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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 15 marzo 2013

IL PAPA CINESE di Riccardo Achilli






IL PAPA CINESE 
di Riccardo Achilli





Mentre l’attenzione del mondo è concentrata sull’elezione del nuovo Papa, in Cina avvengono cambiamenti di importanza enorme per il futuro geo-economico del mondo. Nell’economia che oramai rappresenta il 12% del PIL mondiale, percentuale che nel 2017 arriverà a più del 14%, viene eletto, dall’Assemblea Generale del Popolo, il nuovo Presidente della Repubblica, che a sua volta designa il nuovo vice presidente ed il nuovo primo ministro.

Il nuovo leader cinese, Xi Jinping, 59 anni, corona in questo modo una carriera politica brillante, favorita dal cronico nepotismo che esiste nelle élite cinesi, e che privilegia, nell’ascesa al potere ed a posizioni prestigiose, i discendenti della prima guardia di rivoluzionari (tanto da coniare, per questo gruppo di privilegiati, spesso attivi in grandi giri di corruzione, il termine dispregiativo di “principi rossi”, o Taizi). Con una fama di efficiente funzionario del capitale internazionale, guadagnata facendo crescere notevolmente gli investimenti diretti esteri nelle province in cui è stato governatore, questo ingegnere chimico ha fatto un lungo percorso da uomo di struttura del partito, entrando nel Politburo già nel 2002, per arrivare alla segreteria del partito a Shangai nel 2007, chiamato a fare un repulisti generale di una delle sezioni più corrotte del Pcc, ed infine a membro dell’ufficio politico, nonché primo segretario del Cc, presidente della scuola di partito e vice presidente nel 2008.
E’ considerato un grande protetto del suo predecessore Hu Jintao, leader che ha introdotto numerose riforme in senso liberista, pur preservando il modello di “socialismo cinese”, ed ha spostato l’attenzione delle politiche economiche verso un maggior benessere dei cittadini ed una migliore equità distributiva. Il piano quinquennale 2011-2015, infatti, ha come obiettivi principali l’aumento dei consumi e il miglioramento dello standard di vita del lavoratore medio, attraverso una crescita maggiormente rivolta all’inclusione sociale e più sostenibile sotto il profilo della tutela dell’ambiente, nonché l’aumento delle importazioni, per migliorare anche la qualità del paniere dei consumi dei cittadini cinesi, accettando di fatto un rallentamento della crescita economica impetuosa di questi anni. E’ quindi una strategia che punta più sulla qualità, inclusività e sostenibilità dello sviluppo che sulla crescita quantitativa, modificando profondamente le priorità sino a quel momento seguite dalla dirigenza cinese.

Xi Jinping sembra voler rappresentare la continuità con tale strategia del predecessore. A sorpresa, infatti, silura il conservatore Liu Yunshan, che nei pronostici era il favorito fra i vice presidenti, a favore di Li Yuanchao, un riformista, e soprattutto sceglie come premier Li Keqiang, esponente di spicco della corrente Tuanpai del partito (una corrente riformista relativamente indipendente dal capitalismo finanziario internazionale), che si è più volte è pronunciato per attuare progetti di ristrutturazione dell'economia cinese, soprattutto in campo sociale (con la concessione di diritti e l'aumento dei salari), mentre il modello economico eccessivamente sbilanciato sulle esportazioni, ha compresso, sempre secondo Li, i diritti dei cittadini, costringendoli a regimi di lavoro insostenibili.
Evidentemente la Cina sta entrando nella fase di maturità del suo percorso di sviluppo, quella in cui, tipicamente, si supera l’ossessione per la crescita quantitativa e si mira al miglioramento del tenore e della qualità della vita e dell’equità distributiva. Tale cambiamento risponde alle aspettative di centinaia di milioni di cinesi, soprattutto dei giovani che entrano nel mercato del lavoro, e che non hanno intenzione di imitare la vita di sudore e sacrifici condotta dai padri (a tal proposito, stanno aumentando fenomeni come l’abbandono, da parte dei figli, dell’impresa familiare creata dai genitori, o addirittura un fenomeno di dimissioni volontarie dal posto di lavoro, da parte di giovani che preferiscono avere tempo libero per sé stessi piuttosto che sacrificarlo alla carriera professionale). Risponde anche all’esigenza di riequilibrare un modello di sviluppo che si è concentrato nelle grandi aree urbane e nella fascia costiera, creando un enorme squilibrio con le zone rurali interne, ancora molto povere, e pericolose tensioni, spesso sfocianti in un inurbamento disordinato di popolazione rurale in cerca di fortuna, spesso arruolata in lavoretti sottopagati nell’edilizia, e che rischia di scardinare lo stesso modello economico e sociale cinese. Tale svolta serve anche a raffreddare la congiuntura interna, che per l’eccessiva crescita registrata negli anni passati, ha corso pericoli inflazionistici (con l’indice dei prezzi al consumo che ha raggiunto una crescita dell’8,8% a febbraio 2008) con la conseguente minaccia di gonfiamento di una pericolosa bolla sui valori immobiliari, che rischiava di trascinare il Paese nello stesso baratro di crisi finanziaria dell’Occidente.
Certamente questa svolta riformista apre enormi opportunità di business per l’economia occidentale in crisi, e come al solito le imprese tedesche hanno fiutato per prime tali vantaggi (emblematica è l’operazione di rafforzamento, da parte della Mercedes, della sua joint venture con la cinese BAIC, per rafforzare la sua presenza commerciale sul mercato interno cinese). Lo stesso Xi, già nel 2009, aveva dichiarato che il contributo cinese a contrastare la crisi economica mondiale era “il maggior contributo alla razza umana” da parte del suo Paese.
Grandi cambiamenti sono poi attesi rispetto alla gigantesca macchina burocratica che soffoca il Paese. Xi ha infatti dichiarato che procederà ad una massiccia sburocratizzazione e, in linea con le politiche messe in atto quando era governatore provinciale, combatterà in modo radicale la corruzione, un elemento strutturale dello stesso concetto di potere, come si è venuto configurando storicamente in Cina, già da prima della Rivoluzione di Mao. La Cina è da sempre uno Stato burocratico, dai madarini imperiali ai funzionari di partito odierni. La burocrazia ha infatti unificato lo Stato, conferendogli autorità, stabilità, legalità. Però la burocrazia è una classe che non si riproduce generando valore aggiuntivo, poiché è esterna al ciclo di produzione. La sua forma di riproduzione (in un sistema fondamentalmente meritocratico come quello cinese, in cui si accede al funzionariato tramite esami) è, quindi, esattamente basata sulla corruzione, come forma, da un lato, di sfruttamento delle classi produttive, e dall'altro di affermazione del suo potere nella società. Potere necessario a tenere insieme un Paese immenso e profondamente diversificato come la Cina.(IL CONCETTO DI POTERE PER I CINESI)  

