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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 3 settembre 2013

Appunti sulla natura sociale dell'Urss, di Riccardo Achilli



Riccardo Achilli

Il punto di vista trotzkista

E' davvero difficile dire qualcosa di nuovo circa la natura sociale dell'Urss, stante il livello di approfondimento cui il tema è stato sottoposto, e discusso, per tanti anni. La tesi sul tavolo sono note. Per Trotsky, le deviazioni dell'Urss dal cammino rivoluzionario evidenziate sin dagli ultimi anni della guerra civile (in realtà sin dal 1918: “nelle regioni più o meno controllate dai bolscevichi, nell'estate del 1918 scoppiarono circa 140 rivolte e insurrezioni di ampia portata. Le più frequenti riguardavano comunità di villaggio che si opponevano alle requisizioni condotte con brutalità dalle squadre di vettovagliamento, alle limitazioni imposte al commercio privato, alle nuove campagne di reclutamento dell'Armata rossa. Folle di contadini inferociti convergevano sulla città più vicina, assediavano il soviet locale, a volte cercavano di incendiarlo. Quasi immancabilmente gli incidenti degeneravano: le truppe, le milizie incaricate di mantenere l'ordine e - sempre più spesso - i reparti cekisti non esitavano a sparare sui manifestanti1”) e divenute strutturali con l'avvento dello stalinismo, l'Urss era diventato uno “Stato operaio degenerato” dall'ipertrofica crescita della burocrazia di Stato.
Tale analisi non risale però a Trotsky, ma all'ultimo Lenin: già nel 1921, questi afferma infatti che “Ho dichiarato che il nostro Stato in realtà non è uno Stato operaio, è uno Stato operaio e contadino. Leggendo i verbali della discussione, ora mi accorgo di aver avuto torto, avrei dovuto dire: Lo Stato operaio è un'astrazione. In realtà noi abbiamo uno Stato operaio con le seguenti caratteristiche: sono i contadini e non i lavoratori a predominare nella popolazione, è uno Stato operaio con deformazioni burocratiche." Secondo tale impostazione, come è noto, un simile Stato ha un'economia pianificata burocraticamente, grazie alla nazionalizzazione di gran parte dei mezzi di produzione, espropriati alla borghesia, che quindi, in larga misura, cessa di esistere come “classe in sè”, caratterizzata cioè da un oggettivo posizionamento rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione ed al modo di produzione. Tale Stato, però, non socializzando i mezzi di produzione, non si dota della democrazia proletaria necessaria ad un sistema pienamente socialista. Di conseguenza si forma una burocrazia dirigente ed improduttiva, che sostituisce la vecchia borghesia nello sfruttamento dei lavoratori. Qual'è la natura di classe di questa burocrazia? Su questo aspetto, Trotzky ha lungamente esitato a chiamarla classe sociale. Nel suo libro “La Rivoluzione Tradita”, anche per difendere la natura essenzialmente operaia, anche se degenerata, dell'Urss, ritiene che la burocrazia sia una sorta di escrescenza patologica della classe operaia al potere dopo la Rivoluzione. Nello specifico, la denomina “strato”: “uno strato privilegiato e dirigente nel pieno senso di questa parola (...) non svolge alcuna attività produttiva ma dirige, comanda, gestisce, grazia e punisce”. Secondo Trotzky, non ha natura di classe perché: 1) è improduttiva e 2) non è proprietaria direttamente dei mezzi di produzione (quindi non può essere assimilata alla componente “rentière” della borghesia, ad esempio).

In questi termini, dunque, per Trotzky, questo “strato” di polvere degenerativa che si è posato su uno Stato ancora sostanzialmente operaio, può essere rimosso con riforme politiche, per quanto incisive, senza bisogno di una nuova rivoluzione. Come è noto, l'avvento pieno dello stalinismo, istituzionalizzerà il controllo burocratico dello Stato. Ma il problema è a monte dell'avvento dello stalinismo. In termini marxisti, la “classe” si definisce in base alla posizione economica ed alla organizzazione politica. Citando Marx, “nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi, e la loro cultura da quella di altre classi e li contrappongono ad essi in modo ostile essi formano una classe (...) se esistono soltanto legami locali, e l'identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. Sono quindi incapaci di far valere i loro interessi nel loro proprio nome”2.
Ora, la burocrazia sovietica, distinguendo il suo modo di vita, i suoi interessi e la sua cultura da quella dei lavoratori che dirige, ed essendo organizzata politicamente dentro le strutture direttive del partito ed associata dal senso di rappresentare una élite e dal senso della missione storica cui è chiamata a rispondere dentro lo sviluppo dell'economia e della società sovietica, è di fatto, in termini marxiani, una vera e propria classe sociale, che sostituisce la vecchia borghesia nello sfruttamento della forza-lavoro! E peraltro costituisce una classe sociale anche nella prospettiva storico-dialettica, nella misura in cui la sua presenza durante tutta la storia dell'Urssa ha contribuito a far evolvere le forze produttive di quel Paese in direzione di un capitalismo maturo. Come peraltro afferma Trotzky: “Il passaggio delle fabbriche allo Stato non ha cambiato che la condizione giuridica dell’operaio; di fatto egli vive nell’indigenza, pur lavorando un certo numero di ore per un determinato salario. Le speranze che il lavoratore riponeva prima sul partito e sui sindacati, le ha trasferite dopo la rivoluzione sullo Stato che ha creato. Ma il lavoro utile di questo Stato si è trovato limitato dall’insufficienza della tecnica e della cultura. Per migliorare l’una e l’altra, il nuovo Stato ha fatto ricorso ai vecchi metodi all’usura dei muscoli e dei nervi dei lavoratori. Si è costituito tutto un corpo di pungolatori. La gestione dell’industria è diventata estremamente burocratica. Gli operai hanno perduto tutta la loro influenza sulla direzione delle fabbriche. Lavorando a cottimo, vivendo in un profondo disagio, privato della libertà di spostarsi, subendo nella stessa fabbrica un regime poliziesco terribile, l’operaio potrebbe difficilmente sentirsi un “libero lavoratore”. Il funzionario è per lui il capo, lo Stato un padrone. Il lavoro libero è incompatibile con l’esistenza dello Stato burocratico”. Di fatto, in nuce, c'è già la concezione, non ancora pienamente espressa, dell'Urss come “capitalismo di Stato”. Dice infatti lo stesso Trotzky nella medesima opera: “Mutatis mutandis il regime sovietico si è posto in rapporto all’economia nel suo insieme nella posizione del capitalista in rapporto ad un’azienda isolata”.
Il trotzkismo post-Trotzky avanzerà infatti in modo notevole in direzione di tale concezione. A partire dalla creazione degli Stati-satellite nell'Europa orientale, infatti, si passerà dallo Stato operaio degenerato allo Stato operaio deformato, segnalando lo schiacciamento delle forme e delle istituzioni di democrazia socialista dal basso operato dalla burocrazia stalinista, svuotate di significato e meramente formali. Da lì a poco, alcuni trotzkisti come Tony Cliff, iniziano a parlare di “capitalismo di Stato” in forma propria.

