EURO SI’, EURO NO… EURO OHIBO’!
di
Norberto Fragiacomo
Il più spietato dei nostri nemici ce l’abbiamo in tasca: è l’euro.
Questo dischetto di metallo bicolore sarebbe il responsabile di tutte le disgrazie italiane: della diminuita competitività del Paese (cioè del calo delle esportazioni) e della chiusura di fabbriche piccole, medie e grandi, oltre che dei suicidi di imprenditori ed ex dipendenti. Pure delle delocalizzazioni, che per il ministro Guidi sono benefiche “internazionalizzazioni”? Prossima domanda, prego!
Euro: una moneta troppo forte, tagliata su misura per la Germania, e soprattutto uno strumento di dominio, che sfugge a qualsiasi possibilità di governo e/o ingerenza da parte nostra. Euro, sinonimo di crisi. Per altri (per il sottoscritto) solo una tessera del mosaico della crisi sistemica.
«Usciamo dall’euro!», ruggiscono in molti. Lo slogan è efficace, perché rapido, secco, ed indica un obiettivo concreto. Non si tratta di riprogettare la società o di rifare il mondo, perdendosi nella nebbia delle opinioni, ma solo di tornare alla cara, vecchia lira: alzi la mano chi non ha conservato un pezzo da duecento o cinquecento… a rivederli inteneriscono, se non altro perché ci parlano della giovinezza andata.
I sostenitori della fuoriuscita giurano che la misura avrebbe un’immediata ricaduta positiva, anche ceteris paribus (cioè lasciando tutto il resto invariato, partecipazione alla UE compresa): a seguito della svalutazione della moneta l’export subirebbe un’impennata; l’aumento della domanda estera produrrebbe nuova occupazione; l’inflazione non creerebbe particolari problemi, così come non ne ha creati nel ’92, quando rimase pienamente sotto controllo. Prosperità e crescitagarantite, insomma, senza alcun bisogno di stravolgere il sistema.
Ma come si esce – in pratica - dall’euro? Poniamo che, tra un mesetto, si affermino in Italia le forze antieuro: Lega Nord, Fratelli d’Italia… Forza Italia e il M5S (gli ultimi due movimenti sono più cauti, i grillini perché si rendono conto della complessità della questione, Berlusconi perché considera le parole d’ordine semplici esche per acchiappare voti, e dunque le cambia a seconda del tempo, come si fa con le scarpe). Ipotizzando - per assurdo - che nessun vincitore si rimangi le promesse fatte all’elettorato e che i vari attori politici facciano causa comune, mi pare di intravvedere due percorsi possibili.
Il primo passa per un negoziato: ci si accorda con l’Unione, poiché così ha deciso il Popolo Sovrano, e il gioco è fatto. Un gioco, va osservato, con regole tutte da scrivere: il Trattato di Lisbona prevede una procedura alquanto barocca (e dagli esiti presumibilmente non indolori per il richiedente) per l’abbandono dell’Unione, ma nulla dice a proposito della moneta. In ogni caso l’ostacolo non sembra invalicabile: di fronte ad un aut aut le istituzioni europee potrebbero optare per il “meno peggio”, vale a dire per un ritorno non traumatico alla divisa nazionale. Che significa non traumatico? Che la lira resterebbe agganciata all’euro, con bande di oscillazioni limitate (sull’esempio dello zloty polacco); in cambio, l’Italia si impegnerebbe a seguire le politiche decise dalla UE, cioè a “proseguire sulla strada delle riforme” che per i neoliberisti sono non negoziabili. E i Trattati? Un timido accenno a modifiche incontrerebbe la ferma resistenza dei tecnocrati: “se li disconoscete, siete fuori dall’Unione”; nella migliore delle ipotesi (quella di un’Europa messa veramente male e di agenzie di rating distratte o addormentate), potrebbero venir concessi una dilazione del Fiscal Compact – non significativa, comunque - e un temporaneo allentamento dei parametri. In buona sostanza, il “patteggiamento” consentirebbe una modesta svalutazione, che ridarebbe un po’ di fiato alle imprese ancora competitive (quelle ormai fuori mercato e le realtà artigianali non ne beneficerebbero), e qualche manovra difensiva a una Bankitalia sotto assedio del debito pubblico e comunque legata alla BCE; privatizzazioni e smantellamento del welfare proseguirebbero perché – ad eccezione del M5S, che sul decreto lavoro ha dato battaglia – le forze antieuro provviste di seguito considerano inevitabile e “positiva” una riduzione delle tutele in ogni campo. Su un Paese né dentro né fuori incomberebbe, come una spada di Damocle, il giudizio dei c.d. mercati, pronti a punire con ulteriorideclassamenti di rating e irresistibili assalti speculativi qualsiasi scelta governativa non in linea con i loro desideri.
