delle uscite del conto economico consolidato di tutte le amministrazioni
pubbliche. Farebbe, certo, aumentare il deficit di bilancio, ma comporterebbe anche
un incremento di PIL, a produttività del lavoro vigente (e ovviamente ridotta
in ragione della riduzione media dell’orario di lavoro), pari al 13% (ma non
considero gli ulteriori effetti sul PIL derivanti dall’aumento della domanda
per consumi derivante dal pieno impiego). Il deficit/PIL, a regime, cioè dopo
un shock temporaneo dovuto all’aumento dei costi non immediatamente compensato
dalla crescita del PIL (che ha sempre un lag di ritardo) passerebbe dal 3,9%
del 2011 al 5,1%, senza considerare gli effetti di incremento della domanda per
consumi, ed al 4,5% considerando anche l’incremento del PIL indotto dalla
maggiore domanda per consumi.
I calcoli sopra esposti non
sembrano quindi indicare niente di drammatico o di irreparabile sul versante
dei costi pubblici di un sistema di riduzione dell’orario di lavoro seguito da
un incremento assoluto di occupazione finanziato dallo Stato; i costi per il
bilancio pubblico sarebbero alti, ma in sostanza non terribili (mentre
andrebbero forse esplorati altri potenziali effetti perversi, ma anche molto
controversi e quindi non certi, legati ad una possibile riduzione della
propensione ad investire in innovazione di processo, qualora il rapporto
capitale/lavoro nei processi produttivi fosse completamente sovvertito a favore
del secondo).
Naturalmente, poi, per la
finalità di evidenziare il massimo costo possibile per il sistema, cioè lo
scenario “peggiore”, i calcoli di cui sopra sono stati fatti nell’ipotesi
semplicistica che vi sia un rapporto diretto, meccanico, fra riduzione dell’orario
e aumento dell’occupazione, mentre nella realtà vi sono professioni che richiedono
specializzazioni molto specifiche e “incorporate” nello specifico lavoratore,
che non possono quindi dare luogo ad un suo affiancamento con un lavoratore equivalente
(si pensi alle professioni artistiche, creative, artigianali, ai mestieri di
altissima qualificazione, le professioni svolte su incarichi intuitu personae, ecc.)
e quindi per tali categorie professionali sarebbe assurdo prevedere una
riduzione dell’orario (anche perché spesso sono esercitate da free lance e
consulenti senza orario di lavoro contrattuale) potendo concentrare l’esperimento
di riduzione dell’orario di lavoro soltanto sulle professioni operaie e su
quelle impiegatizie più standardizzate e ripetitive, con un minore onere per il
sistema, in termini di costo della riduzione dell’orario di lavoro. Ma
naturalmente questi argomenti sono tabù: siamo sotto la cappa del liberismo più
ortodosso!
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