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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 4 ottobre 2012

POLONIA: CUORE D’EUROPA O COLONIA USA? di Norberto Fragiacomo



POLONIA: CUORE D’EUROPA O COLONIA USA?
Viaggio nel Paese europeo che “cresce sempre”, ma s’ingozza di Big Mac e ha fame di autostrade
di
Norberto Fragiacomo


C’è un solo Paese, nell’Unione, che la crisi del 2008-2009 sembra aver risparmiato, e che continua cocciutamente a scalare le classifiche del PIL: questa “Cina d’Europa” si chiama Polonia, ed ha alle spalle una storia travagliata, commovente ed eroica. Abbonato alle catastrofi (il termine katastrofa è quasi un intercalare, nella lingua parlata!), lo Stato che guarda al Baltico ha sfoggiato, negli ultimi anni, serpentine degne del miglior Deyna, dribblando tutti gli ostacoli disseminati sul cammino dalla recessione globale. Questo perlomeno dicono le statistiche: nel 2012 il prodotto interno lordo è cresciuto del 2,5%, e per l’anno prossimo il governo polacco prevede un incremento del 2,2, sebbene il ministro dell’economia Rostowski, in tivù, metta le mani avanti “ci aspetta un difficile 2013”.
E’ tutto oro quel che luccica, lungo la Vistola?
Approfittando dell’invito di un amico triestino-polacco (“mezzo polacco”, ci tiene a precisare) ho trascorso una decina di giorni in Polonia e, spostandomi in auto e in treno attraverso il Paese, ho colto alcune istantanee di una realtà complessa e sfuggente. Quello che segue non è un resoconto di viaggio né, tantomeno, una guida turistica in formato mignon: prendetelo semmai come un incitamento a visitare una terra affascinante, corredato da una manciata di note personali, senza pretese di obiettività. Appunti sparsi, insomma.
I polacchi, confesso, li conoscevo già un po’ – qualche anno fa ho persino tentato di apprenderne la lingua, senza troppo successo (e in ogni caso, nel frattempo, ho dimenticato tutto). Sotto un cielo sereno, comunque, ho visto luoghi di cui ignoravo l’esistenza, provato sensazioni nuove e contraddittorie scoprendo paesi, cittadine e quartieri lontani anni luce dai centri commerciali dell’opulenta Varsavia.
La porta d’ingresso sono i Sudeti, dolci colline verdi su cui corre il confine ceco-polacco: pernottiamo in una cittadina montana dal nome impronunciabile per l’italiano medio (Międzylesie, che significa “in mezzo al bosco”). Castello, chiesetta, tanti negozi di alkohole… e, intorno, un ambiente ancora incontaminato. Nessuno qui ha violentato i colli costruendovi brutte case per le vacanze o, peggio ancora, capannoni: lo sguardo spazia su prati sconfinati, foreste di faggi e conifere. Un senso di pace assoluta, reso più intenso dall’aria frizzante. Oltre al rispetto del territorio, c’è qualcos’altro che in Italia ci manca: gli działki, parola traducibile con orti comunitari. Ai tempi del comunismo chiunque, in campagna ma anche in città, riceveva dallo Stato un minuscolo appezzamento di terra da coltivare o in cui, semplicemente, trascorrere le giornate libere. I lotti sono situati uno accanto all’altro: alcuni appaiono abbandonati, altri hanno l’aspetto di rigogliosi giardini; al centro, o ai margini, sorge un capanno che, in certi casi, somiglia ad una casetta vera e propria. La tradizione degli orti in concessione, molto radicata in Polonia, è messa oggi in pericolo dalla speculazione capitalista, a caccia di spazi edificabili: per difendere gli działki è sorto un movimento su scala nazionale, cui auguro pieno successo. L’amico triestino-polacco la pensa come me, sul punto: sarà per noi un prezioso Virgilio visto che, pur essendo nativo della Slesia, ha trascorso l’infanzia e la giovinezza in Friuli Venezia Giulia e si considera – pienamente a ragione – un triestin patoco.
Verso sera, sperimento l’ospitalità di un’anziana coppia del posto: mentre il marito scherza con noi in polacco, la signora cucina dei fantastici gnocchetti slesiani (l’indomani preparerà pierogi altrettanto deliziosi), e non la smette di scusarsi per le ridotte dimensioni dell’appartamento. A me l’abitazione pare normalissima, e provo a spiegarle, con l’aiuto fattivo del nostro “interprete”, che gran parte dei pensionati triestini vivono in condizioni simili – condizioni che, personalmente, definirei decorose. La padrona di casa è persona assai devota: fino a qualche tempo fa una quota non piccola della sua (magra) pensione contribuiva a finanziare la costruzione di un nuovissimo, sfarzoso santuario a Lichen - una similSan Pietro ricoperta d’oro che la ricchissima Chiesa polacca ha edificato a maggior gloria di Dio, cioè di se stessa.
Dal villaggio alla metropoli il passo è assai lungo, specie perché per Wroclaw (Breslavia) nie ma autostrady, non c’è autostrada: ci toccano stradine di campagna, e qualche sosta in centri che, per dirla con Guccini, hanno visto altri splendori. Ziębice vanta un rynek (=piazza centrale) ben conservato, e un originale campanile a torre, ma è decisamente poco valorizzata: le facciate delle case sono scolorite, nell’unico bar servono ottima birra e qualcosa che ricorda vagamente il caffè. Turisti? Figuriamoci, siamo gli unici… eppure la cittadina regala scorci pittoreschi.
