GUERRA
ALLA CORRUZIONE?
TUTTALPIU’ LA SOLITA PARATA
di
Norberto
Fragiacomo
Dopo
averne ascoltate tante, per giorni e giorni, anche il cuore più
arido può farsi vincere dal desiderio (dal capriccio?) di narrare
una storia.
Magari
una favola nera, tutt’altro che a lieto fine: quella della
corruzione in Italia. Capiamoci: il fenomeno esiste, è anzi
diffusissimo e allarmante – ma il fatto che tutti ne parlino
complica le cose, lo rende vago, indistinto, impalpabile. Manca una
definizione che si imponga alla babele di voci dissonanti, non di
rado prezzolate.
Quando
frequentavo l’università, nel secolo scorso, per corruzione si
intendeva un delitto - anzi, una coppia di delitti - contro la
pubblica amministrazione: corruzione propria, se il patto delittuoso
tra funzionario e privato aveva ad oggetto la violazione di un dovere
d’ufficio, impropria se l’indebito compenso remunerava il
compimento di atti dovuti (es. del dipendente che accetta del denaro
per velocizzare una pratica).
Troppo
semplice, ci fu confidato in seguito: la corruzione è ormai assurta
a costume, a pratica dai contorni sfumati – è “fenomeno
politico-amministrativo-sistemico”, scandì all’inaugurazione
dell’anno giudiziario 2013 il Presidente della Corte dei conti
Giampaolino. Potremmo descriverla come un’alterazione fraudolenta
delle regole del gioco, un intralcio alla concorrenza che, per i
tecnocrati della UE, rappresenta il primo comandamento, e anche
l’ultimo.
Il
legislatore della 190/2012, denominata per l’appunto “legge
anticorruzione”, fece propria questa nozione allargata, atecnica, e
si propose ambiziosamente di prevenirla, anziché limitarsi a
reprimerla penalmente. Come? Moltiplicando responsabilità,
adempimenti e carte. C’è un’Autorità nazionale, che adotta un
piano (il PNA), recepito e “personalizzato” da ogni singola
amministrazione del variegato universo pubblico, società incluse. I
contenuti sono legislativamente delineati: quattro aree di massimo
rischio (autorizzazioni e concessioni, procedure concorsuali,
evidenza pubblica, concessione di sovvenzioni e pubblici denari a
privati), valutazioni di impatto, misure standard da adottare e, se
del caso, potenziare (come la famigerata rotazione del personale). Si
punta ad assicurare la piena (anzi: “totale”) accessibilità ai
siti internet delle amministrazioni, ad escludere in radice la
possibilità di conflitti di interesse (con il nuovo articolo 6-bis
della 241, monco ma imperioso), ad inasprire i divieti in materia di
incompatibilità, ad imporre ai lavoratori, a pena di licenziamento
(per condotte gravi o reiterate), il rispetto di una pletora di
minuziosissimi obblighi. Si prevede, in ogni singolo ente, la figura
di un cerbero – il responsabile anticorruzione – che scriva,
monitori, insegni e poi scriva ancora, ricevendo nei ritagli di tempo
i rapporti dei suoi referenti d’area. Guai a chi sgarra: le
sanzioni fioccano, si assommano, incutono terrore. Attenzione! – ci
ammonisce l’autorevole esperto da talk show – il responsabile
farebbe bene ad affidare il patrimonio ad un blind trust, se
qualcosa va storto c’è pericolo che resti in mutande! In verità,
la legge ci parla di responsabilità diffusa, e di un controllore
principe che rischia meno di altri (va esente da conseguenze se
redige il piano e veglia sulla sua attuazione), ma cos’è mai la
banalità di una norma al cospetto di un aziendalista onnisciente? E
poi le disposizioni si rincorrono, mutano di giorno in giorno,
appaiono spariscono e ricompaiono come se a dettarle fosse uno
schizofrenico – o il puro caso.
Se
andiamo poi a valutarne la deterrenza scopriamo, con un sospiro di
sollievo, che i pubblici dipendenti si sono fatti restii ad accettare
prosciutti e bottiglie di spumante sotto Natale, che i segretari
comunali anticorruzione, prossimi ad estinguersi, sgobbano come mai
prima; che qualche gola profonda (poche, lamentano: ci vorrebbero le
taglie!) manda dettagliate relazioni sui comportamenti “sospetti”
del vicino di scrivania.
