Riccardo Achilli
Il punto di vista
trotzkista
E'
davvero difficile dire qualcosa di nuovo circa la natura sociale
dell'Urss, stante il livello di approfondimento cui il tema è stato
sottoposto, e discusso, per tanti anni. La tesi sul tavolo sono note.
Per Trotsky, le deviazioni dell'Urss dal cammino rivoluzionario
evidenziate sin dagli ultimi anni della guerra civile (in realtà sin
dal 1918: “nelle
regioni più o meno controllate dai bolscevichi, nell'estate del 1918
scoppiarono circa 140 rivolte e insurrezioni di ampia portata. Le più
frequenti riguardavano comunità di villaggio che si opponevano alle
requisizioni condotte con brutalità dalle squadre di
vettovagliamento, alle limitazioni imposte al commercio privato, alle
nuove campagne di reclutamento dell'Armata rossa. Folle di contadini
inferociti convergevano sulla città più vicina, assediavano il
soviet locale, a volte cercavano di incendiarlo. Quasi
immancabilmente gli incidenti degeneravano: le truppe, le milizie
incaricate di mantenere l'ordine e - sempre più spesso - i reparti
cekisti non esitavano a sparare sui manifestanti1”)
e divenute strutturali con l'avvento dello stalinismo, l'Urss era
diventato uno “Stato operaio degenerato” dall'ipertrofica
crescita della burocrazia di Stato.
Tale
analisi non risale però a Trotsky, ma all'ultimo Lenin: già nel
1921, questi afferma infatti che “Ho
dichiarato che il nostro Stato in realtà non è uno Stato operaio, è
uno Stato operaio e contadino. Leggendo i verbali della discussione,
ora mi accorgo di aver avuto torto, avrei dovuto dire: Lo Stato
operaio è un'astrazione. In realtà noi abbiamo uno Stato operaio
con le seguenti caratteristiche: sono i contadini e non i lavoratori
a predominare nella popolazione, è uno Stato operaio con
deformazioni burocratiche."
Secondo tale impostazione, come è noto, un simile Stato ha
un'economia pianificata burocraticamente, grazie alla
nazionalizzazione di gran parte dei mezzi di produzione, espropriati
alla borghesia, che quindi, in larga misura, cessa di esistere come
“classe in sè”, caratterizzata cioè da un oggettivo
posizionamento rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione ed al
modo di produzione. Tale Stato, però, non socializzando i mezzi di
produzione, non si dota della democrazia proletaria necessaria ad un
sistema pienamente socialista. Di conseguenza si forma una burocrazia
dirigente ed improduttiva, che sostituisce la vecchia borghesia nello
sfruttamento dei lavoratori. Qual'è la natura di classe di questa
burocrazia? Su questo aspetto, Trotzky ha lungamente esitato a
chiamarla classe sociale. Nel suo libro “La Rivoluzione Tradita”,
anche per difendere la natura essenzialmente operaia, anche se
degenerata, dell'Urss, ritiene che la burocrazia sia una sorta di
escrescenza patologica della classe operaia al potere dopo la
Rivoluzione. Nello specifico, la denomina “strato”: “uno
strato privilegiato e dirigente nel pieno senso di questa parola
(...) non svolge alcuna attività produttiva ma dirige, comanda,
gestisce, grazia e punisce”.
Secondo Trotzky, non ha natura di classe perché: 1) è improduttiva
e 2) non è proprietaria direttamente dei mezzi di produzione (quindi
non può essere assimilata alla componente “rentière” della
borghesia, ad esempio).
In
questi termini, dunque, per Trotzky, questo “strato” di polvere
degenerativa che si è posato su uno Stato ancora sostanzialmente
operaio, può essere rimosso con riforme politiche, per quanto
incisive, senza bisogno di una nuova rivoluzione. Come è noto,
l'avvento pieno dello stalinismo, istituzionalizzerà il controllo
burocratico dello Stato. Ma il problema è a monte dell'avvento dello
stalinismo. In termini marxisti, la “classe” si definisce in base
alla posizione economica ed alla organizzazione politica. Citando
Marx, “nella
misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche
tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi, e la
loro cultura da quella di altre classi e li contrappongono ad essi in
modo ostile essi formano una classe (...) se esistono soltanto legami
locali, e l'identità dei loro interessi non crea tra di loro una
comunità, una unione politica su scala nazionale e una
organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. Sono
quindi incapaci di far valere i loro interessi nel loro proprio
nome”2.
