PERCHE' I FILO-ASSAD SI SBAGLIANO
Campo Antimperialista - sez. italiana
Da un appoggio iniziale alla rivolta spontanea scoppiata a Daraa nel marzo 2011 sull’onda delle sommosse nel resto del mondo arabo, il Campo Antimperialista è passato ad una posizione che possiamo schematicamente riassumere “né con il regime né con l’opposizione armata”. Non una posizione indifferentista tuttavia, perché sosteniamo, assieme ai settori della sinistra comunista e democratica siriana, la cessazione della guerra fratricida e l’avvio di un negoziato tra tutte le parti in conflitto.
Alla base di questo mutamento di posizione v’è che l’aspetto oramai prevalente della guerra civile è da tempo diventato quello religioso-comunitario o settario-confessionale. Non è una guerra che vede oppressi da una parte e oppressori dall’altra, né una guerra nazionale di liberazione. Se le cose stanno così, e secondo noi così stanno, i rivoluzionari non possono sostenere né il regime capitalista di Assad né il blocco avversario, nel quale da tempo sono diventati egemoni i settori jihadisti e salafiti takfiriti.
Perché non possiamo appoggiare la vittoria dell’uno o dell’altro fronte? Perché la vittoria dell’uno o dell’altro fronte si risolverebbe, date le inenarrabili ferite della guerra fratricida, data la morfologia e la storia della Siria come paese multi confessionale, in un regime di dispotismo sanguinario, di vendetta confessionale, di segregazione di massa su linee comunitarie. Oppure potremmo avere una guerra civile prolungata che farebbe sparire la Siria come stato nazionale unitario per lasciare il posto ad una costellazione instabile di staterelli confessionali.
Perché non possiamo appoggiare la vittoria dell’uno o dell’altro fronte? Perché la vittoria dell’uno o dell’altro fronte si risolverebbe, date le inenarrabili ferite della guerra fratricida, data la morfologia e la storia della Siria come paese multi confessionale, in un regime di dispotismo sanguinario, di vendetta confessionale, di segregazione di massa su linee comunitarie. Oppure potremmo avere una guerra civile prolungata che farebbe sparire la Siria come stato nazionale unitario per lasciare il posto ad una costellazione instabile di staterelli confessionali.
Altri settori del variegato movimento antimperialista hanno invece adottato una posizione di difesa, non solo intransigente, addirittura incondizionata (costi il sangue che costi) del regime di Assad, della coalizione confessionale che lo difende, e dell’esercito che gli fa da guardiano.
Un errore, a nostro modo di vedere, molto grave, che può avere diverse spiegazioni, ma che si appoggia su sette postulati.
Prima di venire ai postulati una precisazione. Non sempre la posizione dei rivoluzionari deve coincidere con quella di Stati antimperialisti o resistenti. Ad esempio: in funzione anti-inglese Mosca sostenne agli inizi degli anni ’20 il governo nazionalista di Ataturk il quale, mentre contrastava le mire imperialistiche massacrava i comunisti turchi. Non c’era corrispondenza tra le esigenze geopolitiche dell’URSS e quelle dei rivoluzionari turchi. Se ciò valeva per l’Urss, anche ai tempi di Lenin, figuriamoci se questo non valga oggi rispetto a stati come Cuba.
Quali sono i postulati su cui certi antimperialisti filo-Assad appoggiano la loro posizione?
Essi sono sette — non prendiamo nemmeno in considerazione la tesi strampalata e dunque priva di ogni serio fondamento che la Siria sarebbe un paese “socialista”.