L’antica Breslau è l’immagine della Polonia rampante: palazzi rimessi a nuovo, locali sfavillanti (dove però si mangia benissimo a prezzi accettabili), giovani in carriera, cosmopoliti e allegri. Dopo il ’45, la città ha cambiato anima: nelle case abbandonate dai tedeschi (espulsi) si sono sistemate decine, forse centinaia di migliaia di profughi provenienti dalla zona di Lwòw (Leopoli), strappata ai polacchi dall’Unione Sovietica. Un doppio esodo, che ricorda quello istriano – ma le cifre sono almeno decuplicate. Anche qui scuse inattese: l’ottantenne, vivacissima dottoressa che cuoce per noi le krokety (cannelloni impanati) sembra vergognarsi del proprio appartamento, che consta, in fin dei conti, di tre stanze. Una chiave di lettura ce la offre lei stessa: gli occhi le si illuminano mentre parla di un figlio che, emigrato in America, ha fatto fortuna, tanto da acquistare, sull’isola di Antigua, una villa confinante con quella dei Rockefeller. The American Dream… Anche la signora J. ha lavorato per un po’ negli USA, come infermiera, dopo una vita passata col marito a curare gratis, per conto dello Stato, contadini polacchi: possibile non si sia resa conto che, negli States, l’assistenza sanitaria pubblica non esiste, e che quella privata è un lusso per pochi? Sì, ha notato tante ingiustizie, conferma con aria mesta, e si lamenta del fatto che anche qui, in Polonia, la gioventù snobba la cultura, è meno preparata di un tempo (che sia un effetto dell’americanizzazione?, sono tentato di commentare) - ma, come dire, è come se non volesse rinunciare alla sua utopia d’oltreoceano, a quel sogno di democrazia, libertà e ricchezza che per molti, alla fin fine, assume i connotati di un incubo. Grandi case spaziose: sinonimo di Occidente? Qualcosa comincia a tornare: l’impressione è che per i polacchi, pur fieramente europei (e guai parlar loro di “Europa dell’est”, replicherebbero sdegnati, squadernando l’atlante: la Polonia è al centro del continente!), il concetto di America si sovrapponga a quello di Occidente, e la stessa Europa sia, al pari dell’Alaska, una propaggine degli USA. I tedeschi, gli italiani, i francesi, essendo quasi americani, vivrebbero tutti in ville di 7-8 stanze, e potrebbero sentirsi a disagio, dunque, in un modesto appartamento polacco… in fondo è una fantasia non dissimile da quelle diffuse in Italia, negli anni ’80, da soap come Dallas o Dynasty, solo che ha messo radici più in profondità.
Dalle pieghe del discorso proseguito davanti ad una tazza di tè (l’herbata resta la bevanda nazionale, la passione per il caffè italiano è limitata alla Varsavia bene) si apprendono, a spizzico, particolari interessanti: per esempio, che nella Polonia socialista si andava in pensione presto, ben prima dei sessant’anni, e che le persone ingiustamente detenute avevano perlomeno diritto ad un risarcimento in denaro.
Tornando al nostro viaggio, Wroclaw è la base di partenza ideale per escursioni giornaliere nelle altre città d’arte della Slesia, una regione in cui, fin dal medioevo, l’elemento slavo e quello germanico hanno convissuto più o meno pacificamente, contaminandosi a vicenda (capita, nelle zone di confine, anche se ai maniaci delle patrie la cosa non va giù). Świdnica (Schweidnitz in tedesco) è diventata sito Unesco grazie ad una spettacolare chiesa barocca costruita interamente in legno all’indomani della Pace di Westfalia (1648). Gli artefici, protestanti, ci misero meno di un anno, non perché aspirassero ad entrare nel Guinness dei primati, ma – più prosaicamente – per via di una clausola del trattato che prevedeva questa condizione capestro: il risultato è straordinario, a dimostrazione dell’assunto che spesso dal male (un conflitto religioso che insanguinò Germania e territori limitrofi per oltre trent’anni) nasce il bene, o almeno il bello. La città vecchia è abbastanza curata e il rynek, contornato da edifici d’epoca, impressiona favorevolmente: basta avventurarsi, però, nelle stradine laterali per respirare quell’atmosfera provinciale e un po’ naif che fa tanto Jugoslavia anni ’70-’80. Pochissimi bar (squallidini), qualche negozio senza pretese e gente che passa di fretta. Benessere? Forse tra qualche anno, chissà… lungo la provinciale che ci riporta a Breslavia si susseguono case non intonacate, ruderi, qualche modesta chiesetta. Per fortuna, il PIL cresce: ad ogni angolo di strada un ammiccante Chuck Norris in formato country sollecita padri di famiglia a indebitarsi con le banche, e così sia.
Dopo due notti slesiane, innaffiate dall’ottima birra locale, prendiamo la strada per Krakòw, sede della più antica università polacca. Inutile descrivere la maestà del Wawel, rifatto nel ‘500 da architetti italiani, o le mirabili decorazioni che impreziosiscono le facciate di palazzi e basiliche: per moltissimi polacchi – compreso Ł., che pure è nato a Breslavia – Cracovia, oltre a custodire le reliquie di re, santi ed eroi, è la più bella fra le città del Paese. Avendola già assaporata in passato, posso permettermi una visita al sobborgo di Nowa Huta, di cui un amico architetto mi ha parlato con entusiasmo.



