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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 22 novembre 2011

La premiata compagnia comica dei tecnici e dei politici e la dura realtà dei mercati, di Riccardo Achilli


Il mago Monti si affanna disperatamente per accreditare la sua immagine di "guru", sperando che questa basti per risollevare il clima di fiducia degli investitori rispetto all'Italia, mentre affida alla stampa, a cadenza pressoché quotidiana, nuovi progetti di austerità finanziaria, lanciando continuamente annunci ad effetto, come se le grandi banche d'affari ed i grandi fondi di investimento fossero dei poveri grulli che si fanno incantare da un imbonitore travestito da scienziato, che cerca di vendere loro una lozione miracolosa in una fiera di Paese. D'altra parte, in un Paese già tecnicamente fallito, l'unica speranza per ritardare l'inevitabile dichiarazione di fallimento è quella di "imbonire" i mercati, magari i piccoli risparmiatori ed i piccoli investitori, che sono più facilmente ingannabili (ovviamente solo nel breve termine, un pò come furono ingannate quelle centinaia di piccoli risparmiatori italiani che comprarono i bond argentini immediatamente prima della dichiarazione di default, per ritrovarsi in mano carta straccia, dopo che il governo argentino, come ovvia conseguenza dell'altrettanto ovvia dichiarazione di default, ripudiò parte del suo debito estero). Per tale opera di imbonitore, Monti ed i suoi "tecnici" sono disposti a spendersi la credibilità professionale acquisita in anni di duro lavoro, e sono quindi assimilabili ad una premiata compagnia di cabarettisti.
La Merkel e Sarkozy, dal canto loro, tentano disperatamente di collaborare a montare questo triste teatrino, attorno al cadavere di un'economia già fallita, e quindi lavorano affannosamente per "gonfiare" l'immagine internazionale di Monti, sperando che i nuovi governi di Italia, Spagna, Grecia, Portogallo ed Irlanda facciano i tagli immani ai loro sistemi sociali che evitino l'inevitabile, ovvero l'evidente conclusione che, in un'area monetaria e di mercato unica, gli squilibri delle finanze pubbliche dei PIIGS saranno pagati anche dai cittadini tedeschi e francesi (anzi, vengono già pagati dal contribuente tedesco e da quello francese. Altrimenti da dove uscirebbero fuori i soldi per alimentare l'Efsf, il fondo salva-Stati?)
A questo triste teatrino comico risponde la voce dei mercati, cui tale teatrino è rivolto. E la risposta dei mercati è simile a quando, in uno spettacolo teatrale da guitti, il pubblico esasperato tira ortaggi agli attori. Tacitando gli increduli apologeti del cosiddetto "effetto-Monti", che aveva provocato un momentaneo ribasso dello spread nei giorni dell'annuncio della caduta di Berlusconi, oggi questo parametro è tornato a volare, mentre la borsa di Milano crolla, ad un ritmo spaventoso anche rispetto al calo degli altri mercati finanziari, vanificando l'effetto-Monti. La voce degli investitori, che boccia lo spettacolino pietoso della premiata compagnia teatrale Merkel-Sarkozy-Napolitano-Monti, proviene da uno studio del Crédit Suisse, una delle più grandi banche del mondo, pubblicato stamattina, e dal titolo molto eloquente: “Gli ultimi giorni dell'euro”: secondo tale studio, è prevedibile che lo spread fra Btp e Bund continui a crescere, e che nei prossimi giorni il rendimento dei Btp superi il 9%, nonostante il governo-Monti e le sue annunciate politiche di austerità. Vale la pena di ricordare che i calcoli fatti dalla Banca d'Italia portano a considerare come limite massimo da non valicare se non si vuole andare automaticamente in default, con crescita prossima allo zero (come dovrebbe essere quella italiana nel 2012-2013) un rendimento medio dei Btp pari all'8%! Ogni aumento di 100 punti-base dello spread