L'opinione di Bruno Rizzi

Un ex trotzkista in rotta di collisione con Trotzky, Bruno Rizzi, elabora ulteriormente l'idea di burocrazia come nuova classe sociale sfruttatrice, tramite la sua ben nota categoria della “proprietà di classe”, esercitata collettivamente dai tecnocrati e dai burocrati. Sostiene Rizzi che “l'U.R.S.S. rappresenta un nuovo tipo di società diretta da una nuova classe. La proprietà è collettivizzata ed appartiene a questa classe che ha organizzato un nuovo sistema di produzione. Lo sfruttamento passa dal dominio del singolo a quello della classe (...) Sono coloro che dirigono l'economia così com'era normale tra i borghesi. Sono coloro che si appropriano dei profitti come è regolare presso tutte le classi sfruttatrici. Sono coloro che fissano i salari ed i prezzi di vendita delle merci (...) nella società sovietica gli sfruttatori non si appropriano direttamente del plus-valore come fa il capitalista incassando i dividendi della sua azienda, ma in modo indiretto, attraverso lo Stato, che incamera tutto il plus-valore nazionale e poi lo ripartisce ai suoi stessi funzionari. Buona parte della burocrazia, tecnici, direttori, specialisti, stakanovisti, ecc. vengono in certo qual modo autorizzati a prelevare direttamente nell'azienda che controllano i loro pepati emolumenti e godono poi, anch'essi come tutti i burocrati, dei servizi statali pagati col plus-valore e che nell'U.R.S.S. in onore alle forme di vita socialista sono importanti e numerosi (...). Vediamo dunque che lo sfruttamento dalla sua forma individuale si trasforma in forma collettiva corrispondente alla trasformazione della proprietà. Si tratta di una classe in blocco che ne sfrutta un'altra3.
In questo senso, dunque, ovvero nell'interpretazione di Rizzi, l'Urss non è un capitalismo di Stato, ma proprio un nuovo modo di produzione, diverso sia dal capitalismo che dal socialismo, che può essere definito “collettivismo burocratico”, e che, nelle forme di subordinazione dei proletari allo Stato (che, in modo a mio avviso un po' forzato, vengono assimilati da Rizzi a “servi di Stato”) assume connotati per certi versi non dissimili dal modo di produzione feudale. Infatti, sostiene Rizzi, “il lavoratore sovietico è più avulso dalla gestione dell'azienda in cui lavora che non il proletariato occidentale. Non contratta mai col suo datore di lavoro; norme e paghe sono imposte; il lavoro è reso obbligatorio dove vuole lo Stato, è proibito lo sciopero. Invece d'emancipare il Lavoro, lo si è asservito allo Stato”.