Cosa guadagneremmo noi lavoratori dal ripristino di un minimo di sovranità monetaria? I più fortunati manterrebbero il posto di lavoro (fino a quando? Fino al cenno d’addio del padrone, direi), ma per travet, operai e pensionati le capitali estere tornerebbero ad essere, come mezzo secolo fa, luoghi mitici e irraggiungibili. Brutte notizie anche per i ristoratori sloveni: legostilne d’oltreconfine perderebbero la clientela triestina, finendo per somigliare ai lugubri ristoranti statali dell’epoca di Tito.
Oltre alla soluzione soft, c’è naturalmente quella hard: il colpo di mano.
Ad un certo punto, per calcolo politico o motivi di forza maggiore, un’ipotetica maggioranza antieuro sceglie di fuggire nottetempo: le istituzioni UE vengono poste di fronte al fatto compiuto. Non mutuo dissenso, dunque, ma un recesso improvviso, extra ordinem. Che accadrebbe, in tale evenienza? Potrebbe innescarsi una reazione a catena, con conseguente fine dell’Unione; difficile, in ogni caso, che all’itala Angelica venga permesso di rimettere piede a Bruxelles. Siamo fuori (da tutto), dall’oggi al domani. Il governo ha – non può non avere – il famoso piano B, per far fronte ad un attacco speculativo immediato ed impedire un’ancor più fulminea fuga di capitali. Mettiamo che si riesca a parare il primo (cosa improbabile) e che si contenga la seconda entro limiti accettabili… anzi, mettiamo che il mondo non reagisca proprio e se ne stia a guardare, ammirato dalla nostra temerarietà. Prima mossa: una robusta svalutazione – non la correzioncina vista prima, ma una perdita di valore del 50-60%, con l’euro, ad es., a 3000 lire. Fingiamo che tra il dire e il fare non ci sia di mezzo il mare, e che le esportazioni crescano all’istante, perché i beni prodotti in Italia sono di nuovo competitivi (=costano molto poco all’acquirente straniero). Non è tutto: l’import crolla, perché le merci straniere diventano (per noi) carissime – la bilancia dei pagamenti migliora sensibilmente, e il PIL torna a sorridere. La domanda estera rimette in moto l’economia, e le imprese iniziano a riassumere – non tutti i disoccupati, però, visto che oggidì gli impianti sono sottoutilizzati, e non mancano scorte. Si riaffaccia la fiducia, e l’italiano medio vorrebbe riprendere a consumare: macchine e prodotti stranieri sono alla portata di pochi, perciò si ripiega sul made in Italy. Assieme alla domanda interna, aumenta – di un altro po’ – l’occupazione. L’incremento della richiesta di consumi dovrebbe generare inflazione ma, come detto, l’offerta è pienamente in grado di soddisfarla; quanto al costo del lavoro, la precarizzazione attuata nell’ultimo quindicennio e lo smantellamento dei sindacati (bestia nera anche di Grillo, che li vuole fuori dalle scatole) impedisce alle maestranze di far sentire la loro voce. Tocca accontentarsi di quel che passa il convento.
Magari a remi (come sulle galere ottomane), ma la barca va. C’è qualcosa che stona, in questo paesaggio “idilliaco” persior paròn? A mio avviso c’è, anche a prescindere da due problemi ineludibili.
