MATTEOTTI PRIMA DEL DELITTO
di Stefano Macera
Giacomo Matteotti (2004),
documentario diretto da Luca Ricciardi e prodotto dall’Archivio Audiovisivo del
Movimento Operaio, muove dal proposito di restituire a tutto tondo una figura
che, nell’immaginario collettivo, è quasi esclusivamente vista come vittima di
un grave crimine del fascismo.
S’intende suggerire la peculiarità di un personaggio, nato a Fratta Polesine nel 1885 ed esponente di primissimo piano del socialismo riformista italiano, che si dimostrò capace di trascendere alcuni limiti della tradizione politica che ha avuto in Filippo Turati il suo più prestigioso rappresentante.
S’intende suggerire la peculiarità di un personaggio, nato a Fratta Polesine nel 1885 ed esponente di primissimo piano del socialismo riformista italiano, che si dimostrò capace di trascendere alcuni limiti della tradizione politica che ha avuto in Filippo Turati il suo più prestigioso rappresentante.
Nel
perseguire quest’obiettivo, si sceglie di non fornire agli spettatori una mole
esagerata di informazioni, tale da perdersi nella memoria poche ore dopo la
visione e da tradursi in un parlato sovrabbondante, che finisce per annientare
le immagini.
La struttura di base è semplice. Agli interventi di tre studiosi (Gianna
Granati, Giuseppe Tamburano, Valentino Zaghi) si alternano sequenze con
immagini di repertorio e foto d’epoca. Le quali possono essere sottolineate da
canti politici o dalla voce fuori campo che (accompagnata da brani di musica
classica, in sottofondo) legge brani di Matteotti stesso o di chi l’ha
conosciuto, come il socialista Costantino Lazzari.
Le sequenze in questione anticipano o riprendono i temi affrontati dagli storici, ma l’impianto narrativo del documentario non è connotato da rigidità. Intanto perché il racconto vero e proprio è preceduto, tra l'altro, da immagini attuali sulle strade del Polesine e dalle opinioni raccolte fra gli abitanti di Fratta, che testimoniano quanto qui sia ancora vivo e commosso il ricordo dell’illustre concittadino.
In secondo luogo, perché non mancano le variazioni, come l’entrata – da parte di Granati – nella casa buia e abbandonata dove visse Matteotti, figlio di possidenti che tradì la sua classe d’origine per schierasi con il proletariato agricolo. Mentre la ricercatrice accende le luci avvertiamo, come in lontananza, il canto Se otto ore son troppo poche. All’apertura delle finestre corrispondono le immagini di repertorio di contadini e contadine, così come Matteotti doveva vederli da bambino.
La scioltezza narrativa del documentario, ci consente di seguire, passo dopo passo, una vicenda umana ricca e complessa, senza mai avvertire la pedanteria che spesso contrassegna gli audiovisivi a finalità didattica. Anzitutto, viene evocato il contesto del Polesine, dove – come spiega Zaghi – le campagne conobbero, nella seconda metà dell’800, una modernizzazione contraddittoria, prodotta dalle bonifiche meccaniche e dalla penetrazione del capitalismo.
Poi, affrontando la scelta di campo del giovane Giacomo, la si collega a frequentazioni familiari, tra cui il già citato Lazzari che, nel 1912, sarà segretario del PSI e che, da viaggiatore di commercio, si faceva spesso vivo all’emporio dei Matteotti.
Per non dire della giovanile attività di amministratore locale, svolta, sin dal 1907, in diversi comuni. In questa fase del suo apprendistato politico, in cui si dedica anche alla creazione di organismi di lotta di classe come le leghe contadine, il grande polesano rivela una notevole sollecitudine verso l’istruzione dei braccianti, arrivando a chiedere al Comune di Fratta, nel 1912, l’uso di un’aula in cui tenere una scuola serale a proprie spese. Un capitolo fondamentale è ovviamente quello della prima guerra mondiale, cui Matteotti si oppose sulla base di un umanesimo radicale, segnato dall’adesione ad un’idea di fratellanza universale.
Sottolineando la distanza rispetto alla posizione ufficiale dei socialisti, riassunta nella “pilatesca” formula del né aderire né sabotare. Tamburano si spinge a parlare di un riformismo tanto singolare da sconfinare in un discorso rivoluzionario. A nostro avviso, se va riconosciuto a Matteotti il merito storico di essersi sottratto pienamente al bellicismo che impregnò le file di gran parte del movimento operaio europeo, va altresì detto che alla sua impostazione mancava un pezzo. Ossia, quella denuncia del “nemico in casa propria” (leggi: della propria borghesia nazionale) che fu il perno della propaganda contro la guerra del tedesco Karl Liebknecht, svolta, questa sì, su un piano coerentemente rivoluzionario. Per quanto riguarda l’irrompere del movimento fascista, lo si inserisce in un discorso più ampio, che comprende i trionfi, anche elettorali, del socialismo nel collegio Rovigo-Ferrara, dove nel 1919, quando Matteotti venne eletto deputato, il partito dei lavoratori toccò punte del 70% dei voti, suscitando la viva preoccupazione degli agrari, che temevano di perdere privilegi e potere economico.