Niente di particolare, in apparenza: “solo” un quartiere operaio edificato, tra il ’49 e il ’59, dal regime comunista. Ad occidentali intossicati dalla propaganda dei vincitori quei casermoni tutti uguali non diranno nulla: costituiranno semmai la conferma di quanto grigia e squallida fosse l’esistenza al di là della cortina di ferro. Il turista non noterà l’altezza dei piani degli edifici, né i larghi viali; le zone pedonali (!) e i giardini lo lasceranno indifferente, così come la notizia che in questo “quartiere dormitorio” (?) c’erano ristoranti, teatri e cinematografi. Approverà, con un sogghigno compiaciuto, l’abbattimento della statua di Lenin che dominava la spianata centrale (centrum), e troverà giusto, magari, che, in oltraggio al passato, la piazza rotonda sia stata ribattezzata Ronald Reagan. La damnatio memoriae inflitta al quarantennio comunista annerisce ogni cosa, ponendo sullo stesso piano conquiste sociali e repressione violenta. Eppure basterebbe paragonare questa grandiosa realizzazione al Corviale o alle periferie delle nostre città per apprezzarla; al limite, prima di esprimere una condanna senza appello, ci si potrebbe chiedere chi stesse peggio tra i sottoproletari romani descritti da Pasolini e gli operai di Nowa Huta, col tram sotto casa e vasti parchi per il relax. Ma non c’era libertà! S’indigna il cane di Pavlov allevato in noi. No, non ce n’era, o ce n’era assai poca… ma a decine di milioni di cittadini statunitensi mr. Reagan ha concesso soltanto quella di morir di fame. L’intitolazione della piazza è tuttavia sintomatica del filoamericanismo spinto dei polacchi, cui la vista di una Stars and stripes inibisce lo spirito critico. Un lascito ideale del leggendario Kościuszko, protagonista della Guerra d’Indipendenza Americana? Sembra piuttosto verisimile che l’ostentata passione per gli USA funga da sottolineatura (forse inconscia) del rifiuto di tutto ciò che proviene dal secolare nemico russo, comunismo incluso.
Ad ogni modo, nel ristorante Stylowa – un tipico “relitto” degli anni ’70, con pesanti tendaggi alle finestre, luci basse e cameriere attempate – abbiamo mangiato divinamente, pagando poco o nulla, mentre sul centrum calavano le tenebre settembrine.
Prima di muovere verso il Baltico c’è tempo per un’occhiata ad una delle chiese lignee che sorgono numerose nella Małopolska, ad est di Cracovia. Questi edifici (patrimonio Unesco) rappresentano la verace testimonianza di un’architettura che, prima dell’importazione del Rinascimento dall’Italia, utilizzava poco la pietra e moltissimo il legno. A Lipnica Murowana entriamo in una chiesetta i cui affreschi, che ricoprono il soffitto e le pareti interne, sono stati miracolosamente risparmiati dalla grande alluvione del 1997. I più interessanti – e caratteristici – consistono in motivi geometrici, opera di maestranze locali; altri, tracciati da mani inesperte a fine ‘600, raccontano una storia di devozione, ingenuità e stretti legami con la terra. Mi soffermo su due pale d’altare: quella centrale, di fine ‘400, parla un raffinato linguaggio gotico; la seconda, più piccola, è improntata a quello stile rinascimentale che attecchì, in Europa centrale, un secolo dopo Masaccio (e quarant’anni dopo Domenico da Tolmezzo, incerto precursore del Rinascimento in Friuli). Il palo verticale della croce, posta dietro l’altar maggiore, riserva una sorpresa: si tratta di un antico totem precristiano, adibito a nuovo uso ai tempi dell’evangelizzazione. Evidentemente, il second hand andava di moda già allora…
Lipnica è oggi un piccolo borgo, cui conferiscono ulteriore lustro una parrocchiale (in pietra) del diciassettesimo secolo e, soprattutto, una santa e una beata, appartenenti entrambe alla stirpe dei signori locali.
Inizia a scendere dolcemente la sera mentre, nel rynek deserto, offro una sigaretta ad un anziano del posto; dalla chiesa poco distante si diffondono, discrete, le note di un organo.

