Nel maggio 1975, il Partito Socialista francese,
per uscire dalla crisi del sistema capitalistico con un'alternativa di modello che desse centralità ai problemi
del lavoro, approvava all'unanimità il socialismo dell'autogestione. Il punto
di partenza era arrivare al potere con un programma comune alle altre forze
della Sinistra, l'obiettivo dare centralità all'esperienza diffusa
dell'autogestione pianificandola e ponendola in stretta relazione con gli enti
locali, le regioni e il potere centrale;
per arrivare a trasformare profondamente le strutture dello Stato e il governo
dei processi del lavoro durante una legislatura.
Qualche mese dopo, il grande socialista francese
Gilles Martinet, scomparso qualche anno fa, in questo interessante articolo
spiegava ai socialisti italiani impegnati in un importante dibattito
sull'Alternativa socialista, le tesi del socialismo dell'autogestione portate
avanti dal Partito Socialista francese.
Oggi rileggerlo può essere utile a chi voglia costruire finalmente un'alternativa
di modello in questo Paese, perché vi è delineato un metodo generale per
realizzare delle politiche del lavoro più efficaci e più giuste, in quanto
pensate dal basso attraverso la partecipazione diretta dei lavoratori alla
gestione delle aziende e sostenute e pianificate dallo Stato.
Marco
Zanier
ESPERIENZE E PROSPETTIVE IN FRANCIA
di Gilles Martinet
Perché
la Francia è il paese in cui l'influenza delle idee dell'autogestione
socialista, o meglio, diciamo, del“socialismo autogestito”, è oggi più forte?
A questa domanda non si può che dare
una risposta complessa.
Innanzitutto,
occorre ricordare che al principio del secolo il sindacalismo francese è
sindacalismo di minoranza, ma rivoluzionario. Per i dirigenti e i militanti
della vecchia Confederazione generale del lavoro (CGT) l'obiettivo è l'officina
agli operai, la miniera ai minatori. Quei militanti sono operai altamente
specializzati e pensano che non si possa essere rivoluzionari senza conoscere a
fondo il proprio mestiere perché solo in questo caso è lecito sperare di
prendere il posto del padrone.
Lo
sviluppo della grande industria meccanica e, in seguito, la prima guerra
mondiale frantumano questo movimento. Qui come altrove, è l'organizzazione di
massa centralizzata che risponde alle esigenze di una classe operaia, la quale
risponde allo sfruttamento capitalista ma è turbata dal problema delle
competenze. Essa non si sente capace di gestire direttamente delle imprese
ormai divenute troppo vaste e complesse. Ed è appunto ai partiti con vocazione
operaia che la classe operaia darà la sua fiducia per poter tentare un giorno
di governare in nome proprio e nei propri interessi.
La
fiamma proudoniana, libertaria, svanisce ma la brace non è ancora del tutto
spenta. Il fuoco si riaccenderà un mezzo secolo dopo in una delle tre
organizzazioni sindacali francesi, la Confederazione francese democratica del
lavoro (CFDT).
E'
infatti la CFDT a parlare per la prima volta di autogestione nel 1968, anche se
è vero che questa formula era già stata utilizzata l'anno avanti da due delle
sue federazioni, quella della chimica e quella dei tessili.
La
ricomparsa del principio di autogestione nella CFDT non può essere separata
dalle origini cristiane di tale sindacato. Esiste oggi in Francia un movimento
socialista cristiano molto forte. Quello lo era assai meno, esso soffriva delle
inibizioni di fronte ai marxisti in
genere e ai comunisti (o ex comunisti) in particolare e si sforzava di parlare
il loro linguaggio. Ma nessuno si sente veramente a suo agio in un'identità
presa in prestito.
Così,
nel suo processo di espansione, il movimento socialista-cristiano ha sentito il
bisogno di definire una dottrina originale che non fosse necessariamente
cristiana, poiché il movimento andava spogliandosi del suo carattere
confessionale, ma che non si confondesse con quella delle organizzazioni
tradizionali, cioè la dottrina della socialdemocrazia e del comunismo.