(1) Con l’ascesa dei Brics, anzitutto di Russia e Cina, l’impero americano barcolla e starebbe già tramontando la sua supremazia mondiale;
(2) Grazie a questa ascesa la lotta per il petrolio è diventata cruciale. Gli imperialisti vogliono tagliare fuori questi paesi dall’approvvigionamento energetico primario;
(3) Il piano strategico imperialista, facente leva su Israele, sarebbe quello di destabilizzare il Medio oriente, non solo stimolando dei “regime changes” ma cercando di disintegrare tutti gli “stati canaglia” come l’Iran e la Siria;
(4) Per questo motivo hanno fomentato le “rivolte arabe” contro i governi dei paesi del Medio Oriente più disposti a fornire il loro petrolio ai Paesi emergenti;
(5) Mentre i combattenti siriani contro Assad sono tutti mercenari al soldo degli imperialisti e dei loro lacché regionali, il regime baathista sarebbe una roccaforte antimperialista;
(6) L’Islam politico tutto svolge una funzione reazionaria e filo-imperialista;
(7) Questi mercenari farebbero da apripista ad un devastante attacco imperialistico occidentale alla Siria.
Salta all’occhio, l’impostazione geopoliticista e complottista che sorregge tutti e sette questi postulati. Il risultato è una descrizione a nostro parere semplicistica delle contese e delle dinamiche internazionali, a cui si aggiunge un’analisi del tutto astratta e schematica dei conflitti che sconquassano il Medio oriente e il mondo islamico.
Un’impostazione animata sì da un sacrosanto spirito antimperialista, ma fallace perché, come ogni geopoliticismo, (a) vede solo gli Stati dimenticando quale sia la loro natura di classe; (b) non considera che l’antimperialismo delle borghesie nazionali è sempre inconseguente e infido; (c) quindi trascura il fattore decisivo dei movimenti di massa, degli interessi e della lotta di classe degli sfruttati e degli oppressi (lotta che attraversa anche gli “stati canaglia”).
Ma andiamo con ordine, ovvero partiamo dalla fine.
Perché non c’è stato l’attacco imperialistico?
Com’è evidente l’aggressione imperialista alla Siria non c’è stata, e tutti coloro che la davano per scontata hanno preso una grossa cantonata. Sia chiaro, occorreva denunciare questo rischio e dire apertamente che nel caso di un’aggressione gli antimperialisti avrebbero dovuto sostenere la resistenza delle forze siriane che avrebbero combattuto contro l’aggressione — quindi non solo le forze armate del regime ma pure i settori jihadisti dell’altra parte che hanno annunciato di respingere l’aggressione imperiale.
Ma quest’attacco non solo non c’è stato, c’è stato il compromesso tra il regime siriano e gli imperialisti, l’accettazione da parte di Assad dell’accordo del 26 settembre siglato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, quello per capirci sullo smantellamento dell’arsenale chimico siriano. L’arsenale in questione (290 tonnellate secondo l’Opac) è in corso di distruzione. E’ in cambio di questo accordo che Pentagono e Nato hanno rinunciato ad ogni attacco contro Damasco.
Quest’esito dovrebbe far riflettere i filo-Assad. Qual è il succo? Che il regime siriano, pur di avere mani libere nella brutale repressione dell’insurrezione armata, ha accettato di smantellare l’arsenale chimico (la bomba atomica dei poveri), la fondamentale arma difensiva di ultima istanza per tutelarsi da un’eventuale aggressione israeliana (potenza nucleare). Ciò getta una luce sulla reale natura del regime notabilare baathista siriano il quale, preoccupato anzitutto di difendere gli interessi della borghesia e dei clan che rappresenta, ha preferito fare contenti gli americani e anzitutto i sionisti: che Assad schiacci pure l’insurrezione interna, l’importate è che non sia più una minaccia temibile per Israele, che infatti gongola.
La prova controfattuale è che Israele negli ultimi due anni ha sferrato sei attacchi missilistici (aerei e navali) contro di depositi di armi strategiche siriane, senza che il regime di Assad rispondesse, anche una sola volta.
Ma torniamo alla domanda: come mai gli Usa, dopo tanto traccheggiare, hanno colto al volo la palla offerta da Putin e Lavrov e rinunciato alla strombazzata aggressione?
