IL PAPA CINESE
di Riccardo Achilli
Mentre l’attenzione del mondo è
concentrata sull’elezione del nuovo Papa, in Cina avvengono cambiamenti di
importanza enorme per il futuro geo-economico del mondo. Nell’economia che
oramai rappresenta il 12% del PIL mondiale, percentuale che nel 2017 arriverà a
più del 14%, viene eletto, dall’Assemblea Generale del Popolo, il nuovo
Presidente della Repubblica, che a sua volta designa il nuovo vice presidente
ed il nuovo primo ministro.
Il nuovo leader cinese, Xi
Jinping, 59 anni, corona in questo modo una carriera politica brillante, favorita
dal cronico nepotismo che esiste nelle élite cinesi, e che privilegia,
nell’ascesa al potere ed a posizioni prestigiose, i discendenti della prima
guardia di rivoluzionari (tanto da coniare, per questo gruppo di privilegiati,
spesso attivi in grandi giri di corruzione, il termine dispregiativo di
“principi rossi”, o Taizi). Con una fama di efficiente funzionario del capitale
internazionale, guadagnata facendo crescere notevolmente gli investimenti
diretti esteri nelle province in cui è stato governatore, questo ingegnere
chimico ha fatto un lungo percorso da uomo di struttura del partito, entrando
nel Politburo già nel 2002, per arrivare alla segreteria del partito a Shangai
nel 2007, chiamato a fare un repulisti generale di una delle sezioni più corrotte
del Pcc, ed infine a membro dell’ufficio politico, nonché primo segretario del
Cc, presidente della scuola di partito e vice presidente nel 2008.
E’
considerato un grande protetto del suo predecessore Hu Jintao, leader che ha
introdotto numerose riforme in senso liberista, pur preservando il modello di
“socialismo cinese”, ed ha spostato l’attenzione delle politiche economiche
verso un maggior benessere dei cittadini ed una migliore equità distributiva.
Il piano quinquennale 2011-2015, infatti, ha come obiettivi principali
l’aumento dei consumi e il miglioramento dello standard di vita del lavoratore
medio, attraverso una crescita maggiormente rivolta all’inclusione sociale e
più sostenibile sotto il profilo della tutela dell’ambiente, nonché l’aumento
delle importazioni, per migliorare anche la qualità del paniere dei consumi dei
cittadini cinesi, accettando di fatto un rallentamento della crescita economica
impetuosa di questi anni. E’ quindi una strategia che punta più sulla qualità,
inclusività e sostenibilità dello sviluppo che sulla crescita quantitativa,
modificando profondamente le priorità sino a quel momento seguite dalla
dirigenza cinese.
Xi Jinping sembra voler
rappresentare la continuità con tale strategia del predecessore. A sorpresa,
infatti, silura il conservatore Liu Yunshan, che nei pronostici era il favorito
fra i vice presidenti, a favore di Li Yuanchao, un riformista, e soprattutto
sceglie come premier Li Keqiang, esponente di spicco della corrente Tuanpai del
partito (una corrente riformista relativamente indipendente dal capitalismo
finanziario internazionale), che si è più volte è pronunciato per attuare
progetti di ristrutturazione dell'economia cinese, soprattutto in campo sociale
(con la concessione di diritti e l'aumento dei salari), mentre il modello
economico eccessivamente sbilanciato sulle esportazioni, ha compresso, sempre
secondo Li, i diritti dei cittadini, costringendoli a regimi di lavoro
insostenibili.
Evidentemente la Cina sta
entrando nella fase di maturità del suo percorso di sviluppo, quella in cui,
tipicamente, si supera l’ossessione per la crescita quantitativa e si mira al
miglioramento del tenore e della qualità della vita e dell’equità distributiva.
Tale cambiamento risponde alle aspettative di centinaia di milioni di cinesi,
soprattutto dei giovani che entrano nel mercato del lavoro, e che non hanno
intenzione di imitare la vita di sudore e sacrifici condotta dai padri (a tal
proposito, stanno aumentando fenomeni come l’abbandono, da parte dei figli,
dell’impresa familiare creata dai genitori, o addirittura un fenomeno di
dimissioni volontarie dal posto di lavoro, da parte di giovani che preferiscono
avere tempo libero per sé stessi piuttosto che sacrificarlo alla carriera
professionale). Risponde anche all’esigenza di riequilibrare un modello di
sviluppo che si è concentrato nelle grandi aree urbane e nella fascia costiera,
creando un enorme squilibrio con le zone rurali interne, ancora molto povere, e
pericolose tensioni, spesso sfocianti in un inurbamento disordinato di
popolazione rurale in cerca di fortuna, spesso arruolata in lavoretti
sottopagati nell’edilizia, e che rischia di scardinare lo stesso modello
economico e sociale cinese. Tale svolta serve anche a raffreddare la
congiuntura interna, che per l’eccessiva crescita registrata negli anni
passati, ha corso pericoli inflazionistici (con l’indice dei prezzi al consumo
che ha raggiunto una crescita dell’8,8% a febbraio 2008) con la conseguente
minaccia di gonfiamento di una pericolosa bolla sui valori immobiliari, che
rischiava di trascinare il Paese nello stesso baratro di crisi finanziaria
dell’Occidente.
Certamente questa svolta
riformista apre enormi opportunità di business per l’economia occidentale in
crisi, e come al solito le imprese tedesche hanno fiutato per prime tali
vantaggi (emblematica è l’operazione di rafforzamento, da parte della Mercedes,
della sua joint venture con la cinese BAIC, per rafforzare la sua presenza
commerciale sul mercato interno cinese). Lo stesso Xi, già nel 2009, aveva dichiarato
che il contributo cinese a contrastare la crisi economica mondiale era “il
maggior contributo alla razza umana” da parte del suo Paese.