Ora,
la burocrazia sovietica, distinguendo il suo modo di vita, i suoi
interessi e la sua cultura da quella dei lavoratori che dirige, ed
essendo organizzata politicamente dentro le strutture direttive del
partito ed associata dal senso di rappresentare una élite e dal
senso della missione storica cui è chiamata a rispondere dentro lo
sviluppo dell'economia e della società sovietica, è di fatto, in
termini marxiani, una vera e propria classe sociale, che sostituisce
la vecchia borghesia nello sfruttamento della forza-lavoro! E
peraltro costituisce una classe sociale anche nella prospettiva
storico-dialettica, nella misura in cui la sua presenza durante tutta
la storia dell'Urssa ha contribuito a far evolvere le forze
produttive di quel Paese in direzione di un capitalismo maturo. Come
peraltro afferma Trotzky: “Il
passaggio delle fabbriche allo Stato non ha cambiato che la
condizione giuridica dell’operaio; di fatto egli vive
nell’indigenza, pur lavorando un certo numero di ore per un
determinato salario. Le speranze che il lavoratore riponeva prima sul
partito e sui sindacati, le ha trasferite dopo la rivoluzione sullo
Stato che ha creato. Ma il lavoro utile di questo Stato si è trovato
limitato dall’insufficienza della tecnica e della cultura. Per
migliorare l’una e l’altra, il nuovo Stato ha fatto ricorso ai
vecchi metodi all’usura dei muscoli e dei nervi dei lavoratori. Si
è costituito tutto un corpo di pungolatori. La gestione
dell’industria è diventata estremamente burocratica. Gli operai
hanno perduto tutta la loro influenza sulla direzione delle
fabbriche. Lavorando a cottimo, vivendo in un profondo disagio,
privato della libertà di spostarsi, subendo nella stessa fabbrica un
regime poliziesco terribile, l’operaio potrebbe difficilmente
sentirsi un “libero lavoratore”. Il funzionario è per lui il
capo, lo Stato un padrone. Il lavoro libero è incompatibile con
l’esistenza dello Stato burocratico”.
Di fatto, in nuce, c'è già la concezione, non ancora pienamente
espressa, dell'Urss come “capitalismo di Stato”. Dice infatti lo
stesso Trotzky nella medesima opera: “Mutatis
mutandis il regime sovietico si è posto in rapporto all’economia
nel suo insieme nella posizione del capitalista in rapporto ad
un’azienda isolata”.
Il trotzkismo post-Trotzky avanzerà infatti in modo notevole in
direzione di tale concezione. A partire dalla creazione degli
Stati-satellite nell'Europa orientale, infatti, si passerà dallo
Stato operaio degenerato allo Stato operaio deformato, segnalando lo
schiacciamento delle forme e delle istituzioni di democrazia
socialista dal basso operato dalla burocrazia stalinista, svuotate di
significato e meramente formali. Da lì a poco, alcuni trotzkisti
come Tony Cliff, iniziano a parlare di “capitalismo di Stato” in
forma propria.
L'opinione
di Bruno Rizzi
Un
ex trotzkista in rotta di collisione con Trotzky, Bruno Rizzi,
elabora ulteriormente l'idea di burocrazia come nuova classe sociale
sfruttatrice, tramite la sua ben nota categoria della “proprietà
di classe”, esercitata collettivamente dai tecnocrati e dai
burocrati. Sostiene Rizzi che “l'U.R.S.S.
rappresenta un nuovo tipo di società diretta da una nuova classe. La
proprietà è collettivizzata ed appartiene a questa classe che ha
organizzato un nuovo sistema di produzione. Lo sfruttamento passa dal
dominio del singolo a quello della classe (...) Sono coloro che
dirigono l'economia così com'era normale tra i borghesi. Sono coloro
che si appropriano dei profitti come è regolare presso tutte le
classi sfruttatrici. Sono coloro che fissano i salari ed i prezzi di
vendita delle merci (...) nella società sovietica gli sfruttatori
non si appropriano direttamente del plus-valore come fa il
capitalista incassando i dividendi della sua azienda, ma in modo
indiretto, attraverso lo Stato, che incamera tutto il plus-valore
nazionale e poi lo ripartisce ai suoi stessi funzionari. Buona parte
della burocrazia, tecnici, direttori, specialisti, stakanovisti, ecc.