Tuttavia,
gli elementi che ho qui ricordati (cioè la ricomparsa di una vecchia tradizione
sindacalista rivoluzionaria e l'evoluzione degli ambienti cristiani) non
sono elementi determinanti.
Niente
di importante sarebbe avvenuto se dal maggio del 1968 non fossero emerse
rivendicazioni e nuove forme di lotta. Queste rivendicazioni e queste lotte non
costituiscono un fenomeno puramente francese. Queste rivendicazioni e queste
lotte non costituiscono un fenomeno puramente francese. Le ritroviamo in tutta l'Europa industriale e direi che, su
questo piano, l'Italia è stata teatro di battaglie di ben altra ampiezza
rispetto a quelle combattute in Francia. Il “Joint francais”, LIP, Rateau, le
Nouvelles Galeries de Thionville, Manuest, eccetera, sono stati avvenimenti
spettacolari e, a mio avviso, molto significativi, ma non rappresentano che una
parte delle lotte di rivendicazione.
Comunque,
qui come altrove, la contestazione delle condizioni di lavoro, il rifiuto dei
vecchi metodi di direzione, di comando e di gestione, la volontà di controllo,
la gestione democratica delle lotte hanno mostrato la loro forza durante gli
ultimi sei o sette anni. E queste lotte costituiscono lo sfondo del quadro sul
quale si sono andate affermando le idee dell'autogestione.
A
tutto ciò occorre aggiungere un altro fenomeno, di cui si parla meno
volentieri, a che è l'evoluzione di una non trascurabile parte
dell'intellighenzia tecnica, la quale non accetta più la monarchia padronale.
Nel
maggio del 1968 la maggior parte delle imprese, in cui sono stati realmente
impostati i problemi di gestione, sono delle aziende che contano dal 25 al 50
per cento di quadri, di ingegneri, di ricercatori e di tecnici: industrie
elettroniche, uffici di studio, laboratori medici, eccetera.
Non
vi è dubbio che gli strati tecnici si trovano in una situazione ambigua. Essi
forniscono al capitalismo i suoi migliori manager e al socialismo
dell'autogestione una buona metà dei suoi teorici. Questa è la realtà di cui si
deve tener conto.
A
tutte queste ragioni, infine, aggiungo la trasformazione del Partito socialista
francese. Il suo declino è stato terribile e il cambiamento gli si è imposto
come una questione di vita o di morte. Ma il cambiamento è stato possibile solo
in quanto il vecchio partito ha accettato l'innesto di quella nuova sinistra
che si era formata nel corso degli anni '60 e che nel 1968 aveva quasi
unanimemente aderito alle tesi dell'autogestione.
Noi abbiamo dunque una corrente “autogestionista” costruita prima dalla CFDT e dal PSU (Partito socialista unificato), poi dalla CFDT e dal Partito socialista che è oggi- sul piano elettorale- il più importante partito di sinistra e forse anche il primo partito francese.
Tale partito, nei giorni 21 e 22 del giugno prossimo, terrà un convegno nazionale sull'autogestione. Il progetto di tesi, che servirà di base alle discussioni e che, mercoledì scorso, nella mia qualità di relatore, ho fatto adottare dall'esecutivo del partito, è attualmente alle stampe.
Noi abbiamo dunque una corrente “autogestionista” costruita prima dalla CFDT e dal PSU (Partito socialista unificato), poi dalla CFDT e dal Partito socialista che è oggi- sul piano elettorale- il più importante partito di sinistra e forse anche il primo partito francese.
Tale partito, nei giorni 21 e 22 del giugno prossimo, terrà un convegno nazionale sull'autogestione. Il progetto di tesi, che servirà di base alle discussioni e che, mercoledì scorso, nella mia qualità di relatore, ho fatto adottare dall'esecutivo del partito, è attualmente alle stampe.
