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giovedì 9 agosto 2012

Il piano industriale 2012-15 del Monte dei Paschi di Siena



Il piano industriale 2012-15 del Monte dei Paschi di Siena
Una maschera tecnica per un volto politico
di Sergio Cimino


Nella parte riservata alla redditività, il piano industriale del Monte dei Paschi di Siena 2012-15, si ripromette di ottenere un risparmio complessivo dal taglio del costo del personale, di 299 milioni euro.
Poco più della metà di questo importo, ossia 166 milioni di euro, dovrebbe provenire dalla esternalizzazione delle attività di back office, attraverso la quale, 2360 lavoratori si troverebbero ad avere un altro datore di lavoro, sulle cui prospettive di sostenibilità economica gettano due ombre profonde, sia  l’incongruità tra il prezzo che il Monte dei Paschi dovrebbe pagare alla società acquirente e l’attuale costo della gestione interna di tali attività, sia la gran parte delle esternalizzazioni succedutesi nella più recente storia industriale di questo Paese.
Per quanto riguarda il primo elemento, il piano industriale stabilisce un canone di servizio decrescente, che nel 2015 dovrebbe ammontare ad 80 milioni di euro.
In tre anni, in altre parole, la società cessionaria dovrebbe essere in grado di farsi carico della medesima operatività, potendo contare su meno della metà delle risorse impiegate dal Gruppo Monte dei Paschi, per lo svolgimento delle attività di back office all’interno del perimetro aziendale. Non solo. Ma quello stesso canone, drasticamente inferiore all’attuale costo operativo, dovrebbe coprire anche le tasse e i profitti della società di servizi acquirente. Due numeri, quello del risparmio preventivato e quello del prezzo da pagare al fornitore, che non riescono sostanzialmente ad avvicinarsi, anche se si considera che il risparmio sui costi operativi indicato in 166 milioni è comprensivo di una quota di costi fissi.
Fuori dalla asetticità dei numeri, vi sono 2360 lavoratori. 2360 esistenze  proiettate coercitivamente nell’area della precarietà.
Un costo umano e sociale senza alternative?
Nel conto economico dell’ultimo bilancio consolidato approvato ad aprile, le spese amministrative diverse da quelle inerenti il personale, ammontano a 1398 milioni di euro.
L’osservazione dei dati disaggregati, ci restituisce un quadro in cui l’entità di alcune voci stride con le dichiarate esigenze di taglio dei costi.
Giusto per limitarci ad alcuni esempi. Le spese per pubblicità, sponsorizzazioni e promozioni, ammontano a ben 58 milioni di euro. La voce relativa ai compensi devoluti a professionisti esterni, indica un totale di circa 108 milioni di euro. Per l’affitto di immobili, le spese relative all’anno trascorso, raggiungono invece i 267 milioni di euro.
Nonostante per tutte e tre le tipologie di spesa si registri un trend negativo rispetto all’anno scorso, la somma complessiva continua a sfiorare i 433 milioni di euro.
Una razionalizzazione (termine caro ai pianificatori aziendali dei nostri tempi) di tali spese, potrebbe coprire quasi interamente il risparmio perseguito con l’esternalizzazione delle attività di back office.
Sarebbe sufficiente un ridimensionamento dell’ordine dei due terzi relativamente a pubblicità, sponsorizzazioni e collaborazioni esterne ed un taglio di appena il 10% delle spese sostenute per affitto dei locali, per ottenere circa 138 dei 166 milioni di euro che gli organi di governo aziendale si aspettano dal progetto Zero Back Office.
Tutto questo senza neanche considerare il capitolo dei cospicui emolumenti relativi al top management.
L’analisi delle alternative tecnico-contabili fin qui condotta in estrema sintesi, può configurarsi come uno strumento idoneo a smascherare la falsa ineludibilità delle misure draconiane, che la parte padronale vuole imporre ai lavoratori.
La questione, pur con le dovute differenze di scala, ha una sua analogia con quanto si osserva nelle politiche governative nazionali e sovranazionali.
“There is no alternative” è il mantra che accompagna l’applicazione ormai trentennale delle ricette liberiste, alle quali viene attribuita una mistificante etichetta di neutralità scientifica, grazie al controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione di massa da parte del capitale, e ad un’egemonia culturale in ambito accademico, che ha emarginato le voci critiche di un modello ecologicamente insostenibile e socialmente iniquo.   
