Per fortuna, però, ci sono i corsi di formazione professionale… anzi, i compagni di corso: uno di loro, che gli States li conosce di prima mano per averci lavorato, mi ha suggerito un nome, William Blum, e mi ha pure prestato una copia di “Rapporti dall’Impero[1]”.
Il libro non è un vero e proprio saggio, bensì una raccolta di articoli (di “rapporti”/reports, per dirla con l’autore) scritti in un breve lasso di tempo: accanto a documentate monografie su temi specifici (la lotta al comunismo, i colpi di stato “sponsorizzati” dagli USA in Sudamerica e altrove, l’affaire Lockerbie, la detenzione sine die di agenti dell’antiterrorismo cubano) troviamo singole paginette scritte al volo, e persino botta e risposta via mail con critici e detrattori. Un testo illuminante? Mettiamola così: i rapporti forniscono notizie utili e danno conferme; a renderli particolarmente stimolanti è il fatto che a stenderli sia stato un americano doc.
Anzitutto: chi è William Blum? E’ lui stesso a presentarsi, senza reticenze: nato sulla costa orientale nel 1933, è stato – nella prima fase della sua vita – un bravo ragazzo americano, imbevuto di ideali patriottici e convintamente anticomunista. Tecnico informatico, si impiega al Dipartimento di Stato (anni ’60): presto, però, il sogno si tramuta in un incubo. Sono gli anni del Vietnam e il nostro scopre, con crescente, indignata sorpresa, che la stella polare della politica statunitense non sono affatto i valori quotidianamente sbandierati, ma qualcos’altro; che dietro le quinte si aggirano personaggi loschi e burattini spietati. La critica non è apprezzata: Blum abbandona una promettente carriera e matura una coscienza di oppositore. Entra in contatto con i gruppi trotzkisti, ma non si iscrive – afferma – a nessuna organizzazione: non tollera discipline ferree né dogmi, anche se dai suoi scritti traspare ammirazione e simpatia per i militanti comunisti. Preferisce definirsi un “anti-anticomunista”, un leftist – oltre che, ovviamente, un giornalista investigativo.
“Rapporti dall’Impero” è un’antologia di misfatti e di menzogne: quelle raccontate al mondo e a sudditi rintronati dalla “mafia imperiale” repubblican-democratica. Una delle vicende più dolorosamente emblematiche riguarda l’esplosione del Jumbo della Pan Am sulla cittadina scozzese di Lockerbie, nel 1988. Dietro l’attentato, si appura inizialmente, ci sono la Siria e l’Iran, ansioso di vendicarsi – quest’ultimo – dell’abbattimento, da parte degli americani, di un proprio aereo di linea pochi mesi prima. Dopo qualche tempo, improvvisamente, le indagini cambiano direzione: il colpevole va cercato in Libia! Sono forse emersi nuovi indizi? No, ci assicura Blum, ciò che non esiste non può emergere: sono cambiate, semplicemente, le urgenze strategiche, George Bush deve attaccare l’Iraq e ha bisogno del silenzioso avallo del vicino persiano (mentre Gheddafi fa le bizze). Si tratta di trovare le prove del coinvolgimento libico… e, se non ci sono, di fabbricarle. Nel 2001 Megrahi, un’ufficiale dei servizi segreti di Gheddafi, sarà condannato all’ergastolo per la strage: William Blum riporta lo sconcerto di alcuni giuristi scozzesi di fronte a una decisione che, vista la carenza di prove convincenti, apparve allora abnorme (il presunto complice, tra l’altro, fu assolto). Processo politico, dunque – ma lo scandalo Lockerbie è soltanto un grano di un’interminabile collana di occultamenti ed azioni criminose.
Lo scopo è sempre quello, perseguito da presidenze di ogni colore: mantenere il predominio statunitense sul mondo, “privatizzandolo” a beneficio di una ristretta elite economica[2].