Grandi cambiamenti sono poi
attesi rispetto alla gigantesca macchina burocratica che soffoca il Paese. Xi
ha infatti dichiarato che procederà ad una massiccia sburocratizzazione e, in
linea con le politiche messe in atto quando era governatore provinciale,
combatterà in modo radicale la corruzione, un elemento strutturale dello stesso
concetto di potere, come si è venuto configurando storicamente in Cina, già da
prima della Rivoluzione di Mao. La Cina è da sempre uno Stato burocratico, dai
madarini imperiali ai funzionari di partito odierni. La burocrazia ha infatti
unificato lo Stato, conferendogli autorità, stabilità, legalità. Però la
burocrazia è una classe che non si riproduce generando valore aggiuntivo,
poiché è esterna al ciclo di produzione. La sua forma di riproduzione (in un
sistema fondamentalmente meritocratico come quello cinese, in cui si accede al funzionariato
tramite esami) è, quindi, esattamente basata sulla corruzione, come forma, da
un lato, di sfruttamento delle classi produttive, e dall'altro di affermazione
del suo potere nella società. Potere necessario a tenere insieme un Paese
immenso e profondamente diversificato come la Cina.(IL CONCETTO DI POTERE PER I CINESI)
La svolta antiburocratica di Xi,
quindi, se sarà effettivamente messa in atto, configurerà un cambiamento di
pelle piuttosto radicale nello stesso sistema di potere e di amministrazione
cinese, ed addirittura nella visione che i cinesi hanno del concetto di potere.
Implica una parziale destrutturazione dell’apparato di partito che detiene il
reale potere su una popolazione enorme e molto differenziata geograficamente,
etnicamente e socialmente. In questo senso va letto il già rammentato
siluramento di Liu Yunshan, che nel partito è il leader delle attività di
indottrinamento ideologico della popolazione e del dipartimento di
comunicazione/propaganda, nonché conservatore arcigno, favorevole
all’estensione della censura politica dei media e di Internet. In questo modo,
Xi assesta un colpo duro alla fazione del partito meno propensa ad aperture
verso la società, e più gelosa della sua primazia e delle sue attribuzioni in
termini di potere e di direzione, non solo politico/economica, ma anche
culturale e ideologica, della società
civile. Per poter realizzare questa grande riforma che colpisce privilegi e
posizioni di potere dell’élite burocratica del partito e dello Stato, Xi avrà
quindi bisogno di appoggiarsi sui ceti emergenti della società cinese, sui
nuovi ricchi, spesso giovani, culturalmente piuttosto occidentalizzati, che
sono emersi facendo carriera come manager delle imprese di Stato, oppure come
imprenditori/professionisti autonomi. In questo modo, la struttura sociale e di
potere del Paese si occidentalizzerà progressivamente, abbandonando il
tradizionale mandarinismo, proprio già dell’Impero cinese, e tramandatosi
tramite la burocrazia di partito dopo la Rivoluzione, e che è addirittura il
frutto della dottrina confuciana dello Stato. Ciò richiederà dunque un enorme
cambiamento di passo, anche dal punto di vista culturale, e del modo con cui il
cittadini cinese si rapporta con lo Stato, e non potrà che passare per una
progressiva democratizzazione politica, parallela ad una riduzione del peso del
paternalismo nella gestione dei rapporti fra partito-Stato e cittadino, ed una
maggiore trasparenza dell’amministrazione dello Stato. In che misura tale
rivoluzione prospettata da Xi sarà realizzata, non è dato saperlo. Non ci sono
solo le resistenze degli apparatchik di partito ad ostacolare tale processo. Ma
anche la cultura della popolazione, specie di quella che non è stata coinvolta
nei grandi processi di trasformazione economica e sociale del Paese (in
particolare la popolazione rurale) propende per un rapporto di subordinazione
rispetto agli apparati funzionariali, subordinazione che viene scambiata con
piccole concessioni di tipo assistenzialistico o paternalistico. Ma certo, se
tale riforma andrà avanti, inciderà sulla natura di capitalismo di Stato della
Cina, orientandola su assetti più simili a quelli del capitalismo occidentale,
e sarà funzionale ad una maggiore presenza di investimenti esteri nel Paese, e,
cosa non da escludere, a possibili futuri processi di privatizzazione
dell’enorme patrimonio produttivo in mano allo Stato.
In politica estera, infine, non
c’è da aspettarsi grandi cambiamenti. Xi ha un passato da militare, e la
questione tibetana, sulla quale la leadership cinese si esercita da anni a
mostrare una presunta normalità e accettazione della presenza cinese da parte
della popolazione, non dovrebbe modificarsi. Così come non dovrebbe modificarsi
il quadro delle alleanze internazionali (Xi e Putin si sono già sentiti
telefonicamente, ribadendo il comune sentire fra Russia e Cina sulle principali
questioni internazionali) né l’imperialismo “soft”, rispettoso e friendly che
la Cina sta usando in Africa, per allargare la sua sfera di influenza su aree
produttrici di materie prime fondamentali per la sua industria (sempre nel
2009, lo stesso Xi ha tenuto a precisare che la Cina “non esporta fame e
povertà”, evidentemente marcando la differenza fra l’approccio amichevole e
cooperativo tipico della Cina e l’imperialismo aggressivo e predatorio condotto
dall’Occidente).
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