L'interpretazione bordighista

Il filone bordighista, anche sotto l'influsso della necessità politica di contrastare lo stalinismo e le sue forme togliattiane in Italia, come è noto, sviluppò la tesi dell'”Industrialismo di Stato”, in contrapposizione anche a quella del “capitalismo di Stato” (sostenuto da Onorato Damen, e tale argomento sarà fra i più importanti nello spiegare la frattura della sinistra comunista). Dice infatti Bordiga che il termine “capitalismo di Stato” di per sé non spiega niente. Bordiga parte dalle condizioni semi-capitalistiche in cui opera ancora gran parte dell'agricoltura sovietica all'interno dei kolchoz (peraltro ampiamente sopravvalutati dagli stessi bordighisti, se si considera che i kolchoz, nel 1970, non rappresentavano più del 48% della superficie coltivata) e dalla constatazione teorica che il capitalismo, soprattutto nella sua attuale evoluzione oligopolistica e finanziarizzata, non è una società governata da un soggetto, o da un gruppetto di soggetti ben determinati ed identificabili, ma un grande meccanismo anonimo e impersonale, dentro il quale si opera una scissione fra i capitalisti/proprietari, sempre più rentiers, ed un gruppo di manager/burocrati, che gestiscono e dirigono i mezzi di produzione (per cui se ne deduce che il collettivismo burocratico non è una specificità dell'Urss, ma in certe forme avviene anche all'interno dei sistemi capitalistici).
Per sostenere la tesi dell'Urss come realtà ancora capitalistica, ma dove però il ruolo direttivo dello Stato si restringe al settore industriale (atteso che, come detto, si sopravvaluta la natura cooperativa/mercatistica e semi-privatistica dell'agricoltura kolchoziana) e dove quindi è meglio parlare di “Industrialismo di Stato”, la parte più convincente dell'analisi di Bordiga è quella che si contrappone con vigore alla dottrina stalinista, e che si rinviene nel “Dialogato con Stalin”. Egli infatti smonta gli ingenui ed ingannatòri assiomi di Stalin, secondo cui, ad esempio, “la produzione capitalistica incomincia là, dove i mezzi di produzione sono concentrati in mani private e gli operai, privi di mezzi di produzione, sono costretti a vendere la loro forza lavoro come una merce. Senza di ciò non vi è produzione capitalistica”4. Tale tesi di Stalin non è ovviamente di per sé vera; il capitalismo di stato è infatti un capitalismo in cui i mezzi di produzione sono in mano allo Stato e non ai privati, e dove gli operai continuano a vendere la loro forza-lavoro come merce. Ma Bordiga smaschera anche l'assurda affermazione di Stalin secondo cui è possibile avere una società socialista che conserva le stesse forme di produzione del valore di quelle capitalistiche. Dice infatti il Baffone che “esiste e ha vigore da noi, nel nostro regime socialista, la legge del valore? Sì, esiste e ha vigore. Là dove esistono merci e produzione mercantile, non può non esistere anche la legge del valore. Il campo d'azione della legge del valore si estende da noi innanzitutto alla circolazione delle merci, allo scambio delle merci attraverso la compra-vendita, principalmente allo scambio delle merci di consumo individuale. Qui, in questo campo, la legge del valore conserva, naturalmente entro certi limiti, una funzione regolatrice.Ma l'efficacia della legge del valore non si limita al campo della circolazione delle merci. Essa si estende anche alla produzione (...) Qui appunto si rivela l'influenza della legge del valore sulla produzione. In relazione a ciò, nelle nostre aziende hanno un'importanza attuale questioni come quella del rendimento commerciale e della gestione redditizia, del costo di produzione, dei prezzi, ecc. (...) insegna ai nostri dirigenti dell'industria a migliorare sistematicamente i metodi della produzione, a diminuire il costo di produzione, ad attuare un rendimento commerciale e a ottenere che le aziende siano in attivo”. Di fronte a simili affermazioni, la critica di Bordiga è tanto elementare quanto fulminante: non si può superare il modo di produzione capitalistico conservandone le categorie economiche.