La risposta la sanno tutti, gli americani, davanti al rischio di favorire con un devastante attacco aereo-missilistico l’ascesa al potere dei combattenti jihadisti-qaedisti raccolti attorno alle due principali coalizioni di Jabhat al-Nusra e dello Stato islamico in Iraq e Siria — le quali da tempo hanno preso il sopravvento sulle sgangherate formazioni filo-turche e filo-occidentali raccolte nell’Esl— hanno finito per considerare il regime di Assad come un male minore. La Libia insegna.
Questo accordo, non sarà un caso, ha preceduto quello dei 5+1 sul nucleare iraniano siglato il 24 novembre a Ginevra. Stessa musica: il regime iraniano, fatto fuori il blocco di Amadinejad, assicura che rinuncerà a dotarsi della bomba atomica, ciò mentre Israele ne possiede varie centinaia. Le lacrime di coccodrillo di Nethanyau non debbono trarre in inganno: Israele ha ottenuto una vittoria strategica perché ha indebolito il perno su cui poggiava il temibile asse shiita che va da Theran e Beirut. Di converso sono contenti pure i sauditi.
Questo per dire che il cambiamento interno avvenuto in Iran con la sconfitta di Ahmadinejad (ovvero la vittoria del blocco politico capeggiato dalla borghesia iraniana appoggiata dalla maggioranza dei chierici duodecimani) è destinato ad avere non solo profonde conseguenze interne ma anche sul piano delle relazioni tra le diverse potenze, regionali e internazionali. Per dire che noi non dobbiamo basarci sulle ipostasi della geopolitica, su presunte qualità metafisiche degli Stati, bensì su una attenta analisi della natura di classe dei regimi.
Questo vale anche in Siria.
Se non si capisce l’impatto devastante della globalizzazione sul mondo arabo-islamico; se non si capisce che tutti quei regimi, quello di Assad compreso, aprendo alla globalizzazione e adottando controriforme neoliberali hanno finito per affamare le larghe masse, piccola borghesia compresa, e quindi scatenare la loro rivolta; se non si capiscono questi processi sociali e di classe (e la loro connessione con i fattori identitari e religiosi), non si capisce niente.
Il giudizio sull’islam politico e le “primavere arabe”
I postulati numero 6, 5 e 4 hanno un comune denominatore: l’errato giudizio sul variegato movimento dell’Islam politico. Se proviamo a sbarazzarci delle dietrologie gepoliticistiche, se proviamo ad usare criteri materialistici, non sarà difficile riconoscere che l’ascesa dell’Islam politico e militante è il risultato di potentissime scosse e fatturazioni sociali anzitutto interne al mondo arabo-islamico. L’avanzata dell’islam politico è frutto dell’intrecciarsi di diversi fattori: dello sviluppo economico squilibrato di economie dipendenti che Samir Amin ha giustamente definito come “capitalismi tributari”. L’urbanizzazione selvaggia, la crescita di vasti settori di sottoproletariato urbano e della piccola borghesia, la scolarizzazione di massa che ha creato un ceto di intellettuali diseredati, la pauperizzazione causata dalla globalizzazione, e quindi la nascita di nuove borghesie che dopo il fallimento del panarabismo hanno trovato nell’Islam la loro arma politica.
Ne è sorto un movimento di masse di proporzioni gigantesche, dal Marocco all’Indonesia, passando per il medio oriente. Un movimento composito, diviso al suo interno e anche conflittuale, non solo a causa del ruolo delle diverse potenze regionali. I sunniti divisi tra la Fratellanza, il jihadismo, il takfirismo wahabita e il salafismo tradizionalista. Dall’altra parte, dopo la rivoluzione iraniana, l’avanzata dello shiismo combattente, di cui Hezbollah libanese è il più limpido esempio.
Un fenomeno di tali proporzioni è necessariamente contraddittorio ed è come minimo puerile liquidarlo tutto come “reazionario” o arnese di imperialisti e potenze regionali. La lotta di classe assume varie forme, anche quelle ideologiche, nazionali e religiose. La poderosa avanzata dell’islam politico è infatti frutto duplice, dell’acutizzazione del conflitto con l’imperialismo e dell’inasprimento della lotta di classe all’interno.