*          *          *

 L’unica autostrada del Paese è l’A4 che, partendo da Krakòw (Cracovia), sfiora l’immenso agglomerato industriale di Katowice e, dopo alcune centinaia di chilometri, raggiunge Warszawa (Varsavia), via Częstochowa e Lòdz. Niente capitale, stavolta: recato omaggio alla Madonna Nera – cioè a Jasna Gòra, tempio della “polonità” - prenderemo il treno notturno per Gdansk (Danzica), una delle perle del Baltico. Lungo la strada tocca fare una deviazione di quelle obbligate, per visitare… l’inferno in terra. Oświęcim è il nome polacco di una cittadina delle dimensioni di Gorizia, con un centro storico senza infamia né lode: non fosse per il nome tedesco (Auschwitz), gireremmo al largo. Invece bisogna fermarsi, entrare, riflettere. Sono già stato in questo luogo, una caserma trasformata in Lager, mattatoio, Endstation… cifre (oltre un milione di morti, in maggioranza ebrei), istantanee di condannati, valigie con cognomi e indirizzi, masse di capelli grigi, stoviglie. Tutt’intorno una natura ingannevolmente mite, verde di faggi e betulle, e tanti, troppi punti di ristoro (oggi). Come la prima volta, mi viene il groppo in gola mentre osservo centinaia di stampelle e gambe di legno, accatastate alla rinfusa in una baracca. C’è qualcosa di peggio dello sterminio, delle camere a gas, dei forni poi smantellati: è il privare gli esseri umani della loro dolente dignità, dell’incerto supporto di un arto artificiale, dei ricordi legati ad un orologio da polso. Il nostro cammino su questa terra è breve, inappagante, ma la “social catena” cantata dal poeta è mera illusione: esistono invece i ceppi, i ferri della schiavitù, l’arbitrio. Altro che mutuo soccorso! Sembra quasi che l’uomo si vendichi della propria angosciante mortalità uccidendo ed infierendo sui suoi simili. L’esplorazione dell’orrore è esplorazione di noi stessi, condotta senza bussola né luce.
Nuovamente in auto: fa quasi caldo, la strada è buona. Autogrill, più numerosi che da noi, e molto “americani”: c’è un Mc Donald, gli altri appartengono alla catena KFC (Pollo fritto del Kentucky). Per fortuna, abbiamo fatto colazione prima di metterci in viaggio…
Anche Częstochowa pare un fast food (o l’isola dei… coprofagi): le insegne di Mc Donald campeggiano ovunque. Cosa ci troveranno i polacchi nel Big Mac (a parte un surrogato della carne, si intende)? Forse, addentando quella robaccia, si illudono di diventare più “occidentali”, più americani. Non credo sia una semplice moda, né che il basso prezzo del prodotto giochi un ruolo particolare: quel panino spugnoso è una specie di ostia laica, da consumare non senza emozione. Da agnostico, preferisco dedicare un’oretta a Jasna Gòra, il cui affusolato campanile svetta sulla città come il collo di un cigno.