La svolta antiburocratica di Xi, quindi, se sarà effettivamente messa in atto, configurerà un cambiamento di pelle piuttosto radicale nello stesso sistema di potere e di amministrazione cinese, ed addirittura nella visione che i cinesi hanno del concetto di potere. Implica una parziale destrutturazione dell’apparato di partito che detiene il reale potere su una popolazione enorme e molto differenziata geograficamente, etnicamente e socialmente. In questo senso va letto il già rammentato siluramento di Liu Yunshan, che nel partito è il leader delle attività di indottrinamento ideologico della popolazione e del dipartimento di comunicazione/propaganda, nonché conservatore arcigno, favorevole all’estensione della censura politica dei media e di Internet. In questo modo, Xi assesta un colpo duro alla fazione del partito meno propensa ad aperture verso la società, e più gelosa della sua primazia e delle sue attribuzioni in termini di potere e di direzione, non solo politico/economica, ma anche culturale e  ideologica, della società civile. Per poter realizzare questa grande riforma che colpisce privilegi e posizioni di potere dell’élite burocratica del partito e dello Stato, Xi avrà quindi bisogno di appoggiarsi sui ceti emergenti della società cinese, sui nuovi ricchi, spesso giovani, culturalmente piuttosto occidentalizzati, che sono emersi facendo carriera come manager delle imprese di Stato, oppure come imprenditori/professionisti autonomi. In questo modo, la struttura sociale e di potere del Paese si occidentalizzerà progressivamente, abbandonando il tradizionale mandarinismo, proprio già dell’Impero cinese, e tramandatosi tramite la burocrazia di partito dopo la Rivoluzione, e che è addirittura il frutto della dottrina confuciana dello Stato. Ciò richiederà dunque un enorme cambiamento di passo, anche dal punto di vista culturale, e del modo con cui il cittadini cinese si rapporta con lo Stato, e non potrà che passare per una progressiva democratizzazione politica, parallela ad una riduzione del peso del paternalismo nella gestione dei rapporti fra partito-Stato e cittadino, ed una maggiore trasparenza dell’amministrazione dello Stato. In che misura tale rivoluzione prospettata da Xi sarà realizzata, non è dato saperlo. Non ci sono solo le resistenze degli apparatchik di partito ad ostacolare tale processo. Ma anche la cultura della popolazione, specie di quella che non è stata coinvolta nei grandi processi di trasformazione economica e sociale del Paese (in particolare la popolazione rurale) propende per un rapporto di subordinazione rispetto agli apparati funzionariali, subordinazione che viene scambiata con piccole concessioni di tipo assistenzialistico o paternalistico. Ma certo, se tale riforma andrà avanti, inciderà sulla natura di capitalismo di Stato della Cina, orientandola su assetti più simili a quelli del capitalismo occidentale, e sarà funzionale ad una maggiore presenza di investimenti esteri nel Paese, e, cosa non da escludere, a possibili futuri processi di privatizzazione dell’enorme patrimonio produttivo in mano allo Stato.

In politica estera, infine, non c’è da aspettarsi grandi cambiamenti. Xi ha un passato da militare, e la questione tibetana, sulla quale la leadership cinese si esercita da anni a mostrare una presunta normalità e accettazione della presenza cinese da parte della popolazione, non dovrebbe modificarsi. Così come non dovrebbe modificarsi il quadro delle alleanze internazionali (Xi e Putin si sono già sentiti telefonicamente, ribadendo il comune sentire fra Russia e Cina sulle principali questioni internazionali) né l’imperialismo “soft”, rispettoso e friendly che la Cina sta usando in Africa, per allargare la sua sfera di influenza su aree produttrici di materie prime fondamentali per la sua industria (sempre nel 2009, lo stesso Xi ha tenuto a precisare che la Cina “non esporta fame e povertà”, evidentemente marcando la differenza fra l’approccio amichevole e cooperativo tipico della Cina e l’imperialismo aggressivo e predatorio condotto dall’Occidente). 


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