vengono in certo qual modo autorizzati a prelevare direttamente
nell'azienda che controllano i loro pepati emolumenti e godono poi,
anch'essi come tutti i burocrati, dei servizi statali pagati col
plus-valore e che nell'U.R.S.S. in onore alle forme di vita
socialista sono importanti e numerosi (...). Vediamo dunque che lo
sfruttamento dalla sua forma individuale si trasforma in forma
collettiva corrispondente alla trasformazione della proprietà. Si
tratta di una classe in blocco che ne sfrutta un'altra”3.
In
questo senso, dunque, ovvero nell'interpretazione di Rizzi, l'Urss
non è un capitalismo di Stato, ma proprio un nuovo modo di
produzione, diverso sia dal capitalismo che dal socialismo, che può
essere definito “collettivismo burocratico”, e che, nelle forme
di subordinazione dei proletari allo Stato (che, in modo a mio avviso
un po' forzato, vengono assimilati da Rizzi a “servi di Stato”)
assume connotati per certi versi non dissimili dal modo di produzione
feudale. Infatti, sostiene Rizzi, “il
lavoratore sovietico è più avulso dalla gestione dell'azienda in
cui lavora che non il proletariato occidentale. Non contratta mai col
suo datore di lavoro; norme e paghe sono imposte; il lavoro è reso
obbligatorio dove vuole lo Stato, è proibito lo sciopero. Invece
d'emancipare il Lavoro, lo si è asservito allo Stato”.
L'interpretazione
bordighista
Il
filone bordighista, anche sotto l'influsso della necessità politica
di contrastare lo stalinismo e le sue forme togliattiane in Italia,
come è noto, sviluppò la tesi dell'”Industrialismo di Stato”,
in contrapposizione anche a quella del “capitalismo di Stato”
(sostenuto da Onorato Damen, e tale argomento sarà fra i più
importanti nello spiegare la frattura della sinistra comunista). Dice
infatti Bordiga che il termine “capitalismo di Stato” di per sé
non spiega niente. Bordiga parte dalle condizioni semi-capitalistiche
in cui opera ancora gran parte dell'agricoltura sovietica all'interno
dei kolchoz (peraltro ampiamente sopravvalutati dagli stessi
bordighisti, se si considera che i kolchoz, nel 1970, non
rappresentavano più del 48% della superficie coltivata) e dalla
constatazione teorica che il capitalismo, soprattutto nella sua
attuale evoluzione oligopolistica e finanziarizzata, non è una
società governata da un soggetto, o da un gruppetto di soggetti ben
determinati ed identificabili, ma un grande meccanismo anonimo e
impersonale, dentro il quale si opera una scissione fra i
capitalisti/proprietari, sempre più rentiers, ed un gruppo di
manager/burocrati, che gestiscono e dirigono i mezzi di produzione
(per cui se ne deduce che il collettivismo burocratico non è una
specificità dell'Urss, ma in certe forme avviene anche all'interno
dei sistemi capitalistici).
Per
sostenere la tesi dell'Urss come realtà ancora capitalistica, ma
dove però il ruolo direttivo dello Stato si restringe al settore
industriale (atteso che, come detto, si sopravvaluta la natura
cooperativa/mercatistica e semi-privatistica dell'agricoltura
kolchoziana) e dove quindi è meglio parlare di “Industrialismo di
Stato”, la parte più convincente dell'analisi di Bordiga è quella
che si contrappone con vigore alla dottrina stalinista, e che si
rinviene nel “Dialogato con Stalin”. Egli infatti smonta gli
ingenui ed ingannatòri assiomi di Stalin, secondo cui, ad esempio,
“la produzione
capitalistica incomincia là, dove i mezzi di produzione sono
concentrati in mani private e gli operai, privi di mezzi di
produzione, sono costretti a vendere la loro forza lavoro come una
merce. Senza di ciò non vi è produzione capitalistica”4.