Di qui la spinta dei possidenti a foraggiare l’offensiva fascista contro le sedi del movimento operaio. L’ondata di violenze che ne derivò fu denunciata da Matteotti con puntualità, episodio per episodio. Il fatto è che questi non s’illuse neppure per un istante sulla natura del fascismo, né mai pensò che tale movimento potesse essere ricondotto alla normalità nell’alveo delle istituzioni liberali. Secondo Tamburano, attaccando il fascismo in ogni sede, a partire dal Parlamento, con la “spavalderia” di chi sembra cercare il martirio, Matteotti intendeva aprire gli occhi ai suoi compagni che, anche dopo la Marcia su Roma (ottobre 1922), non coglievano la gravità della situazione. Lo storico non riferisce i nomi dei socialisti riformisti che dimostrarono tanta miopia. Però, nella sequenza in cui la voce fuori campo recita quei brani in cui Matteotti polemizza con i suoi, ad esempio sottolineando che per combattere il fascismo “ci vuole gente di volontà e non degli scettici”, le immagini parlano chiaro. Tra i filmati e le foto d’epoca s’affaccia il volto di Filippo Turati. Il quale, in effetti, tardò oltre ogni ragionevolezza a capire come il fascismo fosse diventato la vera opzione delle classi dirigenti e continuò per molto tempo a vagheggiare alleanze con una presunta borghesia avanzata, esprimendo la denuncia delle violenze squadriste nei modi di un quieto legalitarismo.
In sostanza, in Giacomo Matteotti assistiamo ad una rapida ma efficace carrellata su fasi decisive dei primi decenni del Novecento. Tratteggiate con grande capacità di sintesi da storici che sembrano adeguarsi alle forme di una comunicazione immediata, quasi che il regista Luca Ricciardi non si sia limitato a riprenderli, ma li abbia anche “diretti” per rendere la loro interpretazione più funzionale alle esigenze della narrazione.
Il risultato è che si lascia allo spettatore l’idea di saperne qualcosa di più, ma anche una salutare sensazione d’inappagamento, che può spingerlo svolgere per conto proprio delle ricerche. Ora, a voler dare delle indicazioni bibliografiche complete, bisognerebbe districarsi tra gli innumerevoli titoli dedicati al socialismo italiano dei primi decenni del Novecento. Ci limitiamo a segnalare il toccante profilo di Matteotti che, pochi giorni dopo la sua morte, venne scritto da un’altra vittima illustre del fascismo, Piero Gobetti. Pubblicato per la prima volta su La Rivoluzione Liberale del 1° luglio 1924, e oggetto di diverse riedizioni negli ultimi anni, questo scritto restituisce un’impostazione etico-politica che, se non può essere un sicuro punto di riferimento per affrontare tutti i problemi dell’oggi, risulta comunque lontana da quella del PSDI, il partito che, nel secondo dopoguerra, si presentò come erede del socialismo riformista italiano. Infatti, la presenza nelle sue file d’un Matteotti (Matteo, figlio di Giacomo) non impedì a tale organizzazione di porsi di traverso rispetto a molte delle battaglie per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori di questo paese, Né di diventare rapidamente, a dispetto delle dimensioni non eccezionali, uno dei principali centri di corruzione della Prima Repubblica.
Le sequenze in questione anticipano o riprendono i temi affrontati dagli storici, ma l’impianto narrativo del documentario non è connotato da rigidità. Intanto perché il racconto vero e proprio è preceduto, tra l'altro, da immagini attuali sulle strade del Polesine e dalle opinioni raccolte fra gli abitanti di Fratta, che testimoniano quanto qui sia ancora vivo e commosso il ricordo dell’illustre concittadino.
In secondo luogo, perché non mancano le variazioni, come l’entrata – da parte di Granati – nella casa buia e abbandonata dove visse Matteotti, figlio di possidenti che tradì la sua classe d’origine per schierasi con il proletariato agricolo. Mentre la ricercatrice accende le luci avvertiamo, come in lontananza, il canto Se otto ore son troppo poche. All’apertura delle finestre corrispondono le immagini di repertorio di contadini e contadine, così come Matteotti doveva vederli da bambino.
La scioltezza narrativa del documentario, ci consente di seguire, passo dopo passo, una vicenda umana ricca e complessa, senza mai avvertire la pedanteria che spesso contrassegna gli audiovisivi a finalità didattica. Anzitutto, viene evocato il contesto del Polesine, dove – come spiega Zaghi – le campagne conobbero, nella seconda metà dell’800, una modernizzazione contraddittoria, prodotta dalle bonifiche meccaniche e dalla penetrazione del capitalismo.
Poi, affrontando la scelta di campo del giovane Giacomo, la si collega a frequentazioni familiari, tra cui il già citato Lazzari che, nel 1912, sarà segretario del PSI e che, da viaggiatore di commercio, si faceva spesso vivo all’emporio dei Matteotti.