Vorrei
ora evocare qualcuno dei temi che verranno discussi dai socialisti francesi e in primo luogo quello della scelta delle
grandi opzioni sociali.
***
Nella logica capitalista, un progetto viene
adottato in base alla sua redditività a breve o medio termine. Nella
logica socialista, esso è scelto in funzione della sua utilità sociale e
della quantità di lavoro più o meno grande che la sua realizzazione
comporta. Ciò pone due interrogativi fondamentali ai quali le esperienze
intraprese in nome del socialismo non hanno dato fino ad ora soddisfacente
risposta.
1.
Quali sono i criteri dell'utilità sociale? Per molto
tempo, è stata accettata la nozione di bisogni essenziali. Si tratta di un
concetto facilmente definibile in una società economicamente arretrata in cui i
problemi da risolvere sono di natura essenzialmente materiale, ma esso si
rivela del tutto insufficiente nelle società sviluppate come lo sono quelle
nostre europee. Infatti non si tratta più di determinare le quantità di
derrate, di materie prime, di prodotti finiti e
di servizi da fornire in base a un ordine di precedenza. Occorre anche
tener conto del modo in cui viene effettuata la produzione, delle novità e dei
traumi che essa può provocare, delle forme di habitat realizzabili, eccetera.
In altri termini, l'occupazione, il diritto al lavoro, le condizioni di lavoro
e il quadro della vita fanno parte dei criteri di utilità sociale, come ne
fanno parte i problemi di formazione e di informazione, la politica della
sanità, i provvedimenti che favoriscono l'emancipazione della donna, eccetera.
Quindi l'utilità sociale non risponde più semplicemente a quei dati obiettivi che
dei dirigenti o dei tecnici illuminati avrebbero il compito di determinare.
Essa è un'utilità voluta e decisa.
2.
Chi decide sull'importanza di tali criteri? La
molteplicità delle scelte da operare implica l'esistenza di numerosi livelli
decisionali. Per tutti i casi in cui ciò è possibile, occorre una
partecipazione diretta all'elaborazione della decisione. Evidentemente, non si
può organizzare il lavoro in un reparto di officina o in un altro ufficio, far
funzionare una cooperativa agricola o impiantare nuove attrezzature in un
determinato quartiere se tutti i dati dei problemi da risolvere non sono prima
acquisisti dai lavoratori o dagli abitanti interessati. L'intervento di nuclei
militanti, nonché quello dei tecnici, è pertanto indispensabile. Ma esso deve
rimanere al livello della proposta e del consiglio, dato che la decisione
spetta alla collettività dal momento in cui le dimensioni di quest'ultima
consentono alla sua assemblea di essere cosa diversa da un luogo di
informazione e di manovra. Il controllo di questa decisione ne sarà grandemente
facilitato.
E'
chiaro, però, che quando gli orientamenti concernono un quadro più vasto
esigono altre forme di intervento democratico e cioè il voto sulle opzioni che
debbono essere prese solo a livello nazionale, dopo una larga informazione
popolare e un dibattito a tutti i livelli. Ma se si vuole evitare una
predominanza burocratica, occorre lasciare la massima autonomia a tutte le
collettività, grandi e piccole, fermo restando che tali collettività agiranno nel
quadro di un piano di insieme, globalizzando le diverse scelte.
La rimunerazione del lavoro dovrà essere una delle poste della dialettica democratica. Nella società capitalistica, la misura in cui un “lavoro complesso” deve essere pagato meglio di un determinato “lavoro semplice” è indicata dallo sviluppo del mercato e dall'evoluzione del rapporto fra le forze sociali, ma anche da criteri ideologici. I teorici del socialismo hanno dimostrato come le inuguaglianze considerate “naturali” delle classi dirigenti potrebbero essere progressivamente superate. Ma, sin dalla prima fase della costruzione socialista, la condizione di questa trasformazione, che incide sul concetto stesso di lavoro dipendente, è l'impegno di adottare un sistema che possa rendere trasparente il meccanismo della formazione dei redditi, al livello di ogni unità economica.