Tale tesi di Stalin non è ovviamente di per sé vera; il capitalismo
di stato è infatti un capitalismo in cui i mezzi di produzione sono
in mano allo Stato e non ai privati, e dove gli operai continuano a
vendere la loro forza-lavoro come merce. Ma Bordiga smaschera anche
l'assurda affermazione di Stalin secondo cui è possibile avere una
società socialista che conserva le stesse forme di produzione del
valore di quelle capitalistiche. Dice infatti il Baffone che “esiste
e ha vigore da noi, nel nostro regime socialista, la legge del
valore? Sì, esiste e ha vigore. Là dove esistono merci e produzione
mercantile, non può non esistere anche la legge del valore. Il campo
d'azione della legge del valore si estende da noi innanzitutto alla
circolazione delle merci, allo scambio delle merci attraverso la
compra-vendita, principalmente allo scambio delle merci di consumo
individuale. Qui, in questo campo, la legge del valore conserva,
naturalmente entro certi limiti, una funzione regolatrice.Ma
l'efficacia della legge del valore non si limita al campo della
circolazione delle merci. Essa si estende anche alla produzione (...)
Qui appunto si rivela l'influenza della legge del valore sulla
produzione. In relazione a ciò, nelle nostre aziende hanno
un'importanza attuale questioni come quella del rendimento
commerciale e della gestione redditizia, del costo di produzione, dei
prezzi, ecc. (...) insegna ai nostri dirigenti dell'industria a
migliorare sistematicamente i metodi della produzione, a diminuire il
costo
di produzione, ad attuare un rendimento commerciale e a ottenere che
le aziende siano in attivo”.
Di fronte a simili affermazioni, la critica di Bordiga è tanto
elementare quanto fulminante: non
si può superare il modo di produzione capitalistico conservandone le
categorie economiche.
Ma
se Bordiga è geniale nel rinvenire ed evidenziare la natura
protocapitalistica della pianificazione economica sovietica, non
altrettanto geniale è, a mio avviso, il confuso ragionamento di
contorno, con il quale cerca di suffragare la tesi di un “capitalismo
di Stato incompleto”, limitato cioè al comparto industriale
pianificato. Nel 1946 afferma che “la
classe che sfrutta il proletariato russo - e che forse in un avvenire
poco lontano potrà apparire in piena luce anche all'interno del
paese - è costituita attualmente da due forme storiche evidenti: il
capitalismo internazionale e questa stessa oligarchia che domina
all'interno e sulla quale si appoggiano contadini, mercanti,
speculatori arricchiti e intellettuali pronti a cercare i favori del
più forte”. Il
filo conduttore del ragionamento bordighiano è che l'oligarchia
burocratica dell'Urss sarebbe, ovviamente contro ogni evidenza
geo-politica, venduta agli interessi del capitalismo internazionale.
Nel 1951, il Nostro si spinge ad affermare che nello Stato russo,
"in cui il
proletariato non ha più il potere, lo ha in sua vece ormai una
ibrida coalizione e fluida associazione tra interessi interni di
classi piccolo-borghesi, medio borghesi, intraprenditrici
dissimulate, e quelli capitalistici internazionali".
Una analisi che, forse, vuole far risorgere una piccola borghesia e
una imprenditoria dissimulata, oltre i residui ancora presenti nelle
forme semi-privatistiche dell'agricoltura dei Kolchoz o dell'economia
cooperativa, nell'economia parallela e nera che caratterizzava
l'Urss, non di rado gestita da organizzazioni mafiose, o spesso da
semplici cittadini che si scambiavano merci introvabili sul mercato
“ufficiale”, o forse nel ceto dei dirigenti d'azienda di Stato,
in realtà semplici funzionari dello Stato-imprenditore, privati
delle funzioni “tipiche” di un imprenditore: scegliere il mix fra
lavoro e capitale, gestire gli acquisti delle materie prime al costo
più conveniente, decidere di contrarre un prestito, fissare quantità
e prezzi del prodotto finale e decidere su quali mercati di sbocco
agire (tutti questi elementi erano infatti stabiliti dalla
pianificazione centrale). Ancora più incomprensibilmente, Bordiga fa
coincidere gli interessi di questa fantasiosa “fluida associazione”
con quelli del capitalismo internazionale (che infatti, non appena ha
potuto, ha spinto i dirigenti dell'Urss verso quella perestrojka che
avrebbe portato rapidamente al crollo del Muro di Berlino, al crollo
della stessa Urss e della maggior parte della sua “fluida
associazione” che la dirigeva, nonché alla quasi completa
liberalizzazione e privatizzazione dell'economia dei Paesi
dell'Europa dell'Est).