costa circa lo 0,2% del PIL in termini di maggiori interessi sul debito pubblico nel primo anno, e 0,4 punti nel secondo e terzo, ci spiega il neo-governatore Visco. Soltanto oggi, nonostante la trionfale entrata in carica, a passo di bersagliere, del guru Monti, tanto apprezzato dai mercati, lo spread è aumentato di 7 punti-base, aggravando l'onere degli interessi sul debito pubblico di 0,01 punti di PIL, cioè di 218 milioni di euro, e tutto questo in un solo giorno! La borsa di Milano tracolla del 4,7% in un solo giorno, e le spiegazioni che tentano di legare questo andamento allo scandalo-Finmeccanica sono davvero miserelle. Di fatto la borsa italiana è diventata un luogo infrequentabile per le aziende che intendono ricapitalizzarsi, ed i titoli azionari svalutati pesano come macigni negli stati patrimoniali di aziende e banche, mentre le relative minusvalenze pesano sui loro conti economici.
E naturalmente è la stessa voce di mercato a suggerire la soluzione più gradita: sempre seguendo le indicazioni dello studio di Crédit Suisse, che ovviamente riporta la voce del mercato, "nel breve periodo, il problema della crisi dell'euro non può essere risolto dalla Bce o da nuovi governi in Grecia, Italia o Spagna. Il problema è che i mercati hanno bisogno di segnali credibili sotto forma di un'unione fiscale e politica ben prima che si possano modificare i trattati". Ecco la verità. Sulla base della fin troppo ovvia conclusione dell'esperienza greca, con un Paese che è già in default, come ammette candidamente uno studio riservato della Troika, quello che serve ai mercati finanziari non è soltanto ed unicamente la macelleria sociale che la compagnia di comici Merkel-Sarkozy-Napolitano-Monti si appresta ad eseguire (o meglio, ad appesantire, dopo i primi passi già compiuti dall'altra coppia di famosi cabarettisti, ovvero il duo Berlusconi-Tremonti). Questa macelleria sociale “in un solo Paese” è ovviamente necessaria per i mercati finanziari, ma da sola non è sufficiente a rassicurarli. Lo spread continua a volare, la borsa a sprofondare.
La macelleria sociale serve, certo, ai mercati finanziari, per ritardare la inevitabile dichiarazione ufficiale di default il tempo necessario a far recuperare alle banche creditrici una parte della loro esposizione creditoria nei confronti dello Stato italiano, prima che questo dichiari ufficialmente fallimento e stringa i rubinetti del rimborso. Ma serve soprattutto all'italica borghesia marchionnesca, per cercare un alibi ad un progetto di demolizione dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori che niente ha a che vedere con il risanamento dei conti pubblici, e che viene spacciato come inevitabile tributo da pagare alla ripresa della crescita in un quadro di compatibilità dei saldi di finanza pubblica (ed infatti Monti, che ha già annunciato un progetto di riforma del mercato del lavoro in senso iper-flessibile, simile a quello, di impronta liberista, presentato da Ichino, non trova niente da dire se Marchionne annuncia unilateralmente di disdire tutti i contratti in essere negli stabilimenti Fiat; persino un avvocatuccio di provincia neolaureato che sta facendo il suo periodo di praticantato in uno studio specializzato in diritto civile capirebbe che è illegale la disdetta unilaterale, ma il "supertecnico" "Super Mario Bros" Monti non trova niente da dire). La macelleria sociale serve a Merkel e Sarkozy, in disperata caduta libera di consensi, per far credere all'elettore tedesco medio, o all'elettore francese medio, che non pagherà per la crisi italiana o per quella greca (ovviamente mentono, per quanto detto sopra). La macelleria sociale serve alla grande borghesia industriale globale per fare gli ultimi buoni affari con la privatizzazione di tutto quanto sia privatizzabile del patrimonio pubblico (privatizzazioni fatte, ovviamente, con la scusa del risanamento del bilancio pubblico). A questo serve. Ma non è sufficiente per i mercati finanziari, e di conseguenza per salvare l'euro.