La rimunerazione del lavoro dovrà essere una delle poste della dialettica democratica. Nella società capitalistica, la misura in cui un “lavoro complesso” deve essere pagato meglio di un determinato “lavoro semplice” è indicata dallo sviluppo del mercato e dall'evoluzione del rapporto fra le forze sociali, ma anche da criteri ideologici. I teorici del socialismo hanno dimostrato come le inuguaglianze considerate “naturali” delle classi dirigenti potrebbero essere progressivamente superate. Ma, sin dalla prima fase della costruzione socialista, la condizione di questa trasformazione, che incide sul concetto stesso di lavoro dipendente, è l'impegno di adottare un sistema che possa rendere trasparente il meccanismo della formazione dei redditi, al livello di ogni unità economica.
Così,
in base a una nuova definizione dell'utilità sociale e alla democratizzazione
dei meccanismi decisionali, l'attuale divisione sociale del lavoro sarà
progressivamente rimessa in causa con tutto quel che essa implica di
sfruttamento e di alienazione. Qui, non si tratta soltanto del campo economico.
I valori gerarchici stabiliti dalla società capitalista concernono tutti i
settori della vita sociale: rapporti fra uomini e donne, fra giovani e adulti,
fra docenti e discenti, fra popolazione attiva e popolazione assistita,
eccetera. E' la pratica che più sovente permetterà di precisare l'asse di
trasformazione, ma taluni obiettivi appaiono già come prioritari: decompartimentazione
della scuola e dell'apparato giudiziario, decentramento dei mezzi
d'informazione, controllo collettivo sull'habitat.
Sarebbe
tuttavia pericoloso attenersi alla definizione dei tratti originali del
progetto di autogestione, il quale effettivamente ha senso solo nella misura in
cui gli obiettivi che promuove e l'azione che implica poggiano sui tre pilastri
fondamentali di ogni politica socialista e cioè: la socializzazione dei
principali mezzi di produzione, la pianificazione democratica e la trasformazione
dello Stato. Occorre dunque precisare in qual modo il progetto di autogestione
modifichi le concezioni che si potevano avere nel passato della
socializzazione, della pianificazione e delle istituzioni politiche e
amministrative.
Il
programma comune prevede che il governo della sinistra “realizzerà
progressivamente il trasferimento alla collettività dei principali mezzi di
produzione e degli strumenti finanziari attualmente nelle mani dei gruppi
capitalistici dominanti”. Ed aggiunge che tale trasferimento deve effettuarsi
in maniera differenziata e che la “nazionalizzazione non deve essere
statalizzazione”. Dal canto suo, il programma del Partito socialista va al di
là di questo concetto di nazionalizzazione, prevede varie forme di socializzazione
e indica che, sin dai primi mesi, dovranno essere intrapresi degli esperimenti
di autogestione nel settore
socializzato. Il programma aggiunge che l'attuazione di queste nuove strutture
“non costituirà mai una concessione”, ma formerà l'oggettodi accordi che
dovranno essere negoziati fra i “parthners” responsabili. Ciò presuppone che il
partito dovrà astenersi dallo stabilire progetti particolareggiati “da prendere
o lasciare”; ma non implica che occorra attendere la vittoria della sinistra
per discutere tali progetti con gli interessati. Sperimentazione non è sinonimo
di improvvisazione.
Varie opzioni possono essere prese in considerazione:
- un consiglio di amministrazione che attui la gestione tripartita prevista dal programma comune: rappresentanti eletti dai lavoratori, rappresentanti dello Stato (o delle regioni), rappresentanti di talune categorie di lavoratori.