L’Islam politico ha rimpiazzato il nazionalismo panarabo nel rappresentare la spinta alla liberazione nazionale antimperialista e quella delle larghe masse ad emanciparsi dalle condizioni umilianti di oppressione sociale.
Sul piano della lotta contro l’imperialismo non c’è dubbio che l’Islam politico, nelle sue diverse forme, ha animato le resistenze più combattive. Afghanistan, Iraq, Libano, fino alla Palestina. Esso ha quindi giocato un ruolo decisamente positivo. Se oggi l’Impero americano è impaludato non è per la crescita economica dei Brisc (per favore!) ma grazie a quelle resistenze eroiche. Al contrario di una sinistra socialimperialista, laicista e al fondo islamofoba, i veri antimperialisti hanno difeso e difendono queste resistenze islamiche, malgrado il loro aspetto religioso, malgrado la loro idea di società sia per noi inaccettabile. E’ grazie a questo appoggio che i veri antimperialisti hanno intessuto negli anni relazioni di amicizia sincera con queste resistenze.
Che l’Islam politico avrebbe preso il sopravvento grazie alle “primavere arabe” era un fatto che solo gli stolti potevano escludere, ammaliati dalle cronache dei media imperialistici, che volevano illuderci che la guida era in mano ai settori minoritari internettari e laicisti della piccola borghesia occidentalizzata.
Sostenere che sono stati gli imperialisti a fomentare le primavere partite dalla Tunisia; che sono stati gli imperialisti a scatenare moti di milioni di uomini e donne; questo è un insulto prima di tutto all’intelligenza. E’ spia anche di un pregiudizio razzista verso le masse arabo-islamiche, considerate alla stregua di pecore che, malgrado il loro notorio disprezzo per l’Occidente imperialistico, si sarebbero fatte manipolare come burattini dal loro nemico.
Tesi non solo strampalata quella che le sollevazioni popolari fossero frutto di una cospirazione imperialista, ma reazionaria, perché finisce per sostenere che tiranni e veri fantocci dell’imperialismo come Ben Ali, Mubarak o Saleh andavano piuttosto difesi poiché presunte vittime della suddetta cospirazione. Pazzesco!
Il Medio oriente e la strategia imperialista
L’idea bislacca che le insurrezioni di massa arabe siano frutto di un diabolico piano imperialistico si basa sulla tesi non meno pittoresca che la strategia imperialistica sia quella di “destabilizzare”, destabilizzare costi quel che costi. Destabilizzare non solo gli “stati canaglia”, ma tutti gli stati nazionali della regione e, da questo “caos creativo”, far emergere un assetto completamente nuovo.
Quale esattamente i geopoliticisti non ce lo hanno mai detto. Non ci hanno mai detto quale costellazione di nuovi stati avrebbe dovuto rimpiazzare quella attuale sorta dopo la prima e la seconda guerra mondiale. Non ce lo hanno detto perché non lo sanno e non lo sanno per la semplice ragione che non sono questi i piani imperialistici.
Nemmeno l’amministrazione dei neo-con si era posto un obbiettivo talmente ambizioso. Semmai l’avesse avuto esso è fallito miseramente in Iraq.
