di
Norberto Fragiacomo
I miei primi ricordi di Miramare (anzi, Miramar, che non è in triestino ma in castigliano!) affondano nella più remota infanzia, e saranno per sempre congiunti a quello di “nono Nino” che mi ci portava con la 500 blu: l’abbagliante castello sull’acqua, gli alberi piccoli e grandi, le vasche coi pesci rossi, i cigni e un giardino da fiaba. Ricordi, appunto – perché cigni e pesci sono spariti nel nulla, inghiottiti dall’incuria, il giardino all’italiana è stato ridotto a un deserto sabbioso. Rimane il castello bianco, maestoso e hollywoodiano ante litteram: il sogno di pietra (d’Istria) di un uomo romantico e sfortunato. Numerose sono le leggende – in gran parte macabre – che avvolgono questa magione, ma la realtà è più affascinante, a parer mio. Miramar, parco compreso, è in fondo un autoritratto – l’autoritratto di Ferdinand Max, figlio secondogenito e imperatore da operetta mutata in tragedia.
Le guide raccontano che Carl Juncker, il progettista ufficiale, fece la parte del bubez: l’Asburgo aveva immaginato la propria dimora fin nei minimi dettagli. Oggi diremmo: il committente sapeva quel che voleva… ma non era soltanto una questione di gusto estetico. Al pari del bavarese Ludwig, suo lontano parente, Massimiliano era un visionario, un moderno don Chisciotte imbevuto di romanticismo e poemi cavallereschi, che pensava al medioevo come a una giostra di paladini innamorati e puri, rimuovendo la peste, le brutalità, la sporcizia, la corruzione di un clero senza Dio e il gelo degli inverni trecenteschi. L’idea, sovrapposta alla realtà. Il candore e l’armonia dell’edificio sul mare, in effetti, non trovano riscontro nei cupi manieri che costellano l’Europa; gli interni decorati senza sfarzo sarebbero parsi meno alieni a un borghese fiorentino che a un castellano tedesco dell’età di mezzo.Due piani e un mezzanino… ce ne doveva essere anche un terzo di piano, ma persino a un arciduca capita di trovarsi in bolletta. Poco male: quel che si perde in dimensioni si guadagna in eleganza, in leggerezza.
Al pianterreno troviamo gli appartamenti di Massimiliano e Carlotta, la sposa belga. Le stanze dell’Asburgo stupiscono per la sobrietà dell’arredamento: quella da letto è angusta, modellata su una cabina di nave; lo studio, foderato in legno dipinto a vari colori, trasmette una sensazione di quiete, invita alla riflessione e alla lettura. Molto si insiste sul fatto che la sala è un’esatta riproduzione del quadrato ufficiali di nave Novara: a parer mio, più che di una vezzosa messa in scena, o di un’allusione ad un passato prossimo da ammiraglio, si tratta di una dichiarazione d’amore nei confronti del mare. Lo spettacolo delle onde, visibili da ogni finestra, è tra le opere d’arte raccolte a Miramar quella che maggiormente doveva intenerire il cuore dell’arciduca – più degli onnipresenti ritratti della moglie (bambina, imperatrice, contadinella brianzola), più dei busti dei sommi poeti che fanno la guardia alla ricca biblioteca. Omero, Dante, Shakespeare, Goethe… strano che manchi Cervantes, in ogni caso la curiosità di Massimiliano non rispettava i confini delle lingue e delle razze, impermeabile al gretto nazionalismo sciovinista che in quegli anni muoveva i primi passi. Libri, tanti libri… ma come mai quest’uomo colto, schivo e pensoso si lasciò abbagliare da una gloria imperiale di cartapesta? Come spiegare il contrasto tra la modestia quasi spartana dell’appartamento privato e i pretenziosi addobbi color porpora della residenza al primo piano?
Nelle guide per turisti si parla, di solito, del suo complesso di inferiorità nei confronti del fratello maggiore e Imperatore Francesco Giuseppe, venuto al mondo solo due anni prima di lui. Al primogenito l’Impero, agli altri briciole di potere e compiti di rappresentanza. Il Minderheitskomplex giustificherebbe la scelta avventata di accettare una corona al di là del mare; la stessa contrarietà di Francesco Giuseppe all’impresa messicana avrebbe paradossalmente rafforzato la decisione del cadetto. Può darsi sia andata così, ma vanno considerati due elementi: l’atteggiamento critico di Massimiliano verso il conservatorismo del fratello e le notevoli capacità di governo dimostrate dall’arciduca nel Lombardo-Veneto che, miste alle doti umane, gli cattivarono il favore di popolazioni inizialmente ostili.Si sentiva investito di una missione Ferdinand Max? Nel lontano Messico commise degli errori politici, ma ad alienargli le simpatie dei conservatori furono azioni quasi “rivoluzionarie” che danno lustro alla sua figura: una riforma agraria attuata contro i latifondisti, la concessione del voto alle masse contadine. Come il grande avo Giuseppe II spezzò inoltre il monopolio della Chiesa cattolica, in nome della libertà religiosa.Gli eroi romantici non temono di farsi dei nemici, quando una condotta è loro imposta dall’innato senso di giustizia, dall’anelito ad un mondo migliore. Prima della fucilazione, donò del denaro ai soldati del plotone, chiedendo loro che risparmiassero quel suo volto allungato e malinconico: non fu accontentato, ma la notizia dell’esecuzione commosse l’Europa ed ispirò a Manet uno spietato atto d’accusa su tela contro l’avventurismo di Napoleone il piccolo.
