IL KEYNESIANESIMO GENETICAMENTE MODIFICATO DEI NEOLIBERISTI
di Riccardo Achilli
Premesso che certamente la ripresa
degli investimenti pubblici è fondamentale, a mio avviso il massimo
dell'elaborazione in materia di crescita non può essere quella sorta di
keynesianesimo alterato, impoverito, che sembra essere l'unica strada possibile
di ripresa di un minimo di flessibilità di bilancio per Monti e la Commissione
Europea. In questa impostazione, basata sulla golden o sulla copper rule, gli
unici investimenti pubblici che possono essere sdoganati rispetto alla regola
del pareggio di bilancio sono quelli che agiscono sui fattori di competitività
dell'offerta (R&S, infrastrutture strategiche, istruzione e formazione,
reti Ict ed energetico/ambientali) e che quindi hanno effetti sulla
produttività, nell'ipotesi sottostante che lo shock di produttività comporti
effetti di sostituzione e di reddito in grado di riportare verso l'alto la
curva della crescita, quindi l'occupazione e la domanda.
Questo tipo di keynesianesimo
"povero" è infatti aggiustato per essere coerente con gli schemi
neoclassici più moderni, come quelli elaborati da Lucas e Sargent nella NMC.
Sono infatti perfettamente coerenti con le teorie del "real business
cycle" emerse negli anni ottanta come applicazioni della NMC e della
cosiddetta critica di Lucas ai modelli macroeconometrici utilizzati dalla
programmazione economica keynesiana, quindi coerenti con una rifondazione
microeconomica delle teorie del ciclo, utile a supportare un approccio
neoliberista di politica economica. Tali modelli, che hanno anche generato una
classe di metodi statistici di previsione del ciclo (il più importante dei
quali è il filtro di Hodrick/Prescott) ci dicono sostanzialmente che le
fluttuazioni del ciclo dipendono da shock esogeni, dal lato dell'offerta che
comportano, come risposta efficiente da parte di agenti supposti razionali, una
serie di decisioni produttive, di consumo e di investimento o risparmio che
generano la fluttuazione ciclica. In altri termini, la fase recessiva del ciclo
sarebbe, secondo tali modelli, una risposta efficiente a uno shock esogeno che
incide negativamente sulla competitività, ovvero sulla produttività dei
fattori, e che serve a ricostruire le
condizioni per la ripresa della produttività, tramite un riaggiustamento verso
il basso del costo dei fattori per unità di prodotto. Per certi aspetti,
quindi, il modello di riferimento di Monti, di Barroso e della Merkel ritiene
che una recessione sa una sorta di meccanismo di aggiustamento, una
auto-terapia del sistema, perturbato da un evento anomalo esterno. Non lo
diranno mai, per ovvi motivi politico/elettorali, ma per loro una recessione,
anche drammatica, è un modo per riequilibrare gli scompensi interni al sistema.
Una spiegazione dell'attuale
depressione coerente con tali teorie è quindi che la bolla
immobiliare/finanziaria (anzi, le diverse bolle succedutesi dal 2007 ad oggi)
ha creato uno shock sulla quantità e qualità di credito sulla struttura dei tassi di interesse. Tale
shock esterno ha quindi prodotto, come razionale risposta degli agenti
economici, una contrazione degli investimenti, un conseguente peggioramento del
rapporto fra produttività e costo dei fattori (variabile correlata ovviamente
agli investimenti) e quindi una riduzione del livello di attività produttiva,
con effetti sull'occupazione e la domanda.
Ora, e questo è il punto più importante
da comprendere, tale impostazione NON ESCLUDE interventi di politica economica.
Semplicemente, esclude interventi di politica economica dal lato della domanda.
Le teorie del real business cycle, infatti, prevedono la necessità che il
soggetto di politica economica faccia investimenti pubblici, ma soltanto dal
lato del miglioramento/irrobustimento delle condizioni di contesto della libera
competizione di mercato, intervenendo cioè su quegli elementi che consentano di
assorbire gli effetti negativi sulla produttività totale dei fattori indotti
dallo shock esogeno. Quindi, investimenti pubblici su infrastrutture più o meno
presunte "strategiche" (TAV) o su R&S, innovazione tecnologica,
formazione continua, reti telematiche ed energetiche, sono ben accetti, se non
necessari. Se non sono stati fatti ancora in dose sufficiente, è solo perché
l'esigenza di stabilizzare le aspettative dei mercati finanziari riguardo alla
crisi del debito sovrano ha privilegiato una politica di tagli su tutto. E
perché una delle condizioni preliminari per "riassorbire" lo shock
esogeno era quella di imporre una ristrutturazione sociale, con l'obiettivo di
accrescere la produttività del lavoro rispetto al suo costo. E ciò richiede
anche uno smantellamento dei diritti del lavoro, per renderlo più ricattabile e
sfruttabile. Ed inoltre, anche perché è prevalsa la preoccupazione di
riassorbire gli effetti dello shock sul sistema creditizio, e ciò spiega perché
il quantitative easing già varato nel 2011 dalla Bce non ha prodotto alcun
effetto sull'economia reale, così come non lo produrrà nemmeno l'attuale nuovo
meccanismo di acquisto di titoli da parte della Bce: tali sistemi servono solo
per tenere in piedi il sistema creditizio, non per rilanciare la crescita (cosa
che è impossibile, atteso che i mercati monetari europei si trovano in una
condizione simile alla trappola della liquidità: le iniezioni di liquidità
aggiuntiva non generano modifiche nei comportamenti di credito delle banche, i
cui assetti finanziari e patrimoniali sono troppo compromessi, né sulla
propensione all'investimento, e quindi sulla domanda di credito, da parte delle
imprese, le cui aspettative di mercato sono troppo depresse).
