LA CRISI ECONOMICA RUSSA:
A CHI CONVIENE E QUALI SONO I RISCHI
di Riccardo Achilli
Tanto tuonò che piovve. Sono
anni, direi dall’esplosione, ancora irrisolta, dell’intera area caucasica a
partire dal 1991 (e che ha avuto nel primo conflitto osseto-georgiano, nel
conflitto georgiano-abcaso, e nella guerra russo-georgiana del 2008, oltre che
nel lunghissimo conflitto ceceno, che ha coinvolto anche l’Inguscezia) che
l’Occidente e la Russia stanno combattendo una guerra per la redistribuzione
delle aree di influenza. Una guerra che ha coinvolto i Balcani, poi in tempi
più recenti la Siria e la Libia, che si è acuita con la crisi economica
europea, combinandosi in modo perverso con la tradizionale dottrina tedesca di
politica estera dello spazio vitale ad est, che ha trascinato l’Europa intera
nella deflagrazione programmata dell’Ucraina.
Era inevitabile che una guerra
guerreggiata non tracimasse anche in una guerra economica. Sono mesi che le
politiche economiche occidentali stanno alimentando una situazione globale
svantaggiosa per gli interessi russi. Ad iniziare dal grande risiko degli
oleodotti/gasdotti, con il progetto europeo del Nabucco chiaramente posto come
concorrente del South Stream, per proseguire con gli annunci di fine del
tapering, che già diversi mesi fa provocarono una fuga di capitali dalle
economie emergenti, ivi compresa quella russa. Le sanzioni economiche imposte a
seguito della guerra civile ucraina e la distruzione dell’economia cipriota,
tradizionale punto di riferimento bancario per i capitali russi, hanno finito
di creare il terreno affinché, con il calo molto forte e sostenuto del prezzo
del petrolio, l’economia russa entrasse in recessione.
In effetti, la recessione trae
origine, oltre che dalla caduta del prezzo del greggio, e quindi del gas
naturale, che vi è collegato, anche da una pesantissima svalutazione del rublo,
che sta importando inflazione in un Paese che non ha un’industria di
sostituzione dell’import. Tale svalutazione è a sua volta alimentata da forti
fughe di capitali, indotte dalla tensione con l’Occidente, dalle sanzioni
economiche, che hanno costretto le banche e le società finanziarie, per i
pagamenti di fine anno, ad acquistare valuta estera contro il rublo, non avendo
più la possibilità di chiedere prestiti a banche europee o statunitensi.
La destrutturazione dell’economia
russa risponde quindi anche a logiche di guerra, ed a interessi economici
precisi, che consistono nel mettere mano agli asset petroliferi ed energetici,
ancora fortemente controllati dallo Stato, cioè sostanzialmente a Gazprom ed a
Rosneft, ed alle opportunità di privatizzazione del welfare che inevitabilmente
Putin dovrà mettere in opera.
Quali saranno le reazioni di
Putin? Certamente, pensare che assista inerte allo smantellamento del suo
sistema di potere, costruito garantendo, in questi anni, una forte e continua
crescita del potere di acquisto del ceto medio urbano del Paese e delle classi
popolari, è del tutto illusorio. E probabilmente, si sottovaluta anche lo
spirito nazionalista che pervade un Paese che si è sempre sentito investito
della missione storica di guidare un impero, con interessi strategici verso il
Sud, cioè verso il Caucaso e, in prospettiva, verso uno sbocco sul mare
Arabico, uno dei punti centrali della dottrina politica russa, sin dai tempi in
cui Stalin proponeva ad Hitler (ancora suo alleato in base al patto Molotov-Von
Ribbentropp) di invadere l’Iran e l’Irak attuali, o sin dai tempi
dell’espansionismo sovietico in Afghanistan, originariamente una tappa nella
marcia verso sud. E con interessi ad est, perché la Russia si è sempre
considerata il Paese-faro del mondo slavo.