Ma se Bordiga è geniale nel rinvenire ed evidenziare la natura protocapitalistica della pianificazione economica sovietica, non altrettanto geniale è, a mio avviso, il confuso ragionamento di contorno, con il quale cerca di suffragare la tesi di un “capitalismo di Stato incompleto”, limitato cioè al comparto industriale pianificato. Nel 1946 afferma che “la classe che sfrutta il proletariato russo - e che forse in un avvenire poco lontano potrà apparire in piena luce anche all'interno del paese - è costituita attualmente da due forme storiche evidenti: il capitalismo internazionale e questa stessa oligarchia che domina all'interno e sulla quale si appoggiano contadini, mercanti, speculatori arricchiti e intellettuali pronti a cercare i favori del più forte”. Il filo conduttore del ragionamento bordighiano è che l'oligarchia burocratica dell'Urss sarebbe, ovviamente contro ogni evidenza geo-politica, venduta agli interessi del capitalismo internazionale. Nel 1951, il Nostro si spinge ad affermare che nello Stato russo, "in cui il proletariato non ha più il potere, lo ha in sua vece ormai una ibrida coalizione e fluida associazione tra interessi interni di classi piccolo-borghesi, medio borghesi, intraprenditrici dissimulate, e quelli capitalistici internazionali". Una analisi che, forse, vuole far risorgere una piccola borghesia e una imprenditoria dissimulata, oltre i residui ancora presenti nelle forme semi-privatistiche dell'agricoltura dei Kolchoz o dell'economia cooperativa, nell'economia parallela e nera che caratterizzava l'Urss, non di rado gestita da organizzazioni mafiose, o spesso da semplici cittadini che si scambiavano merci introvabili sul mercato “ufficiale”, o forse nel ceto dei dirigenti d'azienda di Stato, in realtà semplici funzionari dello Stato-imprenditore, privati delle funzioni “tipiche” di un imprenditore: scegliere il mix fra lavoro e capitale, gestire gli acquisti delle materie prime al costo più conveniente, decidere di contrarre un prestito, fissare quantità e prezzi del prodotto finale e decidere su quali mercati di sbocco agire (tutti questi elementi erano infatti stabiliti dalla pianificazione centrale). Ancora più incomprensibilmente, Bordiga fa coincidere gli interessi di questa fantasiosa “fluida associazione” con quelli del capitalismo internazionale (che infatti, non appena ha potuto, ha spinto i dirigenti dell'Urss verso quella perestrojka che avrebbe portato rapidamente al crollo del Muro di Berlino, al crollo della stessa Urss e della maggior parte della sua “fluida associazione” che la dirigeva, nonché alla quasi completa liberalizzazione e privatizzazione dell'economia dei Paesi dell'Europa dell'Est).
Lo stesso Bordiga farà poi alcune precisazioni: nel 1953 parlerà infatti di “assenza attuale di una classe borghese statisticamente definibile”; però nel 1960 tornerà a parlare di una piccola borghesia che governa l'Urss sotto il giogo del capitalismo mondiale. Naturalmente chi non la pensa come lui, come Battaglia Comunista, è “un pezzo di fesso”. Ma nell'insieme, il concetto di “industrialismo di Stato”, nella impostazione teorica di Bordiga, accenna ad una natura tendenzialmente capitalistica dell'Urss, cioè ad un impianto capitalistico ancora non completo sui residui feudali provenienti dalla Russia pre-sovietica, che fa sì che il “capitalismo in divenire” sovietico “non è la stessa cosa di quello di ogni altro paese". Perchè (da Programma, n. 3, 1953) in Russia siamo nella "fase in cui il capitalismo sviluppa le forze produttive e ne spinge l'applicazione oltre antichi limiti geografici, formando la trama della rivoluzione mondiale socialista". Saremmo perciò stati ancora in presenza di una Russia nello "stadio della transizione al capitalismo. Stadio quasi rispettabile e non suicida". Un capitalismo "socialmente ancora da sviluppare", per cui ancora non si sarebbe manifestata una “borghesia statisticamente definibile”, sostituita dalla “fluida associazione” che, quindi, contrariamente a qualsiasi analisi storica del capitalismo mondiale, ed a qualsiasi analisi geo-politica onesta, avrebbe dovuto costituire la levatrice della borghesia sovietica, sotto l'egida degli interessi capitalistici mondiali. La confusione è così grande che Damen finisce per chiedersi come mai si neghi che “la strapotenza dello Stato sovietico non abbia risolto in concreto il problema di una sua classe dirigente omogenea e forte per la coscienza che ha del proprio essere di classe e della funzione storica che è chiamata a compiere?”