L’autore ci conduce nell’Iran di Mossadeq, a Cuba, in Venezuela, ad Haiti e nella piccola, sventurata Grenada, per poi sfatare un’altra leggenda: quello dell’America costretta al contrattacco dal presunto “imperialismo” sovietico. Paesi baltici, Ungheria… Blum sostiene le ragioni del nemico giurato (talvolta, occorre dirlo, in maniera un po’ acritica, ma la tesi dell’URSS sulla difensiva nel dopoguerra era condivisa da Hobsbawm) e rintraccia un unico esempio di imperialismo moscovita: l’intervento in Afghanistan del ’79 – peraltro sollecitato dal governo locale, comunista ed impegnato a migliorare le condizioni economiche e sociali della popolazione. Gli Stati Uniti, invece, sono sempre in azione, e non si prevedono inversioni di rotta. Nel rapporto del 24 ottobre 2004 Blum si sofferma su un Obama ancora sconosciuto in Europa (pag. 244): “Poi leggo della nuova stella nascente dei democratici, Barack Obama, candidato al Senato e quasi certamente vincitore in Illinois, l’oratore del discorso chiave alla convention democratica nazionale. Ha dichiarato che appoggerebbe gli attacchi missilistici contro l’Iran se questo si rifiutasse di piegarsi alle richieste di Washington di sospendere immediatamente il suo presunto programma di armamenti nucleari. (…) Obama chiaramente vuol mostrare all’America che ha le carte giuste per fare il presidente, chiarendo subito che ha il principale requisito: nessuna inibizione a uccidere un gran numero di stranieri innocenti e indifesi.”
Certo, ammazzare è l’extrema ratio: in genere risulta più conveniente circuire le masse, creare – con i soldi di George Soros e l’esperienza nelle cospirazioni del National Endowment for Democracy (http://www.ned.org/) – le condizioni per una “rivoluzione democratica”, togliendo di mezzo governi pienamente legittimi ma sgraditi alla mafia imperiale. “Perché non ci sarà mai un colpo di Stato a Washington?” – si chiede provocatoriamente Blum, e si dà la risposta – “Perché a Washington non ci sono ambasciate americane (pag. 165).”
In effetti, a rendere piacevole la lettura del libro è proprio l’ironia con cui l’autore condisce pagine che, però, non risparmiano nessuno: non Jimmy Carter – presidente più onesto di predecessori e successori, ma irresoluto e prigioniero del sistema – non Michael Moore, che malgrado tutto continua a sbandierare un’insulsa fede democratica, non il replicante Kerry, oggi tornato in auge, né l’elettorato americano. L’elite statunitense è tenuta insieme da un collante ideologico, che non teme smentite perché, banalmente, rifiuta di prenderle in considerazione: il liberismo estremo. “Negli anni – così Blum, a pagina 296 – sono giunto alla conclusione che i motivi sotterranei dei fenomeni e/o la loro spiegazione sono per il 50% di natura politica o ideologica, il 20% sono frodi o manipolazioni “legali”, il 20% sono di natura psicologica e il 10% scientifica. (…) Ci dicono che il grande aumento del costo del petrolio è un classico esempio della legge della domanda e dell’offerta, immutabile come la legge di gravità. Tuttavia io resto scettico. Qua e là un gruppo di persone hanno giudicato che fosse giunto il momento per prendere decisioni che avrebbero soddisfatto il loro particolare desiderio: diventare ancora più ricchi.” Condivido l’analisi: le formule e i diagrammi che farciscono le pubblicazioni di economia mi sono sempre apparsi funzionali non tanto a dimostrare incontrovertibilmente (?) qualcosa, quanto a conferire a rappresentazioni più o meno fedeli della realtà un’aura sacrale che, al pari del latinorum di don Abbondio, intimidisce il cittadino comune. Non è poi così difficile quando si vuol raggiungere un determinato obiettivo dimostrarne a posteriori la giustezza e l’inevitabilità facendo ricorso ad artifizi pseudoscientifici, specie se si dispone di media capaci di plasmare l’opinione delle masse.