Osserviamo, adesso, la scalinata d’onore che conduce al primo piano, ai saloni di rappresentanza: armature, lance e trofei di caccia richiamano un altro Massimiliano d’Asburgo, il cinquecentesco Imperatore che univa grandi progetti a scarsi mezzi. Il suo erede, Carlo V, avrebbe regnato su Europa e America… possiamo figurarci Massimiliano il giovane nell’atto di salire quegli scalini, gli occhi e la fantasia infervorati da immagini epiche; poi mentre attraversa i saloni, il cui lusso “obbligatorio” forse lo infastidiva un poco, e sosta, infine, nella grande sala del trono – lui, “rinato fiore d’Absburgo”, sotto gli sguardi alteri o beffardi di re e imperatori, di fronte a quell’imponente albero genealogico di cui era l’ultimo, sottile ramo.Non sapremo mai cosa lo spinse al di là dell’oceano e forse, come in genere accade agli uomini, manco lui lo sapeva esattamente. Suscitò in vita affetto, ammirazione e – da ultimo – sincera pietà; a noi triestini restano in suo ricordo questo castello-non castello magicamente bianco, un giardino botanico frutto di passione e studi, ma anche fiori da ripiantare, siepi da risistemare, vasche e laghetti da ripopolare. Pure una bella statua in bronzo dell’arciduca, ricollocata – in barba al nazionalismo demente e analfabeta – in una piazza che guarda al golfo.
La Regione farà la sua parte, ha annunciato dopo una visita a Miramar la Presidente Serracchiani. Intanto, lontano da telecamere e flash, migliaia e migliaia di turisti pagano quotidianamente un tributo di meraviglia e rispetto al sogno di un uomo che, forse, avrebbe meritato di essere grande.
24 aprile 2014
dal sito owenisti giuliani
APPENDICE
MIRAMAR
di Giosué Carducci
O
Miramare, a le tue bianche torri
attedïate
per lo ciel piovorno
fosche
con volo di sinistri augelli
vengon
le nubi.
O
Miramare, contro i tuoi graniti
grige
dal torvo pelago salendo
con
un rimbrotto d'anime crucciose
battono
l'onde.
Meste
ne l'ombra de le nubi a' golfi
stanno
guardando le città turrite,
Muggia
e Pirano ed Egida e Parenzo
gemme
del mare;
e
tutte il mare spinge le mugghianti
collere
a questo bastïon di scogli
onde
t'affacci a le due viste d'Adria,
rocca d'Absburgo;
e
tona il cielo a Nabresina lungo
la
ferrugigna costa, e di baleni
Trieste
in fondo coronata il capo
leva
tra' nembi.
Deh
come tutto sorridea quel dolce
mattin
d'aprile, quando usciva il biondo
imperatore,
con la bella donna,
a
navigare!
A
lui dal volto placida raggiava
la
maschia possa de l'impero: l'occhio
de
la sua donna cerulo e superbo
iva
su 'l mare.
Addio,
castello pe' felici giorni
nido
d'amore costruito in vano!
Altra
su gli ermi oceani rapisce
aura
gli sposi.
Lascian
le sale con accesa speme
istorïate
di trionfi e incise
di
sapïenza. Dante e Goethe al sire
parlano in vano
de
le animose tavole: una sfinge
l'attrae
con vista mobile su l'onde:
ei
cede, e lascia aperto a mezzo il libro
del
romanziero.
Oh
non d'amore e d'avventura il canto
fia
che l'accolga e suono di chitarre
là
ne la Spagna de gli Aztechi! Quale
lunga
su l'aure
vien
da la trista punta di Salvore
nenia
tra 'l roco piangere de' flutti?
Cantano
i morti veneti o le vecchie
fate
istriane?
- Ahi!
mal tu sali sopra il mare nostro,
figlio
d'Absburgo, la fatal Novara.
Teco
l'Erinni sale oscura e al vento
apre
la vela.
Vedi
la sfinge tramutar sembiante
a
te d'avanti perfida arretrando!
È
il viso bianco di Giovanna pazza
contro
tua moglie.
È
il teschio mózzo contro te ghignante
d'Antonïetta.
Con i putridi occhi
in
te fermati è l'irta faccia gialla
di
Montezuma.
Tra
boschi immani d'agavi non mai
mobili
ad aura di benigno vento,
sta
ne la sua piramide, vampante
livide
fiamme
per
la tenèbra tropicale, il dio
Huitzilopotli,
che il tuo sangue fiuta,
e
navigando il pelago co 'l guardo
ulula
- Vieni.
Quant'è
che aspetto! La ferocia bianca
strussemi
il regno ed i miei templi infranse;
vieni,
devota vittima, o nepote
di
Carlo quinto.
Non
io gl'infami avoli tuoi di tabe
marcenti
o arsi di regal furore;
te
io voleva, io colgo te, rinato
fiore
d'Absburgo;
e
a la grand'alma di Guatimozino
regnante
sotto il padiglion del sole
ti
mando inferia, o puro, o forte, o bello
Massimiliano.
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