Interessi alla sopravvivenza
politica, nazionalismo diffuso a livello culturale e sociale, necessità di
riattivare il complesso militar-industriale a fronte della recessione
incombente, così come la necessità di sviare l’attenzione dell’opinione
pubblica interna alle prese con un calo già evidente di tenore di vita, non
potranno che avere due conseguenze immediate:
-
Una crisi energetica crescente, che già si
intravede nella decisione di Putin di abbandonare del tutto il progetto del
South Stream (aprendo peraltro una partita diplomatica molto complessa e dai
numerosi risvolti con la Turchia, che sarebbe oggetto dell’alternativa
progettuale al gasdotto abbandonato, e che viene così sempre più spinta via
dall’Europa). Se il prezzo dell’energia non dovesse salire, aumenterebbe la
propensione a tagliare le forniture all’Europa, qualora, per l’appunto, i
proventi i proventi di tale attività non fossero più sufficienti a garantire la
crescita. Si rischia cioè una ritorsione energetica da parte di un Paese spinto
a non aver più nulla da perdere nel tagliare il suo stesso export. Un taglio
seppur parziale delle forniture energetiche avrebbe infatti conseguenze
disastrose su un’economia europea ancora in piena crisi, e che dipende per il
38% circa dalla Russia, per il suo import energetico. Anche perché i fornitori
alternativi dell’Asia centrale (Turkmenistan, Kazakhstan, Tadjikistan, ecc.)
stanno orientandosi sempre più sul mercato cinese, privando l’Europa
occidentale di un fornitore alternativo, mentre la crisi libica continua a
rendere le forniture da tale Paese soggette ad un alea;
-
Una possibile risposta militare su micro-scenari
regionali, modellata sull’esempio dell’intervento in Crimea. La dottrina
militare russa, elaborata nel 2010, sta infatti cambiando proprio in questi
mesi, sulla spinta di una crescente identificazione della NATO come avversario
principale degli interessi russi. E sta cambiando in direzione di un
rafforzamento del controllo presidenziale sull’apparato militar-industriale, e
di una strategia fatta di interventi rapidi di piccole forze, di 1.000-3.000
unità, molto ben addestrate ed equipaggiate, che operano come task force
relativamente autonome su scenari regionali specifici, mirati ad acquisirne il
controllo grazie all’effetto-sorpresa ed a un ambiente politicamente o
etnicamente favorevole. Il tutto accompagnato da un rafforzamento di misure di
guerra elettronica e cyber terrorismo. Una strategia che sembra più vicina
all’idea tradizionale di guerriglia, che non a quella di guerra convenzionale.
E che può ottenere risultati molto vantaggiosi, anche in termini di immagine
politica, di disarticolazione dei sistemi di comando e controllo nemici, ed
anche di conquiste territoriali di prossimità, cioè in aree dove vi sono
rilevanti minoranze russofone, o popolazioni che si sentono protette
dall’ombrello russo, e che quindi sono disponibili a fornire un contributo alle
task force che agiscono da “provocatori” di guerre civili, secessioni o rivolte
etniche.
Potrà l’Occidente, sfiancato da
una crisi economica irrisolta, da uno sfaldamento dei suoi sistemi sociali, da
una prolungata crisi culturale e di identità, che inizia negli anni Ottanta
sotto forma di crescente individualismo ed atomizzazione, diviso al suo
interno, reggere la sfida militare ed energetica di una Russia che, per quanto
in crisi economica, potrà affidarsi al fervore quasi “spirituale” del
panslavismo e della missione storica di civilizzazione slava dell’Asia
centro-meridionale che pervade, da sempre, la sua storia? Ho i miei dubbi. Da
Napoleone in poi, il popolo russo ha sempre dimostrato, quando è sotto attacco,
di saper bruciare le riserve di grano ed anche la capitale, se ciò è necessario
per fiaccare l’avanzata nemica. Senza contare che la Cina sta alla finestra a
guardare, e dallo scontro fra i due colossi, potrebbe risultarne la vera
vincitrice.
Probabilmente conviene all’Europa
stessa adottare la strada della diplomazia, ad iniziare da una nuova Bretton
Woods, che ristabilisca regole comuni di gestione delle politiche valutarie,
onde evitare oscillazioni troppo ampie dei tassi di cambio, e riportare il
rublo verso valori ragionevoli con la collaborazione di tutte le Banche
Centrali, per continuare con un accordo globale sulle forniture energetiche, e
quindi con una ridistribuzione delle sfere geopolitiche di influenza,
rinunciando all’Ucraina (o quanto meno all’area del Donbass, dove i russofoni
sono maggioranza), ed alla folle idea, contenuta nell’ultima riunione della
NATO, di portare le forze militari e missilistiche sin sui bordi delle
frontiere russe.
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