Un modo di produzione sui generis, con alcuni elementi ibridi di capitalismo ma non un capitalismo di Stato

Dove è la verità, fra tante letture alternative? Qual era la realtà sociale, di classe e di modo di produzione dell'Urss pre-perestrojka? La verità, come spesso avviene (e come spesso i marxisti tendono a negare con orrore) sta nel mezzo delle varie teorie. Non è sbagliato identificare, come fanno i trotzkisti come Tony Cliff, o i marxisti consiliari come Paul Mattick, o anche marxisti di altra tendenza come Cervetto o Damen, un modo di produzione sostanzialmente connotato da elementi indiscutibili di capitalismo e, dunque, di capitalismo di Stato. La proprietà nazionale dei mezzi di produzione, senza socializzazione degli stessi, non porta fuori dal capitalismo, ma semplicemente sostituisce una classe sociale, la borghesia, con il ruolo imprenditoriale assunto direttamento dallo Stato, tramite la pianificazione.
E' infatti indiscutibile che lo Stato-imprenditore estrae plusvalore dalla forza-lavoro salariata, replicando meccanismi di sfruttamento tipicamente capitalistici, in base ad obiettivi di valorizzazione del capitale che vengono stabiliti dal pianificatore, anziché dal gioco concorrenziale del libero mercato. Ed i meccanismi di valorizzazione del capitale sono esattamente gli stessi che agiscono in qualsiasi sistema capitalistico, con la differenza che l'obiettivo di tasso di profitto, e quindi di tasso di plusvalore (ricordando che, denominando Pv il plusvalore totale, V il capitale variabile, C quello costante, ed r il tasso di profitto, vale sempre la relazione r = Pv/v / (1 + C/V), dove Pv/V è il tasso di plusvalore) viene stabilito a monte, e non dal gioco della concorrenza, ad un livello che serve per riprodurre il capitale totale e generare le risorse di investimento tali da raggiungere gli obiettivi di accumulazione di nuovo capitale costante. E solo di rado, ed in periodi particolari della storia dell'Urss (e non certamente durante l'epopea dell'industrializzazione di massa staliniana) ad un livello che consenta di aumentare i beni di consumo a disposizione della popolazione, cioè dei lavoratori. In determinate epoche, tale processo di accumulazione ha raggiunto livelli così alti di estrazione di plusvalore relativo, da generare vere e proprie rivolte di lavoratori, duramente represse, come la rivolta degli operai edili di Berlino del 1953, posti di fronte ad obiettivi di produzione aumentati del 20% senza aumento salariale. Il mito dello stakhanovismo diventa così l'equivalente sovietico della sindrome da superlavoro occidentale, mentre nell'insieme, nel periodo 1950-65, ad un incremento dei salari reali dell'85% è corrisposto un aumento della produttività del 175%.
In effetti, una economia “chiusa” a monte dalla determinazione prefissata dei costi delle materie prime e dei salari, ed a valle dalla fissazione delle quantità di prodotto e dei prezzi, il cui tasso di profitto è quindi interamente determinato ex-ante (a quote che, nella storia sovietica, hanno oscillato fra l'8% ed il 16%, con punte del 20% in periodi di crisi particolare, quindi con tassi di profitto piuttosto elevati) ed in cui lo sfruttamento estensivo delle risorse ha già raggiunto livelli molto alti, tali da configurare situazioni di piena occupazione, tipiche della crescita estensiva dell'economia sovietica da Stalin in poi, ad un certo punto può massimizzare la valorizzazione del capitale soltanto aumentando a dismisura la produttività del lavoro. Infatti, è proprio l'insufficiente aumento della produttività del lavoro ad avere causato la grave crisi strutturale dell'economia sovietica, che comprimerà investimenti ed accumulazione negli anni precedenti alla perestrojka, immaginata proprio come possibile “risposta” a tale crisi: basti pensare che fra 1971 e 1983 la produttività decresce costantemente, ottenendo come risultato un tasso di investimenti che passa dall'11% medio del periodo 1956-1960 al misero 3,4% del 1976-1980, fino al 2% del 1981-85. Il declino del tasso di investimento accelera l'obsolescenza tecnologica degli impianti, con il risultato che l'efficienza produttiva dello stock di capitale fisso decresce continuamente. Come ricorda Aganbegjan, “in ogni quinquennio, a decorrere dal 1970 e fino al 1985, si registrava una contrazione della resa dei capitali fissi del 15%, ossia di circa il 3% all'anno”. Esattamente come avviene in un sistema capitalistico in crisi, la caduta di resa e redditività del capitale, ed il rallentamento dell'accumulazione dovuto al calo della produttività e degli investimenti vengono scaricati sui lavoratori. Ancora Aganbegjan ricorda che nel periodo 1979-1982 “gli investimenti destinati allo sviluppo della sfera sociale cominciarono ad avvenire secondo il principio residuale e diminuì notevolmente, nell'ambito del reddito nazionale e del bilancio statale, l'aliquota dell'istruzione e della sanità”. Il risorgente imperialismo sovietico in Afghanistan nel 1979 può essere anche letto come tentativo di rianimare l'accumulazione di capitale tramite l'industria bellica, ed anche in questo caso si tratta di qualcosa di molto capitalistico, ovvero l'attivazione di un meccanismo di accumulazione imperialistico/militare.
La base capitalistica del modo di produzione è talmente evidente che le stesse categorie analitiche tipiche dell'economia liberale continuano a valere: è il caso della teoria del valore illustrata, in termini sostanzialmente capitalistici, da Stalin, di cui si è parlato in precedenza, per cui alle imprese nazionalizzate vengono assegnati non solo obiettivi di produzione ed occupazione, quindi aventi implicazioni sociali, ma anche obiettivi di “attivo” finanziario, come Stalin stesso dichiara, che si esprimono in termini del tutto capitalistici, come rapporto fra prezzo unitario del prodotto al netto del suo costo (che se espresso in termini di valore-lavoro diventa plusvalore) e capitale totale investito, costante e variabile. L'utilizzo di strumenti tipici dell'economia capitalista venne poi esaltato dalla riforma-Kosygin, in piena era-Breznev, in cui si esaltarono forme simil-occidentali di incentivi ai dirigenti d'impresa, di autonomia gestionale delle imprese, di redditività dei prodotti.