Secondo Crédit Suisse, che è il loro portavoce, ai mercati finanziari serve soprattutto, ed anche prima delle politiche di risanamento dei singoli governi, una unione politica e fiscale europea, una disciplina fiscale unica. Solo una unificazione delle politiche fiscali su base europea potrebbe tranquillizzare i mercati e fermare la speculazione sui debiti sovrani. Ed è ciò verso cui si sta dirigendo Mario Draghi, quando incoraggia i Paesi europei a creare una politica fiscale unica, o quantomeno a creare un meccanismo di eurobonds coperti da garanzie incrociate dei Paesi membri (il che equivarrebbe, di fatto, all'unificazione dei debiti pubblici dei singoli Paesi membri, ed alla creazione di un unico debito pubblico europeo, garantito dall'intera economia europea, e facilmente monetizzabile dalla Bce, senza incorrere in accuse di voler salvare il singolo Paese ai danni degli altri, ed ai danni dell'euro, che dalla monetizzazione del debito riceve inevitabili spinte svalutative, vero terrore per la fobia inflazionistica della Bundesbank). Peccato che tale progetto sia irrealizzabile, perché in questo modo i governi francese e tedesco dovrebbero ammettere che stanno facendosi carico del debito pubblico dei PIIGS, scaricandolo sui loro cittadini (è già così oggi, ma la Merkel e Sarkozy riescono ancora a illudere i loro elettori del contrario) e la Bundesbank, ancora molto influente nelle decisioni della Bce nonostante le dimissioni di Stark, dovrebbe ingoiare due rospi molto pesanti per la sua ortodossia monetarista, ovvero, in primis, l'accettazione del principio secondo cui il debito pubblico dei Paesi virtuosi dovrebbe mescolarsi con quello dei Paesi "licenziosi", allentando necessariamente la disciplina di bilancio dei virtuosi. Poi, dovrebbe accettare il principio secondo cui fra debito pubblico, gestito a livello centralizzato europeo, e gestione della politica monetaria, verrebbero a crearsi necessarie sinergie, in una fase di crisi come quella attuale, con la Bce che probabilmente inizierebbe a comprare eurobonds anche sul mercato primario, anziché limitarsi, come fa oggi, ad acquistare titoli del debito pubblico dei PIIGS sul secondario. Il che porterebbe inevitabilmente a monetizzare in forma diretta e palese il debito, con i noti effetti inflazionistici. Un vero incubo per la Friedmannjugend annidata dentro la Bundesbank. Infatti, ancora oggi, e nonostante il duro incitamento dei mercati, tramite Crédit Suisse, a velocizzare l'unione fiscale e politica europea, la Merkel ed il suo Ministro delle Finanze si ostinano a dire che "gli eurobonds non risolvono niente".
Inoltre, l'idea di unificare su scala europea le politiche fiscali è difficile da realizzare, perché contrasta con la spontanea tendenza del capitalismo in crisi verso il nazionalismo e il protezionismo. Tale tendenza emerse anche nella crisi degli anni Trenta, e fu in larga misura responsabile dell'esplosione del secondo conflitto mondiale. Ed è presente anche oggi: si va dalla presenza di movimenti politici localistici ed antieuropei, come risposta "difensiva" alla crisi da parte delle comunità locali (Lega in Italia, tanto per dirne uno) al progresso elettorale della destra xenofoba ed antieuropeista, in Paesi strategici, come l'Olanda, la Svezia, in misura minore la Francia. Si va dalla buffonesca idea di tornare ad acquistare auto blu di marca italiana nel nostro Paese, al ben più serio "buy american" lanciato da Obama, alla tendenza verso l'irrigidimento nei confronti delle importazioni agricole extra-UE. Il capitalismo in crisi non ha la tendenza ad unire. Ha la tendenza naturale