Il marasma in cui versa la Libia — dove l’abbattimento del regime di Gheddafi ha lasciato il posto ad un caos in cui le milizie islamiste fondamentaliste la fanno da padrona — è emblemaatico. Nei fatti la Libia come stato nazione ha cessato di esistere e la secessione della Cirenaica e del Fezzan sono possibili. Questo smembramento era nei desiderata di Usa e Nato? Ma non scherziamo per favore! Un discorso che non sta in piedi tanto più se si afferma (e non è così) che tutto ruota attorno al petrolio. Ora molti pozzi e terminali petroliferi sono in mano alle milizie islamiste, che chiedono di incamerare loro i profitti per finanziare la loro “guerra santa”. Gli stessi “mercenari americani” che l’anno scorso, nell’anniversario dell’11 settembre 2001, assaltarono il consolato americano di Bengasi e fecero la pelle all’ambasciatore Usa Cristopher Stevens. Gli stessi “mercenari” islamisti che sono stati la spina dorsale dell’eroica Resistenza irachena che ha inflitto agli occupanti perdite enormi; gli stessi “mercenari” che in Afghanistan li stanno obbligando alla ritirata; che in Yemen e in Somalia stanno dando da anni filo da torcere ai veri mercenari degli occidentali, i governi fantoccio; gli stessi che combattono in Mali contro l’occupante francese.
L’islam combattente è la principale forza di destabilizzazione, esso sì che avendo come obiettivo l’unificazione della umma musulmana vuole far sparire gli stati nazione inventati dai colonialisti. Affermare che questo loro disegno coincida con quello imperiale è prendere lucciole per lanterne, significa confondere gli incendiari coi pompieri.
Vero è che la Casa Bianca obamiana, davanti alle “primavere arabe”, visto il fallimento della strategia neocon, ha cambiato registro e tentato, con l’aiuto della Turchia di Erdogan, di portare dalla sua parte la Fratellanza musulmana. Il banco di prova è stato l’Egitto. Sembrava fatta, invece tutto il piano obamiano è andato gambe all’aria. Il vecchio esercito mubarakiano, con l’appoggio dei sauditi e dei salafiti (hainoi anche col sostegno di certa sinistra radicale laicista), ha rovesciato con un golpe il governo Morsi, ha arrestato quest’ultimo e messo al bando la Fratellanza. Dopo una fase di incertezza la casa Bianca ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, aiutando il regime militare a consolidarsi.
Ma le vicende egiziane che insegnano? Insegnano che con le lenti complottiste nulla si può capire del Medio oriente; che in quel marasma non decidono tutto gli americani, che questi ultimi spesso sono spiazzati dal protagonismo non solo delle masse, ma delle stesse potenze regionali islamiche che lottano tra loro per l’egemonia e costringono Washington a barcamenarsi. Parliamo non solo della contesa per l’egemonia del mondo islamico tra sauditi e iraniani; ma anche di quella tra i primi (che si appoggiano sulla corrente salafita-wahhabita) e i turchi (col Qatar a fianco) che sostengono la Fratellanza.
In questo ginepraio gli Usa sono in seria difficoltà, non sanno spesso che pesci pigliare, giocano di rimessa, si arrabattano non potendo contare in nessun alleato affidabile e tutto vogliono fare fuorché aumentare il casino. Cercano anzi di difendere come possono lo status quo.
Certo, anche la resistibile ascesa dei Brics e della Cina anzitutto gioca un ruolo nell’indebolimento della leadership americana. Ma questa ascesa non ci sarebbe stata senza la globalizzazione che gli stessi Stati Uniti hanno voluto con ogni mezzo. Che quest’ascesa annunci un’epoca di acutizzazione dei conflitti inter-imperialisti e intra-capitalistici, è indubbio. Ma non è ammissibile confondere i conflitti inter-imperialistici e intra-capitalistici, come conflitti antagonisti. Chi fa affidamento sugli appetiti espansionistici globali cinesi e russi, o su quelli regionali di medie potenze come il Brasile, resterà deluso. I Brics sono potenze sub-imperialiste. Possiamo sostenere la loro pressione per un ordine multipolare perché indebolisce la supremazia mondiale americana, ma non diventare partigiani di un ordine multipolare o policentrico che resterebbe pur sempre imperialista e controrivoluzionario, da abbattere con rivoluzioni e guerre popolari.
3 DICEMBRE 2013
DAL SITO http://www.antimperialista.it/
1 commento:
La migliore analisi che abbia mai letto fino ad oggi.
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