Per non dire della giovanile attività di amministratore locale, svolta, sin dal 1907, in diversi comuni. In questa fase del suo apprendistato politico, in cui si dedica anche alla creazione di organismi di lotta di classe come le leghe contadine, il grande polesano rivela una notevole sollecitudine verso l’istruzione dei braccianti, arrivando a chiedere al Comune di Fratta, nel 1912, l’uso di un’aula in cui tenere una scuola serale a proprie spese. Un capitolo fondamentale è ovviamente quello della prima guerra mondiale, cui Matteotti si oppose sulla base di un umanesimo radicale, segnato dall’adesione ad un’idea di fratellanza universale.
Sottolineando la distanza rispetto alla posizione ufficiale dei socialisti, riassunta nella “pilatesca” formula del né aderire né sabotare. Tamburano si spinge a parlare di un riformismo tanto singolare da sconfinare in un discorso rivoluzionario. A nostro avviso, se va riconosciuto a Matteotti il merito storico di essersi sottratto pienamente al bellicismo che impregnò le file di gran parte del movimento operaio europeo, va altresì detto che alla sua impostazione mancava un pezzo. Ossia, quella denuncia del “nemico in casa propria” (leggi: della propria borghesia nazionale) che fu il perno della propaganda contro la guerra del tedesco Karl Liebknecht, svolta, questa sì, su un piano coerentemente rivoluzionario. Per quanto riguarda l’irrompere del movimento fascista, lo si inserisce in un discorso più ampio, che comprende i trionfi, anche elettorali, del socialismo nel collegio Rovigo-Ferrara, dove nel 1919, quando Matteotti venne eletto deputato, il partito dei lavoratori toccò punte del 70% dei voti, suscitando la viva preoccupazione degli agrari, che temevano di perdere privilegi e potere economico.
Di qui la spinta dei possidenti a foraggiare l’offensiva fascista contro le sedi del movimento operaio. L’ondata di violenze che ne derivò fu denunciata da Matteotti con puntualità, episodio per episodio. Il fatto è che questi non s’illuse neppure per un istante sulla natura del fascismo, né mai pensò che tale movimento potesse essere ricondotto alla normalità nell’alveo delle istituzioni liberali. Secondo Tamburano, attaccando il fascismo in ogni sede, a partire dal Parlamento, con la “spavalderia” di chi sembra cercare il martirio, Matteotti intendeva aprire gli occhi ai suoi compagni che, anche dopo la Marcia su Roma (ottobre 1922), non coglievano la gravità della situazione. Lo storico non riferisce i nomi dei socialisti riformisti che dimostrarono tanta miopia. Però, nella sequenza in cui la voce fuori campo recita quei brani in cui Matteotti polemizza con i suoi, ad esempio sottolineando che per combattere il fascismo “ci vuole gente di volontà e non degli scettici”, le immagini parlano chiaro. Tra i filmati e le foto d’epoca s’affaccia il volto di Filippo Turati. Il quale, in effetti, tardò oltre ogni ragionevolezza a capire come il fascismo fosse diventato la vera opzione delle classi dirigenti e continuò per molto tempo a vagheggiare alleanze con una presunta borghesia avanzata, esprimendo la denuncia delle violenze squadriste nei modi di un quieto legalitarismo.
In sostanza, in Giacomo Matteotti assistiamo ad una rapida ma efficace carrellata su fasi decisive dei primi decenni del Novecento. Tratteggiate con grande capacità di sintesi da storici che sembrano adeguarsi alle forme di una comunicazione immediata, quasi che il regista Luca Ricciardi non si sia limitato a riprenderli, ma li abbia anche “diretti” per rendere la loro interpretazione più funzionale alle esigenze della narrazione.
Il risultato è che si lascia allo spettatore l’idea di saperne qualcosa di più, ma anche una salutare sensazione d’inappagamento, che può spingerlo svolgere per conto proprio delle ricerche. Ora, a voler dare delle indicazioni bibliografiche complete, bisognerebbe districarsi tra gli innumerevoli titoli dedicati al socialismo italiano dei primi decenni del Novecento. Ci limitiamo a segnalare il toccante profilo di Matteotti che, pochi giorni dopo la sua morte, venne scritto da un’altra vittima illustre del fascismo, Piero Gobetti. Pubblicato per la prima volta su La Rivoluzione Liberale del 1° luglio 1924, e oggetto di diverse riedizioni negli ultimi anni, questo scritto restituisce un’impostazione etico-politica che, se non può essere un sicuro punto di riferimento per affrontare tutti i problemi dell’oggi, risulta comunque lontana da quella del PSDI, il partito che, nel secondo dopoguerra, si presentò come erede del socialismo riformista italiano. Infatti, la presenza nelle sue file d’un Matteotti (Matteo, figlio di Giacomo) non impedì a tale organizzazione di porsi di traverso rispetto a molte delle battaglie per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori di questo paese, Né di diventare rapidamente, a dispetto delle dimensioni non eccezionali, uno dei principali centri di corruzione della Prima Repubblica.
(4 Settembre 2012)
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