di Lorenzo Mortara
Il movimento per la
decrescita felice, il cui principale portavoce internazionale
è Serge Latouche, autore di ottimi libri, appartiene all’enorme
letteratura dei socialismi utopistici. Nonostante si spacci per
chissà quale novità, la decrescita non è che l’ultima variante
del mutuo soccorso, dei falansteri e di altre fantasticherie
ottocentesche. L’origine sociale è piccolo borghese, questo
aspetto già da solo basta e avanza per condannarla, perché la
piccola borghesia non può andare né avanti né indietro, di
conseguenza non ha futuro né che cresca con gioia né che decresca
con somma tristezza e viceversa. Il passato è dei feudatari, il
presente dei borghesi, il futuro dei proletari. Del regno rinsecchito
e felice dei piccolo borghesi, non ci sarà mai traccia. Nondimeno,
Latouche, proprio come i suoi padri, è animato da una genuina
volontà di porre rimedio ai mali del capitalismo. Proprio per questo
la sua opera, è comunque interessante e altamente istruttiva,
persino per noi, se non altro per le sue accurate ricerche. Se però
la decrescita non può resistere in un solo suo punto all’inesorabile
e spietata critica marxista, restandone irrimediabilmente al di
sotto, di fronte all’acefala critica liberale resterà sempre tre
spanne al di sopra, intangibile. La critica liberale alla decrescita
è tanto indecente quanto quella marxista è intelligente. Solo la
volgarità della borghesia e dei suoi cortigiani (in questo caso
cortigiane) non se ne rende conto.
A
prendersela con lo spauracchio della decrescita, La
Stampa, ha messo in questi giorni Irene Tinagli, 35 anni,
economista all’università del Borbone di Madrid, consigliera
sempre in materia d’economia per l’ONU e altri svariati enti
perditempo, nonché nuova maschera dell’attuale Italia Futura,
partito praticamente no-profit del profittatore Montezemolo, e di
conseguenza statua al museo delle cere nella stanza dedicata alle
eroine defunte per la nobile causa del PD, di cui è ormai un’ex
delusa. Non male per una martire della meritocrazia e della lotta
alla burocrazia, aver cominciato ad illudersi di far politica nel
covo degli ex stalinisti...
Questa
presunta talentuosa svenduta al profitto, critica dal profondo del
suo realismo l’illusione romantica della decrescita. Tuttavia,
piena di sé come è, non si accontenta di dire le solite sciocchezze
in materia, così per dare peso alle sue banalità canzona pure il
buon Ceronetti, un gigante al confronto, il quale dopo aver distinto
i beni necessari da quelli fatti puramente per trarre profitto,
invoca un ritorno ai primi per rimediare ai mali dei secondi.
L’errore del Ceronetti sta proprio qua, nell’illudersi che
esistano beni fatti per necessità e altri fatti per il profitto,
quando in realtà, sotto il capitalismo, necessario e superfluo
dipendono entrambi dal plusvalore. Una cosa necessaria che non
produca profitto diventa immediatamente superflua, così come una
cosa superflua che generi la più grande quantità di profitto
diventa immediatamente una necessità assoluta. Irene Tinagli,
ovviamente, non rimette a posto questo errore tecnico del Ceronetti,
ma preferisce accusarlo di romanticismo in contrapposizione al suo
pomposo realismo abbarbicato alle nuvole. Sarebbe bello tornare alla
produzione artigianale «se
non fosse che la distinzione tra beni volti alla soddisfazione di
bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali non è così netta
come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui
qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è)». Questo qualcuno che decide cosa sia essenziale è evidentemente
l’intellettuale Ceronetti. Per la gleba del Capitale è già
inquietante che a decidere cosa sia essenziale da produrre sia la
piccola borghesia intellettuale, figuriamoci che grado di isteria
raggiungerebbe qualora a decidere fossimo noi proletari, tuttavia se
lo fa il mercato, e cioè la grande borghesia cretina, l’inquietudine
sparisce e cede il posto all’euforia per aver conservato, libero
come un fringuello, il commercio indipendente e autonomo della
schiavitù.