Il monastero è un gigantesco tabor, è luogo di culto ed allo stesso tempo fortezza inespugnabile: contro le sue mura, nel ‘600, si infranse la brama di dominio dei re svedesi, poi battuti anche sul mare. Polska na zawsze, Polonia per sempre… il prete intona un canto liturgico, dando le spalle ai fedeli inginocchiati o distesi a terra. Mi sento un po’ un intruso, cerco di farmi piacere le pesanti dorature barocche; l’occhio, infine, si sofferma su una targa che ricorda il sacrificio dei soldati dell’Armia Krajowa, l’esercito clandestino che contese la patria ai nazisti (e poi ai sovietici). Sempre in lotta questi polacchi, vaso di coccio tra due vasi di ferro… no: vaso di ferro pure loro, visto che per mandarlo in pezzi non sono stati sufficienti attacchi, spartizioni, brutali tentativi di assimilazione. La Madonna Nera, un’icona presumibilmente bizantina, veglia su un popolo pessimista e indomabile, su questo Paese che il sommo poeta Adam Mickiewicz definì “il Cristo delle Nazioni”.
Usciamo. Dall’alto dei bastioni notiamo un ampio viale alberato, che scende verso il centro città – una città non bella, grande più di Trieste e piena di palazzoni. Ceniamo ad orari polacchi (alle 6), poi andiamo in stazione. Il treno è vecchiotto, ma puntuale (in genere, il trasporto pubblico funziona molto meglio che in Italia), le cuccette abbastanza confortevoli: nello scompartimento troviamo tre bottigliette d’acqua ed altrettante brioche per l’indomani. Ai tempi del comunismo, ci spiega Ł, si adoperava il treno per qualunque spostamento: non a caso, persino paesetti di poche case hanno la loro brava stazione ferroviaria, ed ancor oggi moltissimi giovani sono sprovvisti di patente di guida. Non c’erano quasi autostrade perché – semplicemente – non servivano (al massimo, servivano ai carri armati sovietici per spostarsi verso Occidente).
Arriviamo a Gdansk (Danzica) a notte fonda, provati dal viaggio. Oppresso dalla valigia a tracolla, cammino ingobbito con lo sguardo al suolo, poco curandomi di ciò che ci circonda. La città vecchia, in cui abitavano i polacchi, non si è mai risollevata dopo le distruzioni della guerra mondiale; głowne miasto (la città c.d. principale, tedesca), invece, è stata accuratamente ricostruita intorno alla gigantesca chiesa di mattoni di S. Maria. Non mi dilungherò in descrizioni; ai lettori rivolgo solo un suggerimento: andateci, Danzica è una città meravigliosa, sorprendente, viva.
Spunta l’alba e ci coglie, infreddoliti e scarmigliati, sulla Via Reale, il cuore di głowne miasto. Finalmente troviamo una pasticceria aperta (è sabato mattina), dove beviamo un caffè e bivacchiamo a lungo; quindi optiamo per la visita ad un museo, un museo molto speciale: quello di Solidarność, il sindacato “che piegò un regime”. Tutto incominciò nei cantieri navali di Danzica, anno Domini 1981: l’epopea di Lech Wałesa e dei suoi compagni è celebrata da un’esposizione permanente, Droga do wolności, il cammino verso la libertà. La mostra è assai suggestiva: solo nell’ultima sala – ove, un po’ forzatamente, si cerca di collegare la lunga battaglia sindacale con le successive rivoluzioni arlecchino sponsorizzate dal sedicente filantropo Soros – i curatori scivolano nella propaganda (filoamericana, chiaramente). Veniamo accolti dalla voce - grazie a Dio registrata - di un miliziano che ordina di esibire i documenti; indi abbiamo modo di “ammirare” l’interno di un tipico sklep (=negozio) degli anni ’70. Dietro il bancone, poco invitante, fanno brutta mostra di sé barattoli di marmellata gusto standard, formaggi in serie