C'è però un grande “ma”, che impedisce di classificare l'Urss come semplice e banale capitalismo di Stato tout court. Mancano infatti quattro ingredienti tipici del capitalismo, di Stato o non di Stato:
a) l'obiettivo di massimizzazione del profitto;
b) l'assenza, o la scarsa entità, dei meccanismi redistributivi della massa di profitto realizzata;
c) l'assenza del meccanismo dei prezzi come segnale per orientare le scelte allocative dei fattori e distributive;
d) l'inevitabile tendenza alla finanziarizzazione del capitale e del profitto, come fase necessaria, per così dire fisiologica, di evoluzione di un sistema capitalistico maturo.
Iniziando dal primo punto, l'obiettivo di massimizzazione del profitto è irrealizzabile, in parte nella misura in cui il tasso di profitto viene stabilito ex-ante, anche se in funzione di obiettivi di accumulazione di nuovo capitale, per lunghe fasi prioritariamente costante e solo secondariamente variabile. La fissazione “amministrativa” del saggio di profitto rende più difficile il raggiungimento di livelli superiori tramite una maggiore estrazione di plusvalore rispetto a quanto stabilito in sede di pianificazione, o condizioni di mercato particolarmente favorevoli. A ciò si aggiunge il tipico disincentivo del direttore d'azienda pianificata, che non ha alcun interesse ad aumentare i livelli di produttività e di produzione oltre gli obiettivi stabiliti dal piano per la sua azienda, anche se ciò fosse tecnicamente possibile, perché rischierebbe di vedersi assegnati, nella successiva tornata pianificatoria, obiettivi più alti, più difficili da raggiungere, quindi più rischiosi per la sua carriera. E si aggiunge, per terminare, anche la tipica inefficienza distributiva dei processi pianificatori centralizzati, per cui, non esistendo un sistema di prezzi liberi che, come avviene in mercati concorrenziali, segnali, in vari punti del mercato, situazioni di eccesso di domanda o di offerta, non esiste alcun indicatore in tempo reale che consenta di distribuire le merci prodotte in modo ottimale, in funzione cioè della distribuzione reale ed attuale della loro domanda. Ciò comporta tipici fenomeni di scarsità di merci laddove esisterebbe la domanda (contribuendo ad alimentare le code davanti ai negozi, che peraltro sono essenzialmente il frutto della già rammentata priorità di lungo termine per il settore dei beni capitali rispetto a quello dei beni di consumo) innescando perdite di profitto potenziale. Tra l'altro, il diffusio malcostume di falsificare i dati produttivi verso il basso da parte delle imprese di Stato rende anche gli obiettivi pianificatori, ivi compresi quelli riferiti al tasso di profitto, sottostimati rispetto alla realtà.
Quanto al secondo punto, mentre nel capitalismo puro, tipicamente, il profitto viene interamente destinato agli investimenti in nuovo capitale ed al consumo della classe dominante, nel sistema sovietico, “dal profitto lordo ottenuto, sia che provenga da investimenti completamente statali, che dal reinvestimento degli utili ricavati dal processo produttivo precedente, l'impresa tiene per sé solo il 20%, tutto il resto è dello Stato sotto forma di oneri fiscali (imposte), oneri sul capitale fisso e su quello variabile (salari). All'interno di questo 20% si deve trovare lo spazio per i finanziamenti per lo sviluppo dell'impresa quali l'allargamento della base produttiva e l'aumento degli stock, gli incentivi materiali sui quali costruire un più efficace sfruttamento della forza lavoro e che, comunque, non devono superare il 5%, un fondo culturale e un fondo per l'edilizia5.
Quindi, già la quota di profitto trattenuta dall'impresa deve contribuire, sia pur in piccola parte, per gli incentivi ai lavoratori e per i fondi culturali e per l'edilizia a loro destinati. Si potrebbe obiettare che, anche in sistemi capitalistici dove sono presenti forme di cogestione aziendale, una parte del profitto viene destinata, volontariamente o meno, a “finalità sociali”. Però, nell'Urss, la quota dell'80% del profitto che va allo Stato viene utilizzato, è vero, per alimentare la classe dominante dei burocrati di partito e di Stato, sotto forma di salari pingui, beni stranieri di lusso occidentali importati e venduti in negozi riservati ai soli oligarchi, dacie di Stato in campagna generosamente assegnate ai dirigenti, appartamenti di lusso (ben diversi da quelli prefabbricati in cui vive il popolo) in quartieri spesso “esclusivi” (come il Blloku dell'Albania comunista, vero e proprio residence di lusso per oligarchi), prostitute di Stato generosamente tollerate, cliniche private.
Però è anche vero che praticamente tutti i costi sociali e primari sono gratuiti o semi gratuiti, dai beni alimentari di prima necessità pressoché regalati (quando si riesce a trovare qualcosa nei negozi semivuoti, beninteso) agli affitti su valori del tutto simbolici, alla sanità ed alla scuola completamente gratuite, ai trasporti pubblici semigratuiti, persino alle assicurazioni degli autoveicoli pagate dallo Stato. In nessuno Stato capitalista, anche nel più generoso, il livello di redistribuzione popolare dei profitti è così importante ed intenso come nell'Urss. Ciò ha fatto sì che, pur con un PNL pro capite pari ad appena il 78,3% della media italiana nel 1979, in quello stesso anno il cittadino sovietico medio mangiasse 57 kg. di carne all'anno, disponesse di uno spazio abitabile medio di 12,7 mq, il 78% delle famiglie avesse il frigorifero e l'82% la televisione (la fonte è il giornale britannico The Guardian). Si tratta di statistiche che mostrano un tenore di vita simile a quello degli italiani nel medesimo anno. Nel 1991, al suo crollo, l'Urss garantiva ai suoi cittadini una speranza di vita alla nascita pari a 65 anni per i maschi e 74 per le femmine, analoga a quella di un Paese di livello intermedio di sviluppo.