Il
realismo della Tinagli consiste tutto qua, nella fede in questa
superstizione mercantile.
Dopo
aver toccato il punto più alto della sua critica, quella fatta da
Ceronetti al posto suo, Irene Tinagli scende a rotta di collo per il
suo articolo, inforcando tutti i luoghi più comuni della vulgata
liberista contro la decrescita. Dimostrando di non aver mai letto un
solo rigo della letteratura «decrescente»,
la giovane economista ci spiega che un’economia di sussistenza non
rinuncerebbe solo all’I-pad ma anche ai servizi sociali che lo
Stato offre grazie alla crescita. Non solo, senza crescita, per i
poveri sarebbe un disastro perché i ricchi un modo per arrangiarsi
lo troverebbero sempre. A dimostrazione delle sue tesi, elogia la
Cina che dal 1981 al 2001, con “l’apertura alla crescita
economica”, come la chiama lei, ha dimezzato la povertà; cita il
compagno burocrate Deng Xiaoping il quale ha sentenziato che «la
povertà non è socialismo»; infine di fronte alla contraddizione
cubana che ha osato crescere anche negli anni sessanta, si affretta a
distruggere il miracolo economico dell’isola perché fittizio, in
quanto foraggiato dalla vecchia Unione Sovietica. Morale (solita): è
per il bene di noi proletari che i borghesi vogliono crescere, ed è
sempre per il nostro bene che i loro profeti in gonnella cantano le
loro omelie.
Se
fossero vere le corbellerie sulla crescita, a crescita zero dovrebbe
corrispondere un livello stazionario delle prestazioni statali di
servizi, oggi quindi non
avremmo grandi problemi. Nell’economia stagnante dell’abbondanza,
anche i servizi dovrebbero ristagnare al livello elevato raggiunto.
Invece, nonostante un PIL 6 volte superiore a quello di 60 anni fa,
la crescita ha riportato indietro, a livelli ottocenteschi, il
movimento operaio. Per una Cina che con l’apertura al mercato ha
impennato la crescita dei Deng Xiaoping sulla miseria crescente di
masse proletarizzate, c’è anche una Russia che ha tentato di fare
la stessa cosa ed è collassata. I conti insomma non tornano finché
verranno fatti col pallottoliere della crescita interclassista, un
pallottoliere truccato e idealistico.
David
Ricardo spiegava nel capitolo Macchine
dei suoi Principi di
economia politica e dell’imposta
«che
un aumento del prodotto netto di un Paese è compatibile con una
diminuzione del prodotto lordo».
Traduzione: la crescita di borghesi e redditieri è possibile anche
in regime di stagnazione, purché la quota salari generali
diminuisca. Ed è grosso modo questo che sta succedendo oggi su scala
planetaria, perché la crescita non è che la crescita del profitto e
se aspettiamo lei per far crescere i salari, possiamo aspettare per
l’eternità. Per essere precisi, un briciolo di verità nella tesi
della crescita necessaria per il miglioramento del proletariato, c’è.
Infatti, con la crescita lorda, crescono anche i salari, qualora la
crescita complessiva sia superiore alla loro decrescita relativa. La
decrescita relativa dei salari è alla base della società
capitalistica. Se questa viene compensata da una maggiore crescita
produttiva allora anche noi abbiamo un beneficio per quanto relativo.
Se per esempio 100 operai producono 1000 automobili, l’innovazione
che consentirà la stessa produzione con metà del personale, porterà
a una crescita dei salari qualora la loro decrescita relativa del 50%
sarà compensata da un aumento della produzione superiore del 100%.
