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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 25 luglio 2013

THE NEAPOLITAN GAME di Norberto Fragiacomo





THE NEAPOLITAN GAME
di
Norberto Fragiacomo
 
 

Vis grata puellis: si definiva così, in linguaggio curialesco, la resa senza condizioni di madonnine fintamente recalcitranti alle profferte di spasimanti (più o meno) allupati. Il no, ribadito flebilmente mentre gli occhi dicevano il contrario, serviva a tacitare i rimorsi, oltre che a salvare la faccia: la colpa era tutta dell’agognato bruto.
Pare che sesso e politica abbiano parecchie cose in comune, prima fra tutte l’ipocrisia. Chi non rammenta la sceneggiata quirinalizia (rubo l’aggettivo al compagno Mortara) di inizio primavera? Giorgio I giura e spergiura, per mesi, di non volerne sapere di un reincarico – e ne avrebbe ben donde: mai nella storia della Repubblica si era assistito ad un secondo mandato, e l’età di Napolitano (prossimo agli 88 anni, nel frattempo compiuti) sconsigliava la mossa. Nulla poterono, però, una consuetudine costituzionale e considerazioni anagrafiche contro la (libera?) volontà piddina di blindare lo status quo: dopo le eliminazioni dirette – clamorosa quella di Prodi, apparentemente inspiegabile quella di Rodotà – Giorgio II rioccupò, con sovrana naturalezza, lo scranno più alto. Controvoglia, certo (perché il rinnovo dell’incarico “sottopone a seria prova le mie forze”, e perché “come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da Presidente della Repubblica”, premise nel discorso d’investitura), ma con le idee ben chiare in testa: “le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto. Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. (…) Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione. (…) Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono comunque dare ora il loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del Paese. Senza temere di convergere sulle soluzioni.
Obbligo di convergenza, dunque, e bacchettate sulle mani a chi – il MoVimento 5 Stelle – mostrava di non volerci stare e, secondo il Presidente (ri)eletto, soffiava sul fuoco della “contrapposizione tra piazza e Parlamento.”
Da quel crudele mese d’aprile ne è passato di tempo, ma Giorgio II ha mantenuto la parola data, “fungendo da fattore di coagulazione” – anzi, offrendosi al Paese come qualcosa di più: come un vero comandante in capo, un dominus.
Se l’esordio era stato energico, a dimostrazione che certi anziani sono “giovani dentro”, il prosieguo è stato travolgente – nel senso che King George ha letteralmente travolto ogni ostacolo che potesse intralciare il cammino del “Suo” governo Letta-Berlusconi (la stampa poi ha fatto il resto, sparando a mitraglia sull’unica opposizione sopravvissuta).

Sui costosissimi F 35, che l’alleato-padrone americano ha fretta di farci acquistare, Giorgio II è stato netto: la competenza a decidere spetta al Governo, mica al Parlamento. Persino una richiesta di moratoria appare eccessiva al Presidentissimo: cosa fatta capo ha, deputati e senatori pensino agli affari loro. La vicenda Alfano è stata ancor più emblematica: stavolta Napolitano ha impartito un ordine diretto ai parlamentari del PD, di fatto ingiungendo loro di votare contro la sfiducia al “Ministro degli Interni a sua insaputa” – un povero mobbizzato che i funzionari del ministero tengono all’oscuro di tutto quel che accade in Italia. Ovviamente la Destra 2 ha obbedito nella quasi totalità, e ai pochissimi contestatori l’art. 67 della Costituzione – quello che esclude il vincolo di mandato – non fornisce alcun riparo: chi non si sottomette al Colle è passibile di scomunica mediatica, se non (lo si vedrà) di sanzioni disciplinari. Il ridicolo “tagliand(in)o” impetrato da Epifani serviva, anche nel caso di specie, soltanto a salvare la reputazione del partito, ma al PD dentro il governo danno fastidio ormai anche le finte, e senza tanti complimenti Dario Franceschini ha zittito il proprio segretario-travicello. L’ex leader della CGIL ha abbozzato: lui è lì per scaldare la sedia distribuendo stanchi inviti alla responsabilità, e lo sa bene.
Pensierino formulabile anche da un alunno di terza elementare: visto che non decide più niente (e, quando lo fa, segue pedissequamente le direttive altrui), il Parlamento è oggidì un organo inutile. Siamo dunque al presidenzialismo de facto: Napolitano conduce il Paese lungo una via tracciata da lui, da cui non è lecito allontanarsi neppure per mingere. La cronaca politica ci presta la chiave di lettura per la sceneggiata di aprile: solo un Giorgio II poteva svolgere con successo il ruolo di guida.