Un livello redistributivo di profitto così alto è assolutamente atipico nei Paesi capitalistici, e dipende proprio dalla intuizione di fondo di Bruno Rizzi, sopra analizzata, ovvero la presenza di un collettivismo burocratico, dove la proprietà dei mezzi di produzione è collettiva, ovvero dell'intera classe degli apparatschik, e non suddivisa, all'interno della classe, per singoli individui o famiglie, come avviene nel caso della borghesia capitalistica. L'anonimità della proprietà dei mezzi di produzione a favore di una classe indistinta, classe tenuta insieme dalla consapevolezza di dover dirigere un Paese almeno formalmente socialista, garantisce un utilizzo sociale del plusvalore assolutamente sconosciuto in qualsiasi Paese capitalista, e spiega perché, ancora oggi, fra i gruppi sociali più poveri dei Paesi ex socialisti (in particolare fra i pensionati a basso reddito, ma anche, in parte, fra i giovani che nel capitalismo non riescono ad inserirsi lavorativamente) aleggi una diffusa nostalgia per i precedenti governi socialisti. A Sofia, ho assistito di persona, nel 2008, a una fila di gente, non tutti anziani, che posava fiori sul monumento dedicato all'Armata Rossa, nel giorno in cui, ai tempi di Zivkov, si festeggiava la liberazione del Paese dal controllo nazista. Alcuni avevano le lacrime agli occhi.
Con riferimento al terzo punto, l'assenza di un sistema di prezzi liberamente oscillanti entro fasce in grado di segnalare la migliore allocazione dei fattori produttivi e degli investimenti fra i settori, e la migliore distribuzione dei prodotti finiti fra i vari punti del mercato, dovuta al completo controllo amministrativo degli stessi in fase di pianificazione, allontana la realtà economica dell'Urss da qualsiasi capitalismo, anche di Stato. Infatti, l'oscillazione libera dei prezzi è di fatto l'unico meccanismo autoregolatore di mercati concorrenziali, e la sua assenza è quindi impensabile in contesti non concorrenziali sotto il profilo capitalistico. Persino in un capitalismo di Stato, come ad esempio quello cinese, i prezzi sono in larga misura liberalizzati, altrimenti non si generano i giusti segnali per far funzionare il mercato e la concorrenza capitalistica fra imprese, e fra imprese e lavoratori (atteso che anche il salario è un prezzo) e per determinare le scelte dei consumatori fra una molteplicità di prodotti concorrenziali fra loro. Ciò peraltro significa anche che nel sistema economico sovietico non si generavano quelle pericolose bolle inflazionistiche, che nei sistemi capitalistici portano ad improvvise crisi ma anche a una continua crescita della speculazione alle spese dell'economia produttiva (nell'Urss, una bolla dei prezzi immobiliari inquietante, e potenzialmente distruttiva, come quella che si sta generando in Cina in questi ultimi mesi, sarebbe stata impensabile). Il che, ovviamente, non significa che non vi fossero forme di concorrenza, nell'Urss, fra imprese, fra queste ed i lavoratori, o fra lavoratori. Tali forme esistevano, ma in larga misura erano di tipo non capitalista, avevano a che vedere, ad esempio, con il posizionamento nella catena di comando e controllo gestita al suo vertice dal Gosplan e/o con la possibilità di fruire di avanzamenti di carriera o di prestigio legati al rispetto degli obiettivi di piano o al superamento degli obiettivi produttivi, mentre forme di concorrenza paracapitalistica si verificavano solo nel settore semi-privatistico dei kolchoz, oppure fra le imprese rese più autonome nell'attività contrattuale con fornitori e clienti dalla riforma Kosygin sopra ricordata.
Per finire, il quarto elemento di differenziazione dal capitalismo è l'assenza di un meccanismo significativo di finanziarizzazione dell'economia. Nel capitalismo, di Stato o di mercato, la finanziarizzazione crescente dell'accumulazione è uno sviluppo fisiologico, inevitabile, legato a numerosi fattori: la crescita e la crescente sofisticazione dei meccanismi di erogazioen del debito monetario necessario per avvire processi di sccumulazione, la caduta tendenziale del tasso di profitto, la tendenza crescente all'oligopolizzazione dell'economia, che genera rendite da oligopolisti destinabili al mercato finanziario. Sul legame fra sviluppo del capitalismo e finanziarizzazione dello stesso, cfr. anche http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/11/il-declino-tendenziale-del-saggio-di.html . “Mentre nel capitalismo occidentale, in questi ultimi venti anni, si è assistito a un enorme sviluppo e sofisticazione della finanza e dei suoi strumenti operativi, in Russia (Urss, nda), il mondo della finanza si è riproposto per decenni con gli stessi meccanismi e le stesse funzioni. Un po' per il percorso storico, un po' per la cecità della centralizzazione del capitale finanziario, un po' per la stessa rigidità del piano, L'Urss (Nda) si è ritrovato negli anni Ottanta con una struttura finanziaria simile a quella che aveva alla fine dell'ottocento sotto la gestione dei Romanov. In pratica una unica banca, la Gosbank, funge da istituto di emissione, da banca ordinaria e da banca commerciale. Esistono le Casse di risparmio, ma il loro ruolo è talmente irrilevante da poter essere considerato nullo. Le imprese non possono emettere obbligazioni né tantomeno azioni che comporterebbero una compartecipazione alla proprietà dell'impresa stessa. Manca la Borsa (...) Nei meccanismi del Piano la emissione di Titoli pubblici è prevista solo eccezionalmente e per importi complessivi risibili6”.
L'assenza di una significativa finanziarizzazione può essere vista come un problema soltanto laddove si consideri l'Urss un sistema capitalistico, sia pur di Stato, ma rimane il fatto che occorrerebbe spiegare come mai un presunto capitalismo di Stato non abbia sviluppato anche un forte settore finanziario, come ad es. la Cina. Dire che ciò non è avvenuto per il percorso storico, per la centralizzazione finanziaria o le rigidità della pianificazione non spiega niente, nella misura in cui un capitalismo con esigenze di sviluppo ed evoluzione, per esempio in direzione di una maggiore finanziarizzazione, è lesto nell'eliminare simili barriere storico/normative con opportune riforme. Se ciò non è avvenuto, o per meglio dire è iniziato soltanto con la perestrojka, ed ha portato in pochissimi anni alla disintegrazione dello Stato sovietico e della sua economia, l'unica spiegazione plausibile è che l'Urss non era un sistema capitalistico, per cui l'innesto di meccanismi finanziari tipicamente capitalisti fatto nell'era-Gorbaciov ne ha provocato l'esplosione ed il crollo.