In questo caso e solo in questo caso, Capitale
Rendita & Lavoro
avranno tutti un beneficio netto in termini assoluti, anche se il
Lavoro
al prezzo enorme della sua perdita relativa. L’idea che solo la
crescita possa aumentare i salari, è appunto la credenza mitica che
la crescita assoluta del PIL possa compensare all’infinito la
perdita relativa del monte salari. Se Latouche è un romantico
illuso, Irene Tinagli e i borghesi non sono più nemmeno capitalisti
illuminati dalla ragione, essendo ormai regrediti ad oscurantisti più
o meno medioevali.
La
perdita relativa della quota salari, impone all’economia
capitalistica una crescita geometrica nel tentativo di recuperarla.
D’altra parte la crescita geometrica tende a ridurre gli sbocchi
necessari per il suo smaltimento, cioè a creare ostacoli sempre più
grandi sul suo cammino. Ne viene che la tendenza storica del
capitalismo è quella di dimezzare costantemente la crescita a fronte
della necessità per i salariati di vederla raddoppiata. Se nel
trentennio glorioso la crescita si aggirava attorno al 6%, prima
della crisi del 2008 faticava a superare il 3%. In futuro si ridurrà
ancora. Già nel 1991, lo ricorda Latouche nel suo Come
sopravvivere allo sviluppo,
era stato calcolato un obbiettivo 10% come traguardo minimo di
crescita annuale per mantenere tutti, poveri e ricchi, nel benessere
favoloso della società del profitto. Questo significa, a grandi
linee, che se ieri ci voleva il 10% di crescita annuale per togliere
dalla miseria tre miliardi e mezzo di persone, metà della
popolazione mondiale, oggi al di sotto del 20% c’è il rischio di
scaraventarci anche l’altra metà. Ergo la crescita per il bene di
tutti è pura ideologia borghese. E fin qui lo sapevamo. Sbugiardare
l’ideologia borghese della crescita non significa però cedere alle
lusinghe dell’ideologia piccolo borghese della decrescita. Nella
società attuale, capitalistica, sono i borghesi quelli che devono
decrescere, e possono farlo solo se crescono i salari. Guai se anche
un salariato volesse decrescere. Ci manca solo questo! Un salariato
che vuole decrescere, è solo un operaio che vuol aumentare lo
sfruttamento. I salariati invece devono voler crescere
smisuratamente. Tuttavia, la crescita dei salari non ha bisogno
necessariamente di una crescita generale. Così come i profitti
possono crescere anche in caso di calo di prodotto lordo, alla stessa
maniera possono farlo i salari, purché cali il profitto. Va da sé
che un aumento dei salari farà verosimilmente ripartire la crescita
generale. Ma in questo caso le difficoltà verranno dallo sciopero bianco
del Capitale. Più o meno come sta avvenendo in Venezuela, Paese che,
con la forte ridistribuzione del reddito che ha portato il movimento
bolivariano, dimostra in maniera lampante come al capitalismo anche
la crescita stia stretta quando non vada a beneficio del profitto ma
dei salari.
Quello
che la Futura Itaglia
delle Irene Tinagli vogliono con la crescita, è la crescita del
capitalismo. Noi invece vogliamo la sua decrescita come premessa del
suo azzeramento. Solo così possiamo avere grandi speranze di
crescita. E solo così possiamo darne anche qualcuna a Latouche e ai
“decrescitori”. La decrescita felice è infatti impossibile, ma
la crescita felice, cioè il ricambio organico con la natura, con una
produzione che aumenti o diminuisca, con tutti i servizi sociali
annessi, in perfetta armonia con l’ambiente circostante sarà
certamente possibile con il comunismo. Perché la miseria non è il
socialismo, ma la ricchezza di Deng Xiaoping lo è ancora meno,
perché non è altro che il capitalismo. E per la nostra crescita, in
fondo, ci vuole la crescita del marxismo, la nostra sola vera
ricchezza.
Stazione
dei Celti
Domenica
26 Agosto 2012
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