La domanda è: dove ci sta portando? Rispondere non è mica semplice di questi tempi, anche perché un’opinione può essere scambiata per vilipendio da giudici e funzionari zelanti.
Se ha ragione chi afferma che i mercati vanno a tentoni, e perseguono esclusivamente un lucro di breve periodo, il napolitanismo è figlio della necessità: dando dell’Italia un’immagine monolitica e “seria” si evita di indurre in tentazione speculatori perennemente in preda all’isteria. La crisi è una tigre dormigliona e un po’ orba, malgrado le zanne affilate: stiamocene a cuccia, in silenzio – magari, se facciamo i compiti a casa, non finiremo sbranati. Magari. Chi la pensa così sarà pronto a criticare certi sfondoni degli attuali, imbarazzanti ministri, ma riconosce, in fondo in fondo, che a un esecutivo come l’attuale non ci sono alternative sostanziali – si sarebbero forse potuti scegliere personaggi più capaci, e poi politiche maggiormente incisive, ma “intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse” sono quello che passa il convento, le vie d’uscita salvifiche (abbandono dell’euro, mobilitazioni sovranazionali… rivoluzioni) sono favole che ottusi complottisti raccontano ai bambini. Stieglitz e Krugman parlano di strategie messe in atto dall’elite? Saranno ammattiti pure loro, evidentemente… Conseguenze logiche del ragionamento: la solidarietà nazionale va benissimo; certi vulnera alla Costituzione sono il prezzo da pagare alle circostanze; se non c’è alcun disegno “occulto” (i commentatori ortodossi non prendono neppure in considerazione l’idea che il “complotto”, da loro escluso con irridente sufficienza, possa essere un piano attuato alla luce del sole da una lobby di finanzieri internazionali, probabilmente perché ritengono che solo tassisti e allevatori siano in grado di costituire una lobby…) allora la responsabilità è tutta delle popolazioni, oltre che di stati inefficienti e scialacquatori - quindi l’austerità è al massimo una ricetta sbagliata; chi grida alla catastrofe prossima ventura è invece un apprendista stregone assai nocivo, perché richiama gli strali dei mercati strabici di cui sopra; in ultima analisi, Napolitano è l’uomo giusto al posto giusto, anche se cambiare sarebbe stato bello, poiché – al pari delle gozzaniane “buone cose di pessimo gusto” – le tradizioni esercitano un certo fascino. In ogni caso, per precauzione, “abbassiamo i toni”, ci direbbero i savi, imitando il Crozza dei mesi scorsi.

A riprova dell’inoppugnabilità delle loro argomentazioni, i “realisti” ci sbattono sul muso alcuni dati di fatto: le banche, coi forzieri ricolmi di titoli spazzatura, sono anch’esse al “si salvi chi può!”; e poi, a suo tempo, perfino un gigante come Lehman Brothers è crollato. Vero, ma il CEO del fallimento – Richard Fuld junior – si è prontamente riciclato, e ha ripreso a guadagnare, al pari di innumerevoli colleghi dei piani alti (a perdere il posto sono stati i manovali della speculazione, gente comunque da 100 mila dollari annui); i superbonus per i banchieri sono l’unica autentica “variabile indipendente” del mondo del lavoro capitalista, e il fatto che qualche edificio si svuoti non ci sembra decisivo: l’elite è formata da esseri umani, non da mattoni, tapparelle e mobilio. Quanto ai rischi per le imprese finanziarie – più che per i loro supermanager – sarebbe d’uopo tener presente che la prossima acquisizione di vitalissime aziende di stato e di servizi pubblici (impianti, macchine, “roba” vera, tanto per capirci, ulteriormente valorizzata dalla garanzia di poter disporre a piacimento di manodopera qualificata) compensa abbondantemente le ipotetiche perdite di denaro virtuale, creato con un clic.
E quindi? Quindi è senz’altro ipotizzabile che la strada che stiamo percorrendo non sia quella obbligata, ma sia stata scelta – assieme a guida, mandriani e abbaianti pastori – per finalità ben precise, che nulla hanno a che fare con l’interesse comune. Complottismo? Può darsi, così come può essere ingenuità quella di chi immagina un mondo che va alla deriva senza nessuno al timone, anche perché i fatti – dalle forzature costituzionali al dispregio per le istanze popolari, dallo svuotamento delle prerogative parlamentari a mosse di società di rating le cui ripercussioni a breve-medio termine non è saggio sottovalutare – sono incontestabili, e si prestano a svariate letture.

Nel frattempo, all’interno dei palazzi della politica si discute di nozze gay, non più di modificare una legge elettorale che per i diretti interessati, forse, non è da buttare, perché ha favorito gli sviluppi recenti.

Brutta forma di demenza, il “complottismo”: se ci ricordiamo bene, anche Giulio Cesare – che era uno che non si lasciava sviare dalle altrui fantasie – rispose con un’indifferente alzata di spalle agli avvertimenti su un possibile attentato ai suoi danni.




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