a cura di Stefano Macera
Il 2 marzo scorso,
nello Spazio Sociale 100celle aperte di Roma, si è tenuto un
incontro sulla Comune di Urupia, nel Salento, interno ad un percorso
di discussione intitolato “Autogestioni”.
Una iniziativa
decisamente in controtendenza, in un momento in cui il dibattito a
sinistra era inevitabilmente dominato dagli scenari post-elettorali.
Ne abbiamo parlato con uno degli organizzatori, Francesco, che ci ha
proposto un punto di vista personale, ma comunque indicativo di
alcune linee di un dibattito collettivo.
Ci piacerebbe,
intanto, che tu descrivessi l’articolazione e gli obiettivi
dell’iniziativa
In realtà il ciclo
d’incontri sulle autogestioni non è stato strutturato con una
formula chiusa e precostituita. L’unica cosa stabilita è il
suo scopo, che è quello di dare spazio e voce alle forme di
autorganizzazione ed autogestione che si producono nei vari settori
della vita sociale. Senza muovere da una scala d’importanza perché
per noi qualsiasi esperienza di autonomia gestionale che coinvolga un
singolo aspetto o l’intera esistenza di un gruppo di individui può
risultare significativo nella misura in cui rappresenta la
sperimentazione di un altro modello di organizzazione sociale.
Obiettivo dell’iniziativa è anche quello di mettere in
risalto, attraverso la conoscenza di esperienze attuali e il
dibattito intorno ai problemi reali che queste vivono, quanto e come
la pratica autogestionaria ha la capacità di diffondersi nella
società e se questa auspicata (almeno per noi) sua diffusione possa
contribuire ad un cambiamento radicale della società, tale da
investirne le basi materiali.
Quindi l’unica cosa
decisa è che l’iniziativa si tradurrà in un ciclo d’incontri in
cui cercheremo di toccare i vari settori del sociale in cui sono
sorte forme di autogestione. Abbiamo cominciato, nella serata
inaugurale, con un’esperienza integrale di autogestione,
invitando le Comunarde della comune libertaria Urupia a descrivere la
loro storia passata e presente. Con loro abbiamo dibattuto non tanto
di massimi sistemi ma piuttosto dei problemi concreti e quotidiani
che incontrano nel portare avanti la loro esistenza di individui e di
collettività, nonché dei loro rapporti interni e di quelli con il
mondo esterno. Non abbiamo ancora deciso il prossimo incontro
ma i temi che toccheremo di sicuro saranno quelli del lavoro,
dell’abitare, della gratificazione culturale ed artistica e via via
accoglieremo anche i suggerimenti di coloro che faranno con noi
questo percorso.
Oggi, la prospettiva
dell'autogestione sembrerebbe lontana anni luce dalla realtà
italiana. Il vincitore unico delle elezioni politiche, Beppe Grillo,
parla ad esempio di "cittadini che devono farsi Stato"...
Credo che oggi la
prospettiva di una società autogestita sia lontana anni luce non
solo dalla realtà italiana ma anche da quella della maggior parte
delle nazioni; dalla realtà dell’intero pianeta oserei dire.
Questo però non mi porta a concludere che sia irrealizzabile; lo è
certamente a breve termine, ma la storia dell’umanità, se pur
breve, ci fa vedere che i cambiamenti radicali della società, a
partire dalle sue basi materiali, non sono impossibili; i tempi di
sedimentazione a volte sono lunghi e possono durare anche centinaia
di anni. Il sistema capitalista ad esempio ci ha messo qualche secolo
prima di soppiantare quello medievale; la sostituzione non è
avvenuta repentinamente ma è iniziata con piccoli esempi sparsi che
diffondendosi sempre più e ingrandendosi sono entrati
inevitabilmente in conflitto con la struttura sociale e politica
medievale, fino allo scoppio delle varie rivoluzioni che ne hanno
determinato la sconfitta definitiva. Non è detto che questo debba
avvenire in maniera deterministica, non voglio dire che sia
sufficiente far conoscere e diffondere questa modalità diversa di
rapporti individuali e collettivi per portare spontaneamente al
superamento della società capitalista, voglio solo dire che
diffondere la conoscenza dell’autogestione, e farlo facendo
partendo dagli esempi pratici attuali, è la base di un processo di
sedimentazione. Perché spesso, frequentando i centri sociali o altre
aggregazioni sociali legate al variegato mondo dell’opposizione
sociale, diamo per scontato che questa pratica molto diversa dalle
altre sia conosciuta dal resto della società. D’altra parte penso
che attualmente, registrandosi una forte crisi delle più
tradizionali rappresentanze politiche e sociali del dissenso
anticapitalista, accompagnata da una crisi economica devastante, vi
sia un momento favorevole per un avanzamento di questa pratica. Gli
stessi segnali che arrivano dalla società lo fanno pensare; per
dire, il successo dei “grillini” a cui alludevi, a mio parere
racchiude in parte l’aspirazione ad una maggiore partecipazione
alla sfera decisionale da parte della popolazione, che però viene
rinchiusa in un recinto di delega istituzionale dallo stesso
Movimento 5 Stelle. Evidentemente però bisognerà fare anche questa
esperienza per rendersi conto dell’inutilità dell’utilizzo delle
istituzioni statali.