Al Monte dei Paschi si segue la stessa strada.
Denudare di una posticcia maschera tecnica la manovra che la parte padronale cerca di attuare, è allora la linea tattica che bisogna seguire, a patto però di inquadrarla in una cornice strategica che si contrapponga al senso politico degli obiettivi del piano industriale, che in estrema sintesi può essere definito come la strutturazione di un nuovo modello di banca.
Il passaggio dalla banca tradizionale ad una banca funzionale ad un mercato finanziario speculativo in espansione, cui abbiamo assistito in questi anni, ha avuto come contraltare organizzativo, la centralità delle tecniche di disciplinamento (corsi di formazione ideologici al posto di quelli tecnici), e la frammentazione della classe lavoratrice e della sua carica antagonistica, attraverso sia la segmentazione salariale, sia il coinvolgimento dei dipendenti nelle dinamiche azionarie.
Il nuovo modello di banca, i cui tratti emergono da quanto scritto nel piano industriale, fa perno su una redditività da servizi, con conseguente processo di disintermediazione, progressiva individualizzazione del rapporto di lavoro (con la parte variabile del salario destinata a divenire preponderante e una organizzazione del lavoro per obiettivi), salto di qualità nelle tecniche di disciplinamento, attraverso l’ambizioso progetto di comunicazione personalizzata, da perseguire mediante lo sfruttamento delle più innovative opportunità offerte dallo sviluppo delle tecnologie informatiche.
La contrapposizione politica con quanto intende fare il padrone, deve condurre ad una  battaglia che noi lavoratori siamo chiamati a portare avanti ad oltranza, senza mai smarrire la consapevolezza di essere gli unici produttori di valore.
Questa coscienza, deve spingerci a mettere in discussione il contenuto dispositivo della proprietà dei beni aziendali.
Dobbiamo agire  nella convinzione che la parte padronale, attraverso gli organi di governo che di essa sono espressione, è delegittimata dal prendere decisioni sul futuro della banca, in considerazione non solo di essere fautrice di un piano dalla più che dubbia sostenibilità economica e dall’inaccettabile impatto sociale, ma anche del fatto che le risorse pubbliche erogate per il rafforzamento patrimoniale (1), hanno superato il valore di mercato delle quote azionarie, producendo nei fatti una nazionalizzazione dell’Istituto.
Come ci ricorda Giorgio Cremaschi in un suo scritto sull’ILVA, esiste un articolo della Costituzione, il numero 43, il quale prevede che per
“fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale" (2)
Nessuno naturalmente si illude che una tale istanza possa essere fatta propria agevolmente da un potere politico asservito al capitale produttivo e finanziario, in virtù del riconoscimento della giustezza delle nostre posizioni.
E’ attraverso la nostra lotta, che dobbiamo imporre una realtà effettuale che vada in quella direzione, e che preveda innanzitutto il ritiro delle misure più inaccettabili contenute nel piano, pronti, di fronte all’eventuale intransigenza padronale, a predisporci ad una gradualità crescente della mobilitazione, che si concluda con l’affermazione di una politica aziendale socialmente inclusiva e proiettata, nei suoi contenuti industriali, sul lungo termine.
Lo sciopero è elemento cruciale della nostra lotta. Ma sulle modalità di esso, noi lavoratori, attraverso la discussione assembleare, dobbiamo iniziare a valutare l’opportunità di non rispettare le limitazioni poste dalla legge 146/90, nel caso in cui la controparte padronale volesse continuare a percorrere la strada del più bieco autoritarismo.
Anche solo un esternalizzato deve essere sentito da noi tutti come una grave sconfitta.
Così come anche un solo giorno senza le garanzie conquistate con il contratto integrativo, deve essere vissuto come una inaccettabile regressione delle condizioni di lavoro e di vita di noi tutti.

Sergio Cimino - lavoratore Monte dei Paschi di Siena
(1)     3,9 miliardi di euro, attraverso la sottoscrizione dello Stato dei cosiddetti “Nuovi Strumenti Finanziari”, così come stabilito dall’articolo 5, Capo II, del decreto legge n. 87 del 27 giugno 2012
(2)     Può essere utile ricordare che lo stesso decreto, all’art. 9, Capo II, prevede la convertibilità in azioni ordinarie degli strumenti finanziari sottoscritti, se richiesto dall’emittente (ossia dal Monte dei Paschi di Siena) 

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