e poco altro; il prodotto più inquietante è una carta igienico-abrasiva, che è possibile acquistare come souvenir. Austerity, insomma – anche perché la crème della produzione locale finiva a Mosca. Meglio negozi semivuoti per tutti o negozi colmi di ogni ben di Dio, ma per pochi? La gente, si sa, è attratta dalle vetrine sfavillanti, come gli indios del ‘500 dai vetri colorati, per avere i quali davano via l’oro: il capitalismo non s’impone perché arricchisce le masse (è vero il contrario), ma per la sua capacità di affascinarle ostentando una ricchezza destinata ad una ristretta minoranza. Mi faccio scattare una foto accanto al busto di Lenin, rimosso dal cantiere, e poi apprendo – con l’aiuto del nostro amico polacco – che le rivendicazioni iniziali del sindacato non avevano un carattere specificamente “politico”. Wałesa e i suoi volevano salari agganciati al costo della vita, andare prima in pensione ecc. Alcune richieste suonano francamente esagerate: passi per una diminuzione dell’orario (tra l’altro, i ritmi di lavoro erano piuttosto blandi), ma pretendere tre anni di congedo pagato per la maternità equivale a dire “pagateci per non lavorare”. Magari! In effetti, il governo accolse qualche proposta; in seguito, la situazione precipitò quando, per evitare un’imminente invasione russa, il generale Wojciech Jaruzelski proclamò la legge marziale (13 dicembre 1981). Sullo schermo scorrono immagini di brutali pestaggi: in una sequenza del filmato, l’autista di un camion militare travolge deliberatamente un giovane, uccidendolo. Orrore comunista? Orrore e basta: anche sul corpo di Carlo Giuliani, probabilmente non ancora morto, passò una camionetta. Un esercito popolare che massacra il popolo è, tuttavia, una contraddizione in termini - di più: un irreparabile tradimento dell’ideale socialcomunista.
I curatori sembrano suggerire che la “libertà” sia stata raggiunta; secondo il sottoscritto, invece, la strada si è smarrita nel bosco. E’ “libero” un Paese in cui due nerboruti vigilantes privati possono permettersi di trascinare fuori dalla stazione un anziano innocuo che, seduto in sala d’aspetto, non dava fastidio a nessuno (ho assistito personalmente alla scena, a Danzica; aveva già notato la presenza, un po’ ovunque, di questi sorveglianti)? In tutta coscienza, direi di no.
Senzatetto, villaggi semidiroccati, pensioni basse, collegamenti avventurosi: come si concilia tutto questo con l’aumento costante del PIL? A vent’anni dalla caduta del regime, la Polonia non dà un’impressione di prosperità e vorticoso sviluppo. Grandi talenti imprenditoriali? Ce ne saranno, e certo le occasioni non mancano, visto che chiunque può aprire un’attività in un batter d’occhio, ma in una birreria artigianale di Danzica abbiamo assistito, all’ora di pranzo, ad una scenetta surreale: benché il locale fosse praticamente vuoto, la capocameriera (?) si è rifiutata di accogliere una ventina di turisti perché… non se la sentiva di disturbare il kierownik, il direttore! Roba da socialismo reale, altro che da capitalismo esuberante…
