“PSEUDO-DEMOCRAZIA
DA ESPORTAZIONE”
di
Pasquale Setola
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca
le idee dominanti; cioè, la classe che è la
potenza
materiale dominante è in pari tempo la sua potenza
spirituale dominante
(Karl Marx, Ideologia Tedesca, 1846)
Una classe è dominante nella misura in cui
riesce a imporre il proprio linguaggio sull’intero corpo sociale. Quando ciò
avviene, essa riesce a produrre, attraverso la sua frazione intellettuale [1],
un complesso di analisi - estremamente pervasive - che non trattano della
realtà, ma di un sistema immaginario che è ai suoi antipodi.
Paradigmatico, in questo senso, è il caso
della costruzione immaginaria della “più antica democrazia del mondo”, a
cominciare dal suo “mito” di fondazione, la tanto celebrata “rivoluzione
americana”, che non fu nient’altro che una guerra d’indipendenza. I coloni
americani, infatti, non avevano alcuna volontà di trasformare i rapporti
economico-sociali in essere, ma volevano semplicemente non dover più “regalare”
una parte dei profitti delle loro attività alla classe dominante della
madrepatria.
Oggi, la democrazia statunitense, tanto
celebrata dagli opinion maker
nostrani (in buona parte ex comunisti, che, smessi i vecchi abiti per
indossarne di nuovi, hanno messo il loro furore ideologico al servizio di una
nuova causa, quella del capitalismo imperialistico), rappresenta in realtà il
modello più avanzato di quella che potremmo definire “pseudo-democrazia”,
poiché basata su una totale separazione fra la sfera economica della vita
sociale, governata dalle logiche specifiche dell’accumulazione capitalistica, e
la sfera politica, definita dalla pratica istituzionalizzata della democrazia
elettorale. Non ci può essere democrazia se l’economia non è incorporata nella
più grande politica, e ai cittadini viene sottratta ogni sovranità sulle scelte
economiche.
Ma, negli Stati Uniti, la cui formazione
sociale è stata segnata nel profondo da specificità storiche assolutamente
distinte da quelle che hanno caratterizzato la storia del continente europeo,
tutto ciò appare come un dato assolutamente naturale, quindi da non dover
sottoporre ad alcuna interrogazione critica.
Una separazione di questo genere svuota
completamente le istituzioni rappresentative, rendendole impotenti al cospetto
del mercato capitalistico. De facto,
lo Stato negli Usa è al servizio del capitale (specificatamente, della sua
frazione dominante, le imprese transnazionali), e non si preoccupa degli altri
interessi sociali in gioco. Questo avviene anche perché la formazione storica della
società statunitense ha impedito il sedimentarsi di una coscienza politica di
classe nei ceti popolari [2].
Uno sviluppo storico che ha prodotto, invece, una situazione inedita, quella
della costituzione di un vero e proprio partito unico: il partito unico del
capitale. All’interno di questo partito unico ci sono due frazioni (Democratici
e Repubblicani) che si rivolgono ad una minoranza di cittadini, il 40% circa
(la classe media, perché i poveri non votano), ed entrambe sono sostanzialmente
interpreti degli interessi particolaristici di potenti lobby
economico-finanziarie.
Nel vecchio continente, invece, lo Stato
ha rappresentato non di rado un punto di equilibrio rispetto ad interessi
sociali contrapposti, favorendo quei compromessi storici (es. il capitalismo
sociale europeo) che donano un senso vero alla pratica della democrazia. Se lo
Stato non svolge questa funzione, che ha una sua autonomia rispetto alla pura
logica di accumulazione capitalistica, la democrazia diviene un puro simulacro,
una pseudo-democrazia.
Anche il sistema elettorale presidenziale
americano non contribuisce affatto allo sviluppo di una dialettica sociale.
Esso concentra il dibattito politico sulle persone invece che sui programmi, e
la polarizzazione (inevitabile) della scelta su due individui, spinge i
candidati a ricercare il consenso più ampio possibile (la famosa conquista del
centro, composto dagli indecisi), rinunciando a priori a qualsiasi contenuto
ammantato di una qualche radicalità. In tal modo, consolidando lo status quo, viene esclusa alla radice
qualsiasi possibilità di evoluzione sociale.
Inoltre, questo sistema favorisce il
coagularsi di interessi di varia natura attorno ai due candidati, impedendo, de facto, la costituzione di veri
partiti politici portatori di progetti sociali alternativi.
Fondamentalmente, la società americana non
apprezza il concetto di uguaglianza, ma è invece il valore della libertà
individuale ad occupare quasi tutto lo spazio sociale (nell’immaginario collettivo
americano non è certo svanita l’idea che chiunque possa diventare miliardario).
Ma ciò impedisce di comprendere che, nel quadro di una società a modo di
produzione capitalistico, una simile libertà per la stragrande maggioranza è
perfettamente illusoria, e alla fine finisce per scontrarsi in modo frontale
con l’aspirazione egualitaria posta a fondamento del pensiero democratico.
Purtroppo, bisogna constatare che questo
modello sta penetrando con una certa profondità anche nel vecchio continente,
anche perché l’obiettivo continentale dell’attuale strategia egemonica degli
Stati Uniti è quello di omologare il capitalismo europeo (in cui sopravvivono
ancora alcuni elementi frutto del vecchio compromesso sociale tra capitale e
lavoro) al modello a-sociale americano completamente privatizzato, che prevede
lo svuotamento della democrazia e la sua totale sottomissione alle esigenze
della logica di accumulazione capitalistica. Obiettivo che appare sempre più
vicino a realizzarsi proprio a causa del progetto europeo, nato originariamente
come volano del progetto atlantista degli Stati Uniti all’indomani della
seconda guerra mondiale, e che rimane sostanzialmente lo stesso pur essendo
mutate le condizioni storiche, la cui attuazione oggi continua in un nuovo
quadro sociale, in cui sta assumendo il dominio un neoliberismo di stampo
americano. Un quadro in cui si distingue ancor più che in passato il servilismo
delle classi dirigenti europee.
D’altronde, non è possibile cogliere alcun
segnale che possa far pensare ad una possibile inversione di tendenza, almeno
nel breve periodo, poiché mancano le forze storiche che potrebbero innescare un
qualche cambiamento. Oggi, possiamo solo rivendicare il nostro diritto
inalienabile alla resistenza, a cominciare da quella culturale, e non è certo
poco.
[1]
Gli intellettuali sono un gruppo dominato della classe dominante, nel senso che
appartengono alla classe dominante ma vendono il loro “capitale” intellettuale
alla frazione industrial-finanziaria di questa classe.
[2]
Le varie ondate migratorie occupano un ruolo importante nello sviluppo storico
della particolare formazione sociale americana. Gli immigrati erano indotti a
rinunciare alla lotta collettiva per tentare di fuoriuscire dalla condizione
comune alla loro classe di origine, aderendo così all’ideologia del successo
individuale, tipica del Paese che li accoglieva. Tutto ciò a scapito dello
sviluppo di una coscienza di classe, poiché appena essa cominciava a vedere la
luce, doveva subito far fronte ad una nuova ondata migratoria, che finiva per
soffocarla.
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