La
recensione de I Viceré, è stata scritta qualche mese fa, in
occasione dei 150 anni dell’Unità Borghese d’Italia,
espressamente per il Direttivo Fiom di Vercelli, nel tentativo di
rianimare un discorso culturale che è sempre stato patrimonio della
sinistra radicale.
Qualche
lettore l’ha richiamata recentemente, perciò la riproponiamo.
L’iniziativa
di presentare libri, è stata presa dall’autore sull’onda della
sua elezione a delegato RSU di fabbrica.
Accolta
piacevolmente dagli altri membri del Direttivo, sarebbe bello se si
estendesse anche in altre fabbriche, perché senza solide letture, né
il sindacato né una qualunque alternativa politica di sinistra sarà
mai in grado di scrivere un programma all’altezza dei tempi.
di
Lorenzo Mortara
È del 1894, I
Viceré, uno dei massimi capolavori della letteratura italiana,
uscito fuori dalla penna verista di De Roberto. Al suo apparire e per
molto tempo, il romanzo non ebbe fortuna, anche, ma non solo, per la
stroncatura senza appello che gli appioppò l’estetica da
governante del Croce. La retorica risorgimentale, di cui oggi si
festeggiano i 150 anni della sua puntuale riproposizione, non poteva
sopportare molto un romanzo che faceva piazza pulita del mito
unitario.
Il romanzo si snoda
a cavallo dell’impresa garibaldina dei mille e narra le vicende
della nobile famiglia Uzeda di Francalanza, i Viceré appunto dei
Borboni, il cui destino, senza che vi sia del fatalismo, perlomeno in
chi scrive, è quello di governare sia prima che dopo il passaggio di
consegne tra la monarchia spagnola e quella sabauda.
A livello dei
personaggi, l’opera è imperniata sull’apparente contrasto tra
Don Giacomo Uzeda, Principe di Francalanza, e il principino Consalvo,
suo figlio. Contrasto che De Roberto segue fin dall’infanzia del
principino, smussandone via via gli angoli, per scioglierlo
nell’ultima parte del romanzo in una sostanziale continuità.
Consalvo, in effetti, è il vero erede di Don Giacomo, e il contrasto
col padre, apparentemente di valori e di ideali, non può che essere
alla fine solo un banale scontro generazionale tra il vecchio e il
nuovo modo di difendere gli stessi interessi.
Sullo sfondo
dell’alleanza tra la borghesia industriale del Nord e
l’aristocrazia terriera del Sud, su cui s’imperniava la nascente
industrializzazione capitalistica italiana, il romanzo non concede
spazio a sentimenti, emozioni o altre pose romantiche. Tutto è
calcolo, cinismo e arrivismo, comprese fede e superstizioni che fanno
solo da supporto. I rapporti sono bloccati. Le donne non contano.
L’interesse costringe alla capitolazione ogni timido tentativo che
i personaggi fanno, qua e là, di ribellarsi.
Per il pessimismo
senza speranza, ma anche senza rimpianti, con cui De Roberto narra i
primi passi dello Stato unitario, il romanzo è stato associato a Il
Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Il paragone è più che
pertinente, anche se va detto che è De Roberto ad anticipare Tomasi
di Lampedusa. La famosa frase in cui si riassume Il Gattopardo,
«se vogliamo che tutto
rimanga come è, bisogna che tutto cambi»,
è anticipata da De Roberto nella parodia che fa del celebre motto
del D’Azeglio: «Ora che
l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri!». I Viceré
son tutti qua, immobili nella loro sete di dominio. La ribellione di
figli e figliastri non riesce mai perché in fondo è finta, troppo
compromessa e assoggettata a un mondo che tutto sommato accettano e
condividono. La prosa di De Roberto, lenta e sicura come la vita
oziosa di questi nobili, segue tutte le incoerenze dei personaggi,
ben conscio che l’unica coerenza che possa dare solidità alla
narrazione, è la fedeltà assoluta all’interesse personale della
famiglia Uzeda.
