SEMPRE A PROPOSITO DI CLASSE, COSCIENZA DI CLASSE E PARTITO
di Lucio Garofalo
L'ISTAT, un istituto di statistica ufficiale, noto per la
manipolazione sistematica dei dati reali ad usum delfini, cioè ad
utilità della casta politica, ci fa sapere che 4 giovani su 10 non hanno
occupazione. Si tratta di un dato falso per difetto, ovviamente, e
riduttivo della reale portata del fenomeno.
Uno studio meno contraffatto dimostra invece che su 100
giovani 53 sono disoccupati, 42 svolgono lavori sottopagati precari e 5,
solo cinque di essi hanno qualcosa che somiglia vagamente ad
un’occupazione, sia pure senza diritti. Naturalmente si tratta di una
media nazionale, per cui vi possono essere zone del paese nelle quali 78
giovani su 100 sono disoccupati, come ad esempio la Campania, oppure
che 68 su 100, come in Lombardia, svolgono lavori sottopagati con
salari, abbastanza diffusi, che non superano i 10 euro al giorno e solo
per i giorni effettivamente lavorativi.
La politica - diceva Lenin - è l’arte di preparare il
futuro”: ma quale futuro attende questi nostri giovani? Un futuro privo
di prospettive, che sprofonda in un abisso di sfruttamento e di miseria
obbligatoria, la precarietà imposta come esistenza ed unico elemento di
stabilità, la svalutazione e la vanificazione di ogni loro sforzo per
qualificarsi, nessun tipo di previdenza sociale, l’impossibilità di dare
un senso qualsiasi alla propria vita in una famiglia propria, la morte
civile e la fame, quando le pensioni dei genitori non potranno più
sostentarli. Nel frattempo, il vagare a vuoto, la condizione psicologica
di inutilità, la sconfitta di ogni aspettativa ed ogni speranza.
Essi costituiscono il moderno proletariato, gli
equilibristi dell’indigenza, gli esclusi da ogni forma di esistenza
dignitosa, i condannati alla non-vita, i nuovi dannati della terra. A
loro vale la pena di chiedere: “Cosa avete più da perdere, se non le
vostre illusioni?” A loro vale la pena di dire: “Piuttosto che fidarvi
di uno sconcio buffone che fa marciare la sua vanagloria sulla vostra
disperazione, fidatevi di voi stessi. Siate voi a promuovere ed a
costruire una via d’uscita dalla catastrofe del capitalismo. Unitevi!”.
Oggi ci troviamo di fronte ad un compito nuovo, dettato da
ciò che è realmente il moderno proletariato. Le vecchie forme-partito
sono storicamente improponibili. Oltretutto, non verrebbero manco
accettate.
Tuttavia, una “consociazione di comunisti e di
rivoluzionari” è una necessità poiché è necessario trasmettere l’idea di
una possibile società di eguali oltre il capitalismo. Serve un partito
in grado di immettere idee, proposte nel corpo vivo del movimento,
svolgendo un ruolo importante per il suo corso.
Di questo ipotetico partito, al momento non è possibile
prefigurare né la morfologia, né la fisiologia. Se non si accetta il
presupposto che il partito è uno strumento della classe, non viceversa,
si parte già col piede sbagliato.
Un partito è un prodotto delle dinamiche sociali e di per
sé non può esistere in assenza di tali dinamiche, se non come pura
testimonianza. E cosa può essere un corpo separato e sovrapposto alla
classe, pieno delle sue verità presunte, impermeabile alla dialettica
sociale, ossificato nelle sue gerarchie ed organismi, che riconosce solo
a sé stesso il diritto di decidere e magari contro altri compagni che
non professano il loro stesso “credo” nelle dovute forme canoniche, se
non un pesante riflesso dell’ideologia borghese?
Tale visione è un reperto del passato di cui occorre
disfarsi per iniziare a ripensare ex novo la questione. Sia chiaro. La
funzione dei comunisti è assolutamente importante, talora decisiva, per
indicare al movimento proletario la prospettiva di un mondo possibile
oltre il capitalismo, ma un simile compito non richiede né caporali, né
ufficiali, né “pifferai magici”.
Non si può più indulgere verso il persistere di una mitizzazione del partito.
Il partito è uno strumento, non un corpo di eletti, e non
serve nutrire il culto della “organizzazione”. L’organizzazione di un
partito dipende direttamente dal lavoro da svolgere, ma ciò non implica
alcuna gerarchia di funzioni.
Il partito è una “consociazione di comunisti e di
rivoluzionari”: sottolineo consociazione, non associazione, e nella mia
dizione intendo dire che non immagino un partito come un corpo chiuso
per accedere al quale bisogna recitare un “credo ideologico”. Considero
questo tipo di “partito” come il luogo politico dove tutti coloro che
desiderano spendersi per il comunismo e il proletariato abbiano piena
cittadinanza. I comunisti non hanno bisogno di imporre la loro linea
mediante un apparato burocratico che, alla fine, si identifica nel
partito medesimo: se i comunisti credono in quello che pensano allora
vogliono e debbono confrontarsi, con tutti, vogliono e debbono
convincere, non vincere e magari con la forza di un apparato.
Si potrebbe obiettare che la mia visione è di origine “anarco-menscevica”.
A parte il fatto che i nominalismi non spiegano
assolutamente niente e non servono a niente in un’epoca che è totalmente
diversa da quella in cui furono redatti. E tanto meno mi interessa una
sorta di attivismo politico inconcludente come giustificazione
esistenziale. C’è ben altro da fare.
Chi propone oggi l’idea di partito deve, a priori,
definirne compiti e forme, e qui si inceppa il discorso di chi celebra
ed assolutizza il ruolo del partito.
Delle due l’una: o un partito astratto, metastorico,
mutuato dalle vecchie esperienze, peraltro manipolate e distorte
dall’agiografia burocratica, o ridefinire compiti e forme sulla base di
ciò che è il moderno proletariato.
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