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Gelli e Renzi secondo Luca Peruzzi |
REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016: ALCUNE RAGIONI (DI MERITO) PER VOTARE NO
di
Norberto Fragiacomo
Senza
troppi clamori né strepiti - quelli li suscita ad arte
l’«impronunciabile» stepchild adoption, che qualche dotto
sotto spirito vorrebbe tradurre con adozione del co-figlio (!) – il
DDL Boschi di riforma della seconda parte della Costituzione si
avvicina a luci spente al porto: ad approvazione avvenuta toccherà
agli elettori pronunciarsi, in un referendum che Matteo Renzi ha
pensato bene di tramutare in ordalia.
“Se
perdo me ne vado!” ha strillato il fiorentino, copiando il nuovo
amico Tsipras che, al principio dell’estate 2015, rese un’analoga
roboante dichiarazione, ed oggi si diverte a tagliuzzare pensioni da
fame. Azzardo o cortina fumogena?, è lecito chiedersi. Opterei per
la seconda lettura, visto che trasformare la consultazione in un
plebiscito sul premier consente di nascondere sotto il tappeto della
politica da osteria alcuni aspetti abbastanza inquietanti della
riforma.
In
questa breve analisi non mi soffermerò sulle novità più
appariscenti, quelle relative al passaggio dal bicameralismo perfetto
ad un demenziale monocameralismo e mezzo: rimando all’articolo
scritto domenica scorsa su Il Fatto da Marco Travaglio, capace di
dimostrare – dati alla mano – che il simulacro di Senato potrebbe
in molti casi rallentare, anziché accelerare, l’iter approvativo
delle leggi. La mia riflessione avrà ad oggetto le modifiche
apportate al Titolo V della Carta, già rivoluzionato nello spirito e
nei contenuti una quindicina di anni orsono da un precedente Governo
di “centro-sinistra”.
Com’è
noto, la L. Cost. 3/2001 offrì copertura costituzionale alle riforme
Bassanini, mutando i rapporti fra il centro e la periferia a
beneficio della seconda. L’intento era quello di dare concretezza
al principio fondamentale contenuto nell’art. 5 (che potremmo
riassumere così: piena autonomia degli enti locali in una cornice di
unità nazionale): da un lato si riscriveva l’art. 114,
riconoscendo eguale dignità a Comuni, Province, (futuribili Città
Metropolitane), Regioni e Stato; dall’altro, sul piano pratico, si
tipizzavano le materie di competenza legislativa statale –
esclusiva e concorrente – affidando la disciplina delle restanti
(“residuali”) alle Regioni. Insomma, la regola diventava
eccezione. La Riforma non si limitava a quanto descritto, ma mi sento
di dire che tutte le altre innovazioni (dal riconoscimento agli enti
della potestà statutaria al venir meno dei controlli esterni sugli
atti, dall’esplicitazione del principio di sussidiarietà alla
previsione di poteri sostitutivi statali) rappresentavano un
corollario, una conseguenza del cambio di prospettiva.