Ma possiamo esserne certi: la fase 2
del montismo, che nel nostro Paese sarà interpretata da un centrosinistra
organico a tale disegno, punterà proprio su investimenti pubblici "dal
lato dell'offerta". E quindi è del tutto prevedibile che, in sede europea,
i Governi di Hollande e di una grosse koalition con dentro anche la Spd di
Steinbruck faranno spazio a tali politiche, adottando meccanismi di golden o di
copper rule.
Ciò che tale impostazione proibisce
sono le politiche di spesa mirate direttamente a sostenere la domanda per
consumi. Infatti, il riaggiustamento del ciclo dopo lo shock dipende, dai
modelli di real business cycle, proprio dai meccanismi di prezzo e di salario
sui quali una politica di sostegno ai redditi ed ai consumi genererebbe effetti
destabilizzanti sulle aspettative degli operatori, impedendo loro di
"riaggiustarsi" in modo razionale.
La crisi attuale, però, pur essendo
partita da fattori finanziari, è degenerata in una crisi di sovrapproduzione,
per cui la spesa sociale e redistributiva non può essere scartata, per il
semplice motivo che occorre riportare dentro il circuito della domanda
aggregata e del reddito quote crescenti di popolazione che via via ne sono
escluse. Altrimenti, l'unica via d'uscita dalla crisi sarebbe quella di
spingere ulteriormente sulla ristrutturazione sociale in atto, al fine di
acquisire una competitività di costo sufficiente a competere sui mercati delle
economie BRICS, portando le nostre società nel terzo mondo. Quindi il
keynesianesimo imbastardito per essere reso coerente con l'approccio dei
modelli liberisti, e che impedisce politiche redistributive e di sostegno ai
consumi, non ci farà uscire dalla crisi, a meno di non ridurci al livello del
Cile degli anni di Pinochet.
Oltre alle politiche di sostegno alla
domanda per consumi, ciò che l'approccio del real business cycle impedisce,
sono le politiche di regolamentazione dei mercati. Una regolamentazione
stringente dei mercati finanziari, tipo Dodd-Frank Act, una limitazione
dell'operatività sui mercati finanziari, tipo la Volcker Rule oppure il
Glass-Steagall Act, sono inconcepibili perché il riaggiustamento dei mercati
allo shock esogeno sarebbe reso, secondo tale approccio, meno flessibile
proprio dalle regolamentazioni pubbliche.
Quindi, chi si stupisce perché nella
carta di intenti del PD-SEL-PSI non si parla di reddito minimo garantito, di
sostegno ai consumi, di regolamentazione dei mercati finanziari, è servito:
tali politiche sono proibite dal modello macroeconomico del ciclo sottostante,
modello profondamente liberista ed anti keynesiano. Anche se si traveste di un
keynesianesimo di facciata.
Lo stesso keynesianesimo di facciata
informa la filosofia di fondo del “growth compact”, cioè il documento
comunitario sulla crescita recentemente proposto a Bruxelles. Al di là del
fatto che è una specie di carta di intenti (vanno di moda di questi tempi) che
richiama proposte già fatte e non ancora implementate, o anticipa proposte
future, e non ha un quadro finanziario (anche perché il bilancio Ue 2013 è in
fase di discussione, così come anche i fondi strutturali, ovviamente) è
l'impostazione teorica che è erronea: si continua a puntare sul rafforzamento
dei fattori di competitività dal lato dell'offerta (infrastrutture, apertura e
liberalizzazione dei mercati, mobilità transnazionale dei fattori, costi
dell'energia, omogeneizzaizone delle basi fiscali per le imposte sulle imprese,
ecc.) in una fase in cui la crisi è di sovrapproduzione, ed anche la crescita
della domanda dei mercati emergenti rallenta, mancano le azioni per il rilancio
della domanda, ed è completamente assente il capitolo sociale (se non per
qualche modesta azione di rafforzamento di Eures, o di omogeneizzazione dei
trattamenti pensionistici, ma anche queste inquadrate nella filosofia di
liberalizzazione/apertura dei mercati, cioè affette da un approccio
supply/side, che non solo non è redistributivo, in un momento in cui lo
schiantamento dei ceti medi produce una distribuzione dei redditi ad
"L", ma è anche inadeguato alla stessa crescita.
Dov'è il limite oltre il quale si passa
ad un keynesianesimo "de noantri", cioè una giustificazione per lo
spreco ed il parassitismo? Intanto dove non si utilizzano i criteri dello stop
and go, per cui la spesa pubblica rimane alta anche nelle fasi di ripresa del
ciclo, quando invece i cosiddetti ammortizzatori automatici andrebbero
definanziati, così come più ingenerale le componenti più sensibile al ciclo
della spesa pubblica (tipicamente, gli investimenti in opere pubbliche). E poi
laddove la spesa pubblica non incide significativamente sul circuito del
reddito: la spesa erogata per mantenere rendite di posizione che utilizzano in
modo inefficiente le risorse, o quella che sostiene redditi di fasce sociali a
bassa propensione marginale al consumo (p. es. sostegni al reddito erogati a
categorie sociali che non ne avrebbero realmente bisogno). Tutto ciò che sta
sotto tali limiti andrebbe autorizzato. Quindi non solo gli investimenti sui
fattori di offerta, ma anche la spesa pubblica per il sostegno della domanda.
Ad iniziare dal reddito minimo garantito.
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