-
un consiglio di gestione interamente eletto dai
lavoratori dell'impresa. Il suo stato giuridico potrebbe essere analogo a
quello delle cooperative operaie di produzione e si adatterebbe in particolar
modo alle aziende di media grandezza e a certe industrie importanti come
dimensioni, ma il cui tipo di produzione non richieda un controllo diretto
degli utilizzatori o dello Stato;
-
possiamo ancora prevedere la sovrapposizione
dell'anzidetto consiglio di gestione eletto dai lavoratori di un consiglio di
sorveglianza composto da rappresentanti dello Stato, rappresentanti delle
assemblee nazionali, regionali o locali (a seconda dei casi) e rappresentanze
di talune categorie di utilizzatori. Questa formula converrebbe più
specialmente ai servizi pubblici di primaria importanza. Nell'ipotesi di una
nazionalizzazione delle industrie situate a monte o a valle della produzione
agricola, si può anche pensare a un consiglio di sorveglianza che sia composto
dai delegati delle organizzazioni rappresentative del mondo rurale.
In ogni caso, deve essere ben chiaro
che la nuova legittimità è fondata su un potere delegato e responsabile dei
suoi atti di fronte ai lavoratori. E' essenziale, inoltre, che le competenze di
ciascun livello decisionale (reparto di officina, servizio, comparto) siano
chiaramente definite in modo da corrispondere a una pratica reale della
democrazia. Per esempio: per il reparto di officina o per il servizio,
organizzazione del lavoro, definizione dei compiti, norme di produzione,
condizioni di sicurezza; per il comparto, distribuzione del lavoro, relazioni
fra servizi e reparti; per l'azienda, ventaglio dei salari, precisazione degli obiettivi
di produzione, politiche d'investimento.
L'elezione di organismi responsabili da parte dei lavoratori non risolve tutti i problemi di democrazia nell'azienda. Il rapporto mandante- mandatario può far risorgere, almeno in parte, il rapporto dirigente- subordinato. Gli jugoslavi lo hanno apertamente riconosciuto dopo venti anni di esperienza di consigli operai. Il controllo deve essere quindi esercitato in modo autonomo attraverso i comitati d'azienda e sotto l'impulso dei sindacati. Anche qui le forme di intervento possono variare. Ma le persone cui spetta l'esercizio del controllo debbono disporre di un effettivo potere di investigazione: occorre che sia loro concessa la facoltà di esercitare in certi casi (analogamente a quanto prevede il programma comune per le condizioni di lavoro) un diritto di veto sospensivo che comporti il ricorso all'arbitrato di una istanza della pianificazione democratica.
L'elezione di organismi responsabili da parte dei lavoratori non risolve tutti i problemi di democrazia nell'azienda. Il rapporto mandante- mandatario può far risorgere, almeno in parte, il rapporto dirigente- subordinato. Gli jugoslavi lo hanno apertamente riconosciuto dopo venti anni di esperienza di consigli operai. Il controllo deve essere quindi esercitato in modo autonomo attraverso i comitati d'azienda e sotto l'impulso dei sindacati. Anche qui le forme di intervento possono variare. Ma le persone cui spetta l'esercizio del controllo debbono disporre di un effettivo potere di investigazione: occorre che sia loro concessa la facoltà di esercitare in certi casi (analogamente a quanto prevede il programma comune per le condizioni di lavoro) un diritto di veto sospensivo che comporti il ricorso all'arbitrato di una istanza della pianificazione democratica.
Così,
durante il primo periodo di transizione verso il socialismo (che, a nostro
avviso, può essere iniziato con l'applicazione del programma comune) il sistema
economico comprenderà tre settori:
-
un settore nazionalizzato la cui direzione sarà
assicurata dallo Stato
-
un settore privato il cui stato giuridico resterà
invariato salvo per quanto concerne gli incentivi e i controlli del piano e
l'estensione dei diritti dei lavoratori
-
un settore autogestito.
L'espansione di quest'ultimo dipenderà sia dall'importanza delle creazioni collettive, sia dallo sviluppo del controllo negli altri settori.
E'
l'esperienza acquisita attraverso questo controllo che, nella maggior parte dei
casi, farà maturare la possibilità del passaggio dallo stato di
nazionalizzazione a quello di autogestione. Il progetto di autogestione
si realizzerà attraverso un lungo processo che può e deve essere iniziato dal
momento in cui le forze socialiste si assicureranno il predominio nei più
importanti settori.