A parte i “grillini”
e la loro azione di recupero di certe istanze in una prospettiva
statalista, va detto che anche tra compagni non necessariamente
legati ad opzioni autoritarie, vi è un certo scetticismo
sull'autogestione. Si pensa che essa rimandi a piccole comunità o a
minuscole esperienze produttive che si pretendono "liberate",
per costruire le quali si rinuncerebbe alla conflittualità d'ogni
giorno contro il padronato e le sue politiche antipopolari e di
devastazione ambientale...
Beh, innanzitutto se
guardiamo alla storia, ci sono stati momenti, in determinate regioni,
dove l’autogestione della società da parte dei produttori non
voleva dire né piccole comunità e né tantomeno minuscole
esperienze produttive. Basti pensare alla Spagna del ’36 o alla
Maknovicina degli anni ’20, dove nella pratica autogestionaria
erano coinvolte intere comunità e grandi regioni agricole ed in
parte industriali, dove, pur se per un breve periodo,
l’organizzazione decentrata e libertaria del sistema produttivo e
politico, ha dimostrato di essere più efficace di ogni altro tipo di
organizzazione. Purtroppo quelle esperienze sono sorte in contesti di
guerra e alla fine sono state distrutte dall’autoritarismo delle
sovrastrutture del capitalismo privato e statale.
Qualcuno potrebbe
obiettare che si tratta di esempi lontani, legati a circostanze
irripetibili…
E io rispondo facendo
riferimento alla prima serata del ciclo, quando, dalle compagne di
Urupia abbiamo appreso che loro non hanno affatto la pretesa di
sentirsi “liberate”, ma che vivono quotidianamente le mille
contraddizioni interne generate dal complicato rapporto tra individuo
e collettività, e le mille contraddizioni esterne nei confronti di
un sistema autoritario e sfruttatore. Abbiamo appurato che si
considerano portatrici di una sperimentazione e che pensano che per
stravolgere la società non si può partire dai massimi sistemi ma
che bisogna iniziare a diffondere nel meccanismo generale dei
granelli di sabbia. Questo non significa per loro rinunciare alla
conflittualità d’ogni giorno, non sono una monade isolata dal
mondo ma interagiscono con le lotte all’esterno del loro “recinto”
come collettività.
Per quanto mi riguarda
penso che la diffusione sempre maggiore nella società di quelle
forme autogestionarie che molti compagni ritengono inutili se non
dannose, possa rappresentare invece una via in cui si possa
instradare il tentativo, da parte delle classi subalterne, di
soddisfare le proprie necessità materiali e intellettive. E che
questo tentativo, se diverrà più importante in senso di intensità
e espansione geografica, entrerà inevitabilmente in conflitto con
l’attuale modello di organizzazione sociale.
Dunque, pur ragionando
sul lungo periodo, sei ottimista. Il punto, però, è questo: come
accennavi la sinistra tradizionale, anche alternativa, che si propone
di “rappresentare” le istanze più genuine del sociale, pare
giunta al capolinea. Però c’è un evidente e, si direbbe, grave
ritardo nella diffusione di ipotesi alternative come quelle su cui
state ragionando voi. Quali ne sono, a tuo avviso, i motivi?
Il fatto è che bisogna
scrollarsi di dosso quella patina culturale, creata ad hoc dalla
propaganda dei vari regimi autoritari che si sono succeduti e, a dire
il vero, rafforzata dal comportamento di alcuni libertari, per cui
parlare di autogestione vuol dire palesare mancanza di senso pratico
e di organizzazione.
Si tratta, in sostanza,
far capire che le forme di autogestione che si manifestano nella
società attuale sono invece molto pratiche, anzi, molto pragmatiche
e che spesso, di fronte a problemi che il capitalismo non riesce più
a risolvere neanche dal suo punto di vista, rappresentano “l’ultima
spiaggia”: si pensi, in tal senso, ai lavoratori greci che
autogestiscono le fabbriche abbandonate dai padroni.
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