La
modernità dell’opera, oltre al suo indubbio impianto laico, merce
rara all’epoca e non troppo disponibile nemmeno ora, si può anche
trovare in alcune felicissime trovate dell’autore che non possono
non stupire il lettore d’oggi. Si resta ad esempio sbalorditi,
nello scoprire come rassomigli a qualcuno
il modo in cui Consalvo si comprerà un seggio in Parlamento. I
Viceré dei Borboni, cambieranno subito bandiera, non appena Consalvo
capirà che basterà un po’ di demagogia per entrare nelle grazie
dei Savoia. Per convincere i suoi concittadini a votarlo, sarà a
favore della proprietà privata e contro lo sfruttamento, per la
laicità e al tempo stesso per la religione, ma soprattutto sarà per
la pubblicità di sé stesso. Non convinto del tutto dalla sua
retorica, infatti, Consalvo aggiungerà una specie di opuscolo da
regalare a tutti i suoi “sudditi” poco prima del suo trionfo
elettorale. Come non vedere in questa campagna di basso profilo, il
precedente letterario che anticipa lo stucchevole analfabetismo
sottoculturale con cui il già Viceré, Uzeda-Berlusconi, ha chiesto
alla Nazione d’incoronarlo addirittura come imperatore? In effetti,
a ben guardare, Una
Storia italiana non è
che la riedizione aggiornata con cui si è conclusa la preistoria
borbonica.
Oggi
che il successo e la grandezza del romanzo di De Roberto, sono
finalmente riconosciuti, si corre però il rischio opposto di
sopravvalutarne lo spirito nichilista. L’immobilismo eterno con cui
De Roberto e Tomasi di Lampedusa guardano alle cose umane, è spesso
associato al presunto carattere dei siciliani, ma almeno per De
Roberto si può forse ipotizzare che fosse più che altro dovuto al
contesto storico-culturale da cui proveniva. Ai tempi de I
Viceré, il socialismo
in Italia muoveva i suoi primi passi, e Marx ed Engels erano ancora
sommersi tra il positivismo, l’idealismo piccolo borghese e
l’anarchismo. Ci sarebbero voluti ancora parecchi anni prima che
attecchisse la concezione scientifica del moderno progresso
socialista. E una volta attecchita, poco più di un lustro bastò per
sommergerla di nuovo nel medioevo
stalinista da cui
ancora non è risorta.
Perciò, anche se
apparentemente la Storia sembra aver dato ragione al pessimismo senza
speranza di De Roberto, noi operai non possiamo in alcuna maniera
unirci al coro disfattista con cui, a 150 anni dall’unità borghese
d’Italia, parecchia intellighenzia ha riproposto, con rabbia, la
“quistione meridionale”. Per chi è armato del metodo storico
marxista, non dicono niente di nuovo le ultime lamentele in forma di
libro contro l’occupazione, l’assoggettamento e la repressione
con cui i briganti del Nord si annettevano i contadini del Sud, in
vista della loro proletarizzazione da immettere nell’incipiente
mercato nazionale.
La mancata
rivoluzione del Risorgimento, era in realtà l’unico modo
possibile ai borghesi per rivoluzionare i rapporti di produzione in
Italia. L’aumento del divario Nord-Sud, non è l’indice del
fallimento unitario, al contrario mostra il suo strepitoso successo,
dietro al quale si cela la vera contrapposizione, tra padroni e
salariati, che permea l’Italia come tutto il resto del mondo, e che
torna oggi prepotentemente alla ribalta dopo che tanti superficiali
l’avevano data per risolta una volta per tutte.
Solo
col completo dispiego del capitalismo è possibile portare pienamente
allo scoperto il contrasto fondamentale tra padroni e operai e
liberarsi degli ultimi Borboni senza corona che infestano l’Italia.
Tornando indietro, al Regno
Delle
Due Sicilie, o
addirittura credendo di andare avanti impaludandosi nella reazionaria
quanto fantastica Padania,
è impossibile.
Tuttavia,
se l’unico rivolgimento storicamente possibile, non è ancora
avvenuto, non è per l’immutabilità delle cose o perché il
nichilismo dei senza speranza alla De Roberto, abbia avuto ragione.
Il motivo è meno metafisico e più terra terra, e va ricercato nel
fallimento secolare, storico della sinistra italiana. Infatti, mentre
i nuovi borghesi industriali, i vecchi proprietari terrieri, i soliti
preti e gli altri redditieri, si alleavano per difendersi coi denti e
con le unghie dall’ascesa del proletariato, in 150 anni di Storia,
la sinistra tutta, invece di sentirsi intimamente legata alla nostra
sorte, ha finito in un modo o nell’altro, specie nei momenti
decisivi, col farsi
anch’essa – purtroppo! – gli affari loro.
(a
Giovanni Forti, chiunque sia la sua governante, e a Garibaldi.
Viva
l’impresa dei mille! Evviva le camicie rosse!)
Stazione
dei Celti,
Domenica 27
Marzo 2011
Lorenzo Mortara Delegato Fiom-Cgil
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