La
pianificazione fa parte integrante di una società autogestita per la quale
rappresenta non un limite, ma uno dei fondamenti essenziali. L'autogestione,
infatti, non è un semplice metodo di gestione destinato a sostituire il
capitale con il lavoro, come agente di direzione dell'impresa, e a utilizzare i
riflessi egoistici delle unità di base e dei loro lavoratori, perpetuando i meccanismi
e gli impulsi del capitalismo.
L'autogestione
rispetta l'autonomia delle unità di produzione e di servizio, poiché garantisce
il decentramento delle decisioni, avvicinandole alla base; ma tali decisioni
debbono essere prese in vista degli obiettivi sociali da raggiungere, stabiliti
dai piani nazionali, regionali, locali.
Una
siffatta pianificazione non consiste in un semplice orientamento destinato a
migliorare un meccanismo economico già esistente; e non può limitarsi a fissare
un tasso di espansione. La sua missione è quella di decidere, in ultima istanza
e in funzione dei bisogni espressi, fra varie opzioni fondamentali.
La necessità di conciliare l'autonomia dell'impresa e la nazionalizzazione degli obiettivi della collettività sembra imporre:
-
il ricorso alla nozione di contratto, con
constatazione degli impegni reciproci fra la collettività e i garanti di un
bene pubblico, affidando a questi ultimi la responsabilità esecutiva dei loro
impegni. In pratica, questa analisi dovrebbe portare l'impresa a concludere con
lo Stato da una parte e con le collettività teritoriali dall'altra dei
contratti validi per periodi corrispondenti a quelli del piano nazionale, ma
rivedibili, per esempio, ogni due anni, onde tener conto del reale andamento
della situazione economica;
-
un altro obiettivo è la limitazione dei meccanismi
di autofinanziamento. Anche su questo punto l'esperienza jugoslava ci offre un
prezioso contributo. L'impresa che sia in grado di utilizzare notevoli profitti
mostra spesso la tendenza a seguire la propria logica senza tener conto degli
imperativi del piano;
-
un terzo obiettivo è l'adozione di procedure di
controllo sull'esecuzione degli impegni assunti dalle parti. Il controllo non
dovrà essere troppo gravoso durante l'esecuzione del contratto; al termine del
piano, dovrà essere presentata agli organi rappresentativi delle varie
collettività pubbliche una relazione particolareggiata sull'esecuzione degli
impegni assunti dallo Stato e dalle imprese, come pure sulle conclusioni che
sarebbe opportuno trarre dall'esperienza effettuata.
Dato che la pianificazione socialista traduce una scelta politica della società, è indispensabile che un impulso di tal natura emani dal livello nazionale. E' importante quindi che il periodo lungo di pianificazione coincida con la durata di una legislatura di modo che le elezioni possano trovare un preciso fondamento sulle scelte nazionali.
Si
può ritenere che, appena ultimato il rodaggio dei meccanismi, le imprese
verranno collegate a uno dei livelli della pianificazione (nazionale,
regionale, locale) a seconda della loro importanza e della loro finalità.
Nel
suddetto quadro, bisognerà ideare un sistema di prezzi a liungo termine,
che consenta di orientare la produzione in funzione degli obiettivi del piano.
Gli
obiettivi del progetto di autogestione non potrebbero essere raggiunti senza la
conquista del potere di Stato, senza la trasformazione delle funzioni e della
natura di questo Stato e senza la comparsa di nuove forme di potere. La
decisione deve essere presa al livello più vicino possibile a quello di coloro
che vi sono interessati.
Una
delle tesi che noi in Francia discutiamo concerne appunto il problema della
trasformazione delle strutture statali. Come voi sapete, il programma comune è
piuttosto sommario, per non dire assai debole su questo punto. Si parla di
un'avanzata verso il socialismo o più esattamente di aprire la via al
socialismo, ma si conserva la sostanza della costituzione gaullista.