Conclusioni

In conclusione, l'assenza di stimoli alla massimizzazione del profitto, l'amplissima utilizzazione sociale dello stesso, l'assenza del meccanismo dei prezzi, l'irrilevanza del settore finanziario, sono elementi di fondo, strutturali, che allontanano l'economia sovietica dalla possibile definizione di capitalismo di Stato. Non essendo nemmeno un sistema socialista, o tendente verosimilmente al socialismo, l'Urss, nella sua natura sociale, può definirsi soltanto, in linea con l'intuizione di Bruno Rizzi, un sistema “sui generis”, un modo di produzione a sé stante, che ha integrato, fra l'altro, anche forti elementi di capitalismo, tanto da poter essere definito “a base paracapitalistica”, ma che è stato anche caratterizzato da profonde differenze strutturali di funzionamento rispetto al sistema socio economico dominante, tanto da non poter essere inserito in una qualche categoria del capitalismo, di Stato o industrialistico.
E che quindi ha avuto anche una base sociale, oltre che economica, diversa, per certi versi, da quella capitalistica. Mentre il rapporto che il lavoro dipendente ha con i mezzi di produzione è infatti del tutto analogo al rapporto classico di sfruttamento e di alienazione capitalistico, va rilevata l'inesistenza di una borghesia statisticamente definibile (per usare i termini di Bordiga) e la presenza di una classe burocratica con forme di riproduzione peculiari, diverse da quelle della borghesia capitalistica (una classe definibile marxianamente, non un semplice “strato” rimuovibile di uno Stato ancora fondamentalmente operaio, come cercava di credere Trotzky). In parte improduttiva, perché dedicata a compiti politico/amministrativi ed organizzativi generali, non connessi cioè con la direzione e l'organizzazione della produzione, in parte proprietaria dei mezzi di produzione, ma in forma, oltre che collettiva e dunque anonima, anche indiretta (amministrandoli cioè non nel proprio nome, come fa la borghesia, ma nel nome dello Stato) tale classe è stata costretta a rinunciare all'obiettivo di massimizzare il saggio di profitto, come avrebbe fatto un capitalismo, anche di Stato, ed è stata anche costretta a socializzare una quota della ricchezza nazionale superiore alla media di un Paese capitalistico. Tutto ciò l'ha condotta ad utilizzare anche un'altra forma di riproduzione: quella derivante dall'economia sommersa. E' stat infatti indotta, come ogni burocrazia, a compensare i mancati introiti da massimizzazione e conservazione del profitto produttivo con redditi di tipo improduttivo, generati dalla corruzione, fenomeno che infatti permeava ogni struttura dello Stato e del partito. Il reddito da corruzione è infatti un introito improduttivo, che deriva da un particolare (ed illecito) utilizzo di reddito produttivo precedentemente prodotto, tipico di una classe sociale, come la burocrazia, che è solo parzialmente, collettivamente (anonimamente) ed indirettamente connessa con la gestione dei mezzi di produzione.
E' chiaro quindi, da quanto ho scritto, che la versione più vicina alla realtà circa la natura sociale dell'Urss è, a mio avviso, quella di Rizzi, che però ha il difetto (oltre che di credere ad una estensione mondiale del dominio di classe della burocrazia, che non è avvenuto) di esaltare in modo eccessivo il ruolo “servile” del lavoratore nei confronti dello Stato, evidentemente perché Rizzi aveva sotto gli occhi la fase più dura, ovvero quella stalinista. Dopo la morte di Stalin, il lavoratore sovietico, persino quello sottoposto alla dura disciplina di fabbrica ed al credo stakhanovista, non era né più né meno servo di quello occidentale. E certo la presenza o l'assenza di sindacati o di meccanismi di contrattazione del salario e del lavoro non rendono il lavoratore italiano del 2013 più felice, tutelato e sicuro di quello sovietico del 1970. Non c'è quindi niente di “feudale” nel rapporto di lavoro sovietico, come credeva Rizzi, ma semplicemente una forma di sfruttamento del lavoro diversa, attuata da un modo di produzione a sé stante, ibrido, in grado di incrociare caratteristiche di fondo del capitalismo ed elementi strutturali assolutamente non capitalistici. Così come, d'altra parte, la tesi bordighista della “fluida associazione” eterodiretta dal capitalismo globale non ha senso, almeno sino all'avvio della perestrojka gorbacioviana, dovuta però, in primo luogo, alla profonda crisi interna in cui era caduto il modo di produzione sovietico, quindi a motivi prima di tutti endogeni (anche se poi è chiaro che, scaturendo da problemi interni, il processo che dalla glasnost ha condotto alla fine dell'Urss è stato rapidamente preso in mano e quindi guidato da interessi capitalistici esterni e, in quel caso sì, da “fluide”, ed aggiungerei ambigue, associazioni di interessi coagulatesi attorno a Gorbaciov, ed in questo, almeno, si può accreditare Bordiga di capacità profetiche).

2Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte
3Bruno Rizzi, Il collettivismo burocratico. Imola, 1967, pag. 59 e segg.
4J. Stalin, “Problemi economici del socialismo nell'Urss”, 1952, in http://www.pmli.it/stalinproblemieconomicisocialismourss.htm
5http://www.leftcom.org/it/articles/1990-09-01/urss-dall-economia-di-piano-all-economia-di-mercato
6http://www.leftcom.org/it/articles/1990-09-01/urss-dall-economia-di-piano-all-economia-di-mercato

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