Lo
stesso Bordiga farà poi alcune precisazioni: nel 1953 parlerà
infatti di “assenza
attuale di una classe borghese statisticamente definibile”;
però nel 1960 tornerà a parlare di una piccola borghesia che
governa l'Urss sotto il giogo del capitalismo mondiale. Naturalmente
chi non la pensa come lui, come Battaglia Comunista, è “un
pezzo di fesso”.
Ma nell'insieme, il concetto di “industrialismo di Stato”, nella
impostazione teorica di Bordiga, accenna ad una natura
tendenzialmente capitalistica dell'Urss, cioè ad un impianto
capitalistico ancora non completo sui residui feudali provenienti
dalla Russia pre-sovietica, che fa sì che il “capitalismo in
divenire” sovietico “non
è la stessa cosa di quello di ogni altro paese".
Perchè (da Programma, n. 3, 1953) in Russia siamo nella "fase
in cui il capitalismo sviluppa le forze produttive e ne spinge
l'applicazione oltre antichi limiti geografici, formando la trama
della rivoluzione mondiale socialista".
Saremmo perciò stati ancora in presenza di una Russia nello "stadio
della transizione al capitalismo. Stadio quasi rispettabile e non
suicida".
Un capitalismo "socialmente
ancora da sviluppare",
per cui ancora non si sarebbe manifestata una “borghesia
statisticamente definibile”,
sostituita dalla “fluida associazione” che, quindi,
contrariamente a qualsiasi analisi storica del capitalismo mondiale,
ed a qualsiasi analisi geo-politica onesta, avrebbe dovuto costituire
la levatrice della borghesia sovietica, sotto l'egida degli interessi
capitalistici mondiali. La confusione è così grande che Damen
finisce per chiedersi come mai si neghi che “la
strapotenza dello Stato sovietico non abbia risolto in concreto il
problema di una sua classe dirigente omogenea e forte per la
coscienza che ha del proprio essere di classe e della funzione
storica che è chiamata a compiere?”
Un
modo di produzione sui generis, con alcuni elementi ibridi di
capitalismo ma non un capitalismo di Stato
Dove è la verità, fra tante letture alternative? Qual era la realtà
sociale, di classe e di modo di produzione dell'Urss pre-perestrojka?
La verità, come spesso avviene (e come spesso i marxisti tendono a
negare con orrore) sta nel mezzo delle varie teorie. Non è sbagliato
identificare, come fanno i trotzkisti come Tony Cliff, o i marxisti
consiliari come Paul Mattick, o anche marxisti di altra tendenza come
Cervetto o Damen, un modo di produzione sostanzialmente connotato da
elementi indiscutibili di capitalismo e, dunque, di capitalismo di
Stato. La proprietà nazionale dei mezzi di produzione, senza
socializzazione degli stessi, non porta fuori dal capitalismo, ma
semplicemente sostituisce una classe sociale, la borghesia, con il
ruolo imprenditoriale assunto direttamento dallo Stato, tramite la
pianificazione.