Ora,
se noi dovessimo verosimilmente prendere il potere dello Stato, così come esso
funziona oggi, con la sua amministrazione, la sua giustizia, il suo esercito,
la sua polizia, non potremmo certo rimanere su quelle posizioni. Dobbiamo
prendere il governo e, nello stesso tempo, cambiarlo. Altrimenti, saremmo alla
mercé di un ritorno in forze della borghesia e, forse come in Cile, di un
intervento militare.
Le
nostre commissioni di studio hanno fatto delle proposte in tutti i campi
interessati. Esse attribuiscono una grande importanza al trasferimento di una parte
degli attuali poteri dello Stato sia alle regioni che a enti o servizi autonomi
posti sotto il controllo delle assemblee elette. Prevedono inoltre la
trasformazione di un sistema d'insegnamento e un decentramento dei mezzi
d'informazione mediante un massiccio utilizzo delle nuove tecniche di stampa e
dei mezzi audio- visivi. Su taluni punti ci troviamo di fronte a molte
difficoltà. Questo è il caso per quanto concerne l'esercito. Noi non crediamo
che si possa neutralizzare l'esercito, chiedendogli di essere politicamente
neutrale. Dobbiamo avere con noi non solo una gran parte dei soldati, ma anche
una buona quota di ufficiali e sottufficiali. Abbiamo creato infatti dei
comitati di movimento per il nuovo esercito dei quali fanno parte numerosi
ufficiali: le loro posizioni sono oggi condivise dalla maggioranza dei membri
dell'esecutivo del partito, ma non da tutto il partito. Non è tanto il concetto
di difesa popolare a scandalizzare il partito, quanto la concessione che viene
fatta fra difesa popolare e armamento atomico.
Ma questa è l'unica contraddizione che evitiamo di mettere in evidenza. Al contrario, e per tutto il resto, ci sforziamo di distruggere una certa immagine semplicistica e mitica dell'autogestione. Alcuni partigiani di quest'ultima evitano i riferimenti alle sperimentazioni e, in primo luogo, all'esperienza jugoslava. Noi, invece, cerchiamo di analizzarla, perché essa ci illumina su quei problemi che, in un modo o nell'altro, sotto questa o quella forma, ritroveremo sul nostro cammino. E così sappiamo già che gli operai mostreranno la tendenza a eleggere dei quadri per i consigli di gestione e che la tentazione della tecnocrazia sarà forte, che i vecchi rapporti dgerarchici non saranno modificati se all'elezione dei responsabili non faremo seguire un controllo permanente sulla loro gestione, che lasciando alle imprese una quota troppo grande dei loro profitti rischieremmo di favorire l'egoismo d'impresa e la comparsa di un capitalismo collettivo. Noi non vogliamo fare dell'autogestione un'utopia per gli anni duemila, ma, sin dal nostro arrivo al potere, vogliamo creare un quadro nel quale divenga possibile l'evoluzione verso
l'autogestione.
Noi non ragioniamo come se esistesse solo un'opposizione tra borghesia e
proletariato. Noi insistiamo invece sul fatto che la classe dei
lavoratori dipendenti non è omogenea, che essa è attraversata da rivendicazioni
e aspirazioni molto differenti, che tensioni, lotte, scontri saranno
inevitabili anche quando verrà rovesciato il potere dei monopoli capitalisti.
Voler ignorare questa realtà significa voler instaurare prima o poi un regime
di partito unico. Noi siamo per il pluralismo. Noi siamo per l'espressione
aperta delle contraddizioni. Noi siamo per la libertà. Questa è la ragion
d'essere del Partito socialista.
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L'articolo è stato scelto, introdotto e trascritto
al computer da Marco Zanier ed è tratto dal libro “L'alternativa socialista-
Autogestione e riforme di struttura” a cura di Michele Achilli e Francesco
Dambrosio, con la prefazione di Riccardo Lombardi, edito da Mazzotta nel 1976.
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