Tutto
bene allora? Purtroppo no, perché – prosciutti a parte – le
ruberie non cessano, gli appalti sono più inquinati di un tempo e il
protagonismo criminoso di politici e supermanager a chiamata non fa
rimpiangere gli anni di Tangentopoli, ridotta oggi a serbatoio di
soggetti per serie televisive.
Gli
scandali dell’EXPO e del Mose si aggiungono alle denunce di
Transparency International che – come già scritto in
un’altra occasione – tanto trasparente non è, ma ci schiaffa
dietro al Ghana nella classifica della corruzione “percepita” (da
chi? dagli uomini d’affari e dagli esperti di economia, ovvio), e
allora tocca correre ai ripari, inventandosi o riciclando norme e
addossando ulteriori obblighi a chi sta in basso. La novità del
giorno è che le norme anticorruzione saranno estese in toto – con
atto amministrativo, parrebbe - alle società partecipate, con
l’esclusione di quelle quotate in borsa e di quelle che emettono
strumenti finanziari… ottimo, ma non era già previsto? Risulta di
sì (in caso contrario, ci vorrebbe un ritocco legislativo), ma poco
importa: l’effetto annuncio è assicurato, il Governo Renzi può
bearsi del suo “fare” e promettere agli italiani che prima o dopo
il DASPO salterà fuori, e saremo tutti virtuosi e contenti –
incorrotti, come certe mummie.
E a
chi prova a ribattere che, anche a tacer del fatto che l’aumento a
dismisura di adempimenti formali “senza maggiori aggravi per le
finanze pubbliche” intralcia l’azione amministrativa, la 190 è
nata zoppa di suo, perché non sanziona i comportamenti dei politici
e soprattutto perché appare pensata per combattere esclusivamente la
corruzione “minima” (quella del salame all’impiegato, appunto),
azzimati professoroni intimeranno virtuosamente il silenzio: siamo o
non siamo un popolo di cialtroni, guastati nell’intimo dalla morale
cattolica? Forse sì, lo riconosco… ma chi profitta maggiormente
della situazione, il travet che s’inventa un secondo lavoro o il
signore degli incarichi dinanzi al quale ogni porta si spalanca? Il
concorsista sfigato che perde un lustro sui libri o il direttore
generale che, di fronte a una platea di neoassunti a 1.300 euro al
mese, sminuisce il suo stipendio da 220 mila annui sentenziando:
“badate che io, a differenza vostra, sono un precario”? Chi si
ficca in tasca un po’ di briciole o chi pretende per sé, il figlio
e il nipote la garanzia di cariche e sinecure vita natural durante,
considerando il proprio privilegio un diritto, e affievolendo il
diritto del cittadino comune a impudente pretesa? Sul serio possiamo
mettere sullo stesso piano il modello e i suoi imitatori in
sedicesimo, fingendo che le colpe degli ultimi lavino quelle del
primo?
Cos’è
davvero la corruzione? Provo a rispondermi: è un ascensore
irrimediabilmente fermo al piano terra, un cancello di cui il merito
non fornisce la chiave; un premier laureato in legge che, secondo
recente giurisprudenza, non è tenuto a conoscere il diritto e può
distribuire prebende a piacimento; un legislatore che, in dispregio
di ogni decenza, regala a se stesso l’impunità amministrativa;
aggiungiamo pure un gran signore che, tra una comparsata tv e la
successiva, pontifica con patriarcale spocchia su (presunte)
corruttele concorsuali. Corruzione è proporre di donare un mese di
vacanze scolastiche alle aziende, perché gli studenti si avvezzino
alla schiavitù; corruzione è sostenere che “il figlio di un
operaio non può mica avere le stesse opportunità del figlio di un
professionista”, ci mancherebbe; corruzione è l’inclusione di
pochissimi e l’esclusione dei molti, dileggiati e costretti a
contendersi un osso rinsecchito.
Corruzione
sono l’ingiustizia sociale, l’avidità esaltata e blandita, la
spietata sopraffazione elevata dal capitalismo neoliberista a legge
fondamentale. Guardiamo la terra, non l’italico dito: se il soldo è
misura di tutte le cose, la corruzione non è più patologia - è
fisiologia. Ce la presentano come incompatibile con la legalità,
niente di più falso: anche la legge può essere corrotta, e
purtroppo per noi lo è.
Batteranno
magari la piccola corruzione con l’intimidazione e la minaccia;
quella grande dormirà invece sonni tranquilli, perché chi dovrebbe
debellarla è il primo a trarne profitto, non di rado con la
benedizione del diritto (e di chi officia i suoi stanchi riti).
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