Il controllo dei mezzi di informazione permette al sistema di screditare gli oppositori, togliendo loro qualsiasi autorevolezza, riducendoli a macchiette: la caricatura è più efficace della prigione, e l’accusa di “complottismo” diventa un marchio d’infamia. Blum inquadra correttamente la questione: “Negli anni della guerra fredda, ogni volta che Washington era costretta a difendersi di fronte al mondo dalle accuse di comportamenti scorretti era consuetudine dei nostri servizi segreti e dei nostri media diffondere la convinzione che queste storie non fossero altro che maldicenze dei russi o di qualche altro malvagio comunista. (…) Dopo un po’ l’abituale reazione a queste fastidiose maldicenze era: «Oh, di nuovo la teoria del complotto» (Risate/pag. 329). “La prossima volta che sentite un portavoce dell’amministrazione fare delle battute su qualcuno che solleva dubbi sulle spiegazioni del governo a proposito di qualche avvenimento complesso, ricordate che banalizzare le teorie del complotto può essere una particolare forma di complotto (pag. 330)”.
Dal libro di Blum esce prepotente il ritratto di un paese nelle mani di una casta milionaria rapace, guerrafondaia e senza scrupoli, con una vision immutabile (arricchirsi a spese altrui) e infinite possibile di manipolare, provocare interferenze e far danno; sotto di essa vegeta un popolo inebetito e fanatico. Mentre leggiamo siamo tormentati da due domande: come mai gli permettono di esprimere critiche così gravi e – soprattutto – dettagliate? E poi: nonostante tutto, l’autore mostra, in vari passaggi, di credere ancora nei miti fondanti dell’America, la libertà e la democrazia. Possibile non si renda conto che ogni sua singola frase contribuisce a provare che questi valori sono finzione e che le masse, oltre ai governanti, sono irrimediabilmente guaste?
Al primo quesito è lo stesso Blum a rispondere (con una citazione), in maniera – secondo me – convincente: «In America puoi dire tutto ciò che vuoi» - disse una volta lo scrittore Paul Goodman - «basta che ciò che dici non crei onde» (pag. 328). E’ quasi un’ammissione di impotenza, un’amara presa d’atto – da parte del giornalista-scrittore – che le sue denunce suscitano maggiore attenzione all’estero che in patria. L’americano medio non sa neppure chi sia William Blum: discorrendo l’altra sera a cena con due turisti d’oltreoceano (libertarians, cioè “anarchici” antistatalisti di destra: roba da far impallidire il famigerato Tea party!) ne ho avuto conferma. Attenzione! le parole sono tollerate, ma guai a protestare, anche pacificamente, nelle strade: per chi dissente ci sono manganellate, spray urticanti e gattabuia (v. le aggressioni squadriste della polizia ai militanti di Occupy Wall street).
Il secondo interrogativo è più complesso, e apparentemente senza soluzione. Credo che la chiave di lettura stia in una frase tratta dalla seconda di copertina: “William Blum ama il suo paese e non può resistere alla tentazione di risvegliarlo dal letargo” (o di provare a farlo). Vi sembra assurda come spiegazione? A me no: questo arzillo, simpatico e combattivo ottantenne non ha il cuore, malgrado tutto, di rinnegare il mondo in cui è nato e vissuto. Non vogliamogliene per questo: la sua testimonianza è comunque preziosa.
“Rapporti dall’Impero” è un libro da leggere, per capire meglio (anche) ciò che da alcuni anni sta succedendo in Europa.
Norberto Fragiacomo
[1] Fazi Editore, 2005.
[2] “Un’altra idea economica che raramente viene messa in discussione è quella dell’efficienza privata versus l’inefficienza pubblica. Quante volte abbiamo letto di una qualche impresa governativa che veniva privatizzata perché era “inefficiente”? A molti sembra la cosa giusta da fare, ma allora non dovrebbero anche le imprese private inefficienti essere nazionalizzate?” – e W. Blum cita l’esempio dell’industria immobiliare, “incapace di offrire un profitto decente e allo stesso tempo fornire case a prezzi accessibili a tutti gli americani (pag. 301).”
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