a dividere, perché il meccanismo competitivo, che è la base del funzionamento del capitalismo, nella fasi di crisi tende a degenerare, a divenire più selvaggio, più radicale, meno controllabile politicamente. In fondo, un simile comportamento può essere osservato con i cani in cattività: date loro un pasto abbondante ogni giorno, e ciascuno mangerà dalla sua ciotola, senza disturbare gli altri cani. Iniziate a ridurre il cibo, e l'aggressività reciproca diverrà via via sempre più incontrollabile. Questo avviene anche con i cani del capitalismo. Perché l'industriale o il banchiere tedesco dovrebbe accettare una unificazione delle politiche di gestione del debito, quando dal fallimento di interi Paesi, come l'Italia o la Grecia, può sperare di ricavare qualche opportunità di business, per esempio tramite le privatizzazioni, o semplicemente perché il fallimento dei relativi sistemi produttivi nazionali riduce la concorrenza su un mercato sempre più debole? "E se poi non potrò più esportare in Italia o in Grecia, perché questi due Paesi saranno falliti, potrò sempre esportare in Cina, e sfruttare il mio mercato interno, senza più la concorrenza fastidiosa degli imprenditori italiani". Così ragiona il capitalista/dobermann tedesco.
Ma vorrò essere generoso: ammettiamo pure che una forma di unificazione delle politiche fiscali e di gestione del debito si realizzi su scala europea. Cosa avrebbe guadagnato la borghesia europea da una simile soluzione, nel lungo periodo? Un accrescimento del livello di concorrenzialità sul mercato interno europeo, perché di fatto salterebbe l'ultima delle protezioni per l'imprenditoria endogena che i singoli Paesi membri possono ancora offrire, ovvero quella fornita dalla fiscalità di vantaggio (su cui un Paese come l'Irlanda ha costruito il suo sviluppo economico) e dalla spesa pubblica per incentivi ed agevolazioni alle attività produttive (sulla quale l'Italia ha fatto sopravvivere artificiosamente per decenni, e con meccanismi spesso puramente assistenziali, il sistema produttivo del Mezzogiorno, che senza gli aiuti pubblici sarebbe franato rovinosamente nei confronti della concorrenza globale). Non c'è bisogno di essere seguaci di Sweezy e Baran (come io sono) per capire che nell'attuale fase del capitalismo, una maggiore concorrenza porterebbe all'accelerazione dei processi di concentrazione e crescita dimensionale già in atto da decenni, in breve ad un'accelerazione notevole della tendenza, già in atto, verso una concorrenza di tipo oligopolistico, nella quale sopravvivono solo i giganti, legati fra loro da cartelli più o meno formali, più o meno palesi. Il che comporterebbe il fallimento di decine di migliaia di PMI in tutta Europa, quindi la rovina definitiva della piccola borghesia produttiva, che finirebbe per proletarizzarsi. Tutto ciò non farebbe che accelerare la fine stessa del capitalismo, esattamente con i meccanismi previsti da Marx, ovvero, da un lato, una concentrazione oligopolistica estrema, che finirebbe per bloccare i processi di riproduzione allargata, e dall'altro un impoverimento della domanda per consumi, che finirebbe per azzerare il saggio di profitto. Stavolta, a meno di colpi di scena, la strada sembra davvero segnata: che non si faccia alcuna unificazione europea delle politiche fiscali e del debito, come sembra probabile, o che si faccia.

2 commenti:

de Candia ha detto...

Dato che lo spread è solo un "numeretto" creato ad arte per alimentare tensioni e pressioni sul paese di turno colpito, come diavolo fa Visco a calcolare che "100 punti di spread il primo anno costano lo 0,2% di PIL, 0,4% il secondo anno e così via" (quindi in progressione esponenziale)?
Misteri della Banca d'Italia!!!

Olympe de Gouges ha detto...

lucidissima

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