Il primo è che l’Italia è un Paese senza materie prime – e per materie prime intendo anzitutto l’energia. Questa va acquistata all’estero, in denaro sonante – cioè non in lirette, bensì in euro o dollari, che però ormai valgono oro. Perché non ricorrere eventualmente a fornitori alternativi, tipo la Russia o l’Iran? Non sia mai: la nostra maggioranza antieuro è (per amore o per forza) convintamente atlantista. Meglio non tirare troppo la corda, sennò ti ritrovi una bella “Rivoluzione colorata” di secondo modello… quella che spara. Insomma, la riduzione dell’import è stata un miraggio, e il debito pubblico rifà le bizze (secondo problema). Chi lo finanzia? Gli investitori esteri – report di Standard&Poor’s alla mano – chiedono interessi mirabolanti, e pretendono di essere pagati in valuta pregiata; prima di consolidare il debito, cioè di tagliare i rendimenti, l’esecutivo – Rodomonte a parole, don Abbondio nei fatti – opta per la strada autarchica: siano i patrioti a sostenere la crescita nazionale! I capitali veri, però, sono da un pezzo all’estero, e allora a sacrificarsi è l’impiegato, cui magari appioppano un prestito forzoso. Quali gli effetti, su stipendi già magrolini? Devastanti: la domanda interna si ammoscia, rifluisce – e dato che non viviamo d’aria si concentra su beni di modesta qualità. Il mercato si riempie di prodotti scadenti, di surrogati come nella Polonia dei primi anni ’80.
Le esportazioni però seguitano a galoppare, no? E’ probabile (ritorsioni e guerre commerciali permettendo: a nessuno piace essere gabbato), ma neppure il miglior cavallo può superare una certa velocità: una competizione al ribasso con Romania e Polonia darà magari frutto, ma Cina, Vietnam ecc. sono concorrenti difficili da battere anche rieducando gli italiani al “pugno di pasta”. Sotto il tallone di ferro dell’euro l’Italia è ancora il secondo Paese esportatore d’Europa: ma non sono chincaglieria e ombrelli “a due eulo” la sua arma vincente. A quel che ricordo, il nostro punto di forza sono i macchinari industriali e, in genere, merci ad alto valore aggiunto: in questi campi la competitività italiana è stata forse penalizzata, ma non distrutta dall’euro. Le automobili nostrane una volta tiravano, ora non più, ma non è stata la sopravvalutata moneta tiranna a progettare Regata, Brava e Palio, e neppure – aggiungo – a mettere in crisi il distretto della sedia di Manzano, sopraffatto dalla concorrenza asiatica già ai primi del secolo. L’unica misura difensiva idonea sarebbe il vituperato protezionismo che tuttavia, per essere efficace, andrebbe adottato da un sistema politico-economico sovranazionale: un’Europa mondata dalle lordure neoliberiste.
In conclusione, se trionfassero in Italia le destre antieuro rischieremmo scenari da blocco orientale anni ’80: auto traballanti e beni e servizi a basso costo per una popolazione che tira malamente a campare. Rispetto all’URSS di allora un considerevole minus: niente scuola, sanità, vacanze gratis né welfare per tutti; come unica certezza il precariato a vita. In pratica lo schifo di un capitalismo straccione, che beneficherebbe solo padroni medi e medio-grandi (l’elite ha presente e futuro assicurati). Non sarebbero in grado, le sinistre antieuro, di ridipingere il quadro, di passare una mano di rosso sullo sfondo nero? Anche al netto degli opportunisti da convegno, a caccia di una candidatura europea purchessia, la mia personale risposta è no: sono movimenti che, al pari dei loro leader, meritano rispetto, ma non hanno i numeri per incidere.
Attenzione, la morale della tiritera non è che restare nell’euro conviene: il domani che ci preparano non è meno fosco di quello tratteggiato. La questione vera è che l’uscita dall’euro è semplicemente una scorciatoia diretta allo strapiombo che interrompe la strada maestra suggerita (si fa per dire) dalle troike.
Qualcuno, avendo orecchiato Zapata, protesta che è meglio morire in piedi che inginocchiati: sottoscrivo, ma per me “morire in piedi” non significa sventolando una banconota grigia e spiegazzata, bensì lottando a viso aperto per cambiare radicalmente il sistema.
Solamente un’Europa socialista, decolonizzata, egualitaria e garante dei diritti delle masse può rappresentare l’antitesi del presente disordine. Si tratta, non lo nego, di costruire un castello a mani nude, senza attrezzi né un progetto definitivo: impresa improba, visto che pure noi, come i sovranisti in buona fede (i nazionalisti travestiti da socialisti non li sopporto proprio: meglio i fascisti dichiarati!), siamo quattro gatti. Se non altro, però, non affidiamo un’improbabile salvezza della classe lavoratrice a miraggi, abracadabra e ventini fuori corso.
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