L’ideologia liberista del premier Donald (nomen omen) Tusk si traduce, d’altronde, in azioni concrete: assieme alle tasse ai benestanti è scesa pure la spesa sociale, e la guida Lonely Planet avverte che, negli ultimi anni, le strutture sanitarie pubbliche sono peggiorate, causa il taglio dei fondi – in compenso, però, il turista munito di assicurazione può avvalersi di cliniche private di livello europeo! Un’amica polacca (di sinistra) mi ha chiesto, durante una discussione: perché da noi non c’è la crisi? Le ho risposto: perché il vostro governo ha già svenduto il welfare. Ha annuito, pareva convinta. Altro che libertà, democrazia e altre fanfaluche! Il PIL polacco cresce grazie allo sfruttamento della manodopera e all’erosione dei diritti: è questo il modello che banchieri, speculatori e “tecnici” hanno in mente di estendere all’Europa c.d. occidentale… mi correggo: stanno già estendendo. Benedetto dai suoi amici finanzieri, l’elegante presidente Tusk non corregge la rotta, benché l’opposizione parlamentare, PIS di Kaczyński in testa (gli impresentabili nazionalisti sono, sotto il profilo della politica economica, molto meno “di destra” rispetto al partito al governo, Piattaforma Civica), chieda di tassare le banche e di alleviare la sofferenza sociale di giovani e pensionati.
Per tenere a freno l’insoddisfazione popolare si ricorre alla Chiesa e al babau russo, che suscita un misto di ribrezzo e paura.
Sulla tolda di un galeone a motore abbiamo fatto la traversata fino a Westerplatte, dove tutto ha avuto inizio (1 settembre 1939) con i colpi sparati dalla nave scuola Schleswig Holstein contro la fortezza presidiata dai soldati polacchi. Agli eroi di Westerplatte, che resistettero per una settimana ai bombardieri in picchiata e a soverchianti forze tedesche, sono dedicati una splendida poesia di Konstanty Ildefons Gałczyński (Canto sui soldati di Westerplatte) e questo museo all’aperto, che visitiamo cercando di non calpestare le infinite coccinelle che fanno capolino in mezzo all’erba.
Non è un caso, a parer mio, che l’ultima delle foto esposte ritragga soldati tedeschi in compagnia di uomini dell’Armata Rossa di Stalin: l’ossessione antirussa dei polacchi è percepibile ovunque, anche in posti dove si celebra la lotta contro la Germania nazista od altri nemici esterni.
Cresce in me il sospetto che dietro scelte politiche recenti ed impegnative – come quella di ospitare i missili intercettori americani sul territorio nazionale – si nasconda un desiderio, forse addirittura inconscio, di provocare la Russia, di “punire” il grande vicino per la secolare oppressione; in quest’ottica, l’incrollabile fedeltà alla NATO e l’imitazione (pedissequa) dello stile di vita e dei modelli americani diventa, più che una captatio benevolentiae, una garanzia di impunità.
Da parte mia, auguro alla Polonia e alla sua gente un futuro finalmente sereno, con meno fobie, meno angosce e più giustizia sociale. Confido che prima o poi i polacchi si stancheranno di Big Mac e Diet Coke, e riscopriranno, come d’incanto, il loro essere profondamente europei.
Un tempo, ovunque si combattesse per la libertà lì trovavi (almeno) un polacco – spero che la tradizione si rinnovi, e che altri Jozef Bem, altri Sobieski si guadagnino l’imperitura riconoscenza dei popoli europei, stremati da una crisi che assomiglia ad una guerra d’annientamento.     

2 commenti:

Ł. ha detto...

Nieźle, ossia "no xe mal" ('sto articolo) :-) Anzi: ottimo resoconto, magari comporro' un relativo tour fotografico essendo grafomane nel senso grafico del termine. E, a proposito e suggello, l'accostamento con la Cina certo non mi dispiace :-]

Unknown ha detto...

Sono anni che vado in Polonia in estate . E' un paese fantastico. La gente e' super nazionalista . Molto attaccati alla loro terra . Non esistono porte blindate , non ci sono extracomunitari delinquenti . Qui se vieni e fai il cretino finisci male. Molti polacchi vanno all'estero per guadagnare di più ma solo per dopo ritornare nel loro amato paese .

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