E'
infatti indiscutibile che lo Stato-imprenditore estrae plusvalore
dalla forza-lavoro salariata, replicando meccanismi di sfruttamento
tipicamente capitalistici, in base ad obiettivi di valorizzazione del
capitale che vengono stabiliti dal pianificatore, anziché dal gioco
concorrenziale del libero mercato. Ed i meccanismi di valorizzazione
del capitale sono esattamente gli stessi che agiscono in qualsiasi
sistema capitalistico, con la differenza che l'obiettivo di tasso di
profitto, e quindi di tasso di plusvalore (ricordando che,
denominando Pv il plusvalore totale, V il capitale variabile, C
quello costante, ed r il tasso di profitto, vale sempre la relazione
r = Pv/v / (1 + C/V), dove Pv/V è il tasso di plusvalore)
viene
stabilito a monte, e non dal gioco della concorrenza, ad un livello
che serve per riprodurre il capitale totale e generare le risorse di
investimento tali da raggiungere gli obiettivi di accumulazione di
nuovo capitale costante. E solo di rado, ed in periodi particolari
della storia dell'Urss (e non certamente durante l'epopea
dell'industrializzazione di massa staliniana) ad un livello che
consenta di aumentare i beni di consumo a disposizione della
popolazione, cioè dei lavoratori. In determinate epoche, tale
processo di accumulazione ha raggiunto livelli così alti di
estrazione di plusvalore relativo, da generare vere e proprie rivolte
di lavoratori, duramente represse, come la rivolta degli operai edili
di Berlino del 1953, posti di fronte ad obiettivi di produzione
aumentati del 20% senza aumento salariale. Il mito dello
stakhanovismo diventa così l'equivalente sovietico della sindrome da
superlavoro occidentale, mentre nell'insieme, nel periodo 1950-65, ad
un incremento dei salari reali dell'85% è corrisposto un aumento
della produttività del 175%.
In
effetti, una economia “chiusa” a monte dalla determinazione
prefissata dei costi delle materie prime e dei salari, ed a valle
dalla fissazione delle quantità di prodotto e dei prezzi, il cui
tasso di profitto è quindi interamente determinato ex-ante (a quote
che, nella storia sovietica, hanno oscillato fra l'8% ed il 16%, con
punte del 20% in periodi di crisi particolare, quindi con tassi di
profitto piuttosto elevati) ed in cui lo sfruttamento estensivo delle
risorse ha già raggiunto livelli molto alti, tali da configurare
situazioni di piena occupazione, tipiche della crescita estensiva
dell'economia sovietica da Stalin in poi, ad un certo punto può
massimizzare la valorizzazione del capitale soltanto aumentando a
dismisura la produttività del lavoro. Infatti, è proprio
l'insufficiente aumento della produttività del lavoro ad avere
causato la grave crisi strutturale dell'economia sovietica, che
comprimerà investimenti ed accumulazione negli anni precedenti alla
perestrojka, immaginata proprio come possibile “risposta” a tale
crisi: basti pensare che fra 1971 e 1983 la produttività decresce
costantemente, ottenendo come risultato un tasso di investimenti che
passa dall'11% medio del periodo 1956-1960 al misero 3,4% del
1976-1980, fino al 2% del 1981-85. Il declino del tasso di
investimento accelera l'obsolescenza tecnologica degli impianti, con
il risultato che l'efficienza produttiva dello stock di capitale
fisso decresce continuamente. Come ricorda Aganbegjan, “in
ogni quinquennio, a decorrere dal 1970 e fino al 1985, si registrava
una contrazione della resa dei capitali fissi del 15%, ossia di circa
il 3% all'anno”.
Esattamente come avviene in un sistema capitalistico in crisi, la
caduta di resa e redditività del capitale, ed il rallentamento
dell'accumulazione dovuto al calo della produttività e degli
investimenti vengono scaricati sui lavoratori. Ancora Aganbegjan
ricorda che nel periodo 1979-1982 “gli
investimenti destinati allo sviluppo della sfera sociale cominciarono
ad avvenire secondo il principio residuale e diminuì notevolmente,
nell'ambito del reddito nazionale e del bilancio statale, l'aliquota
dell'istruzione e della sanità”. Il
risorgente imperialismo sovietico in Afghanistan nel 1979 può essere
anche letto come tentativo di rianimare l'accumulazione di capitale
tramite l'industria bellica, ed anche in questo caso si tratta di
qualcosa di molto capitalistico, ovvero l'attivazione di un
meccanismo di accumulazione imperialistico/militare.
La base capitalistica del modo di produzione è talmente evidente che
le stesse categorie analitiche tipiche dell'economia liberale
continuano a valere: è il caso della teoria del valore illustrata,
in termini sostanzialmente capitalistici, da Stalin, di cui si è
parlato in precedenza, per cui alle imprese nazionalizzate vengono
assegnati non solo obiettivi di produzione ed occupazione, quindi
aventi implicazioni sociali, ma anche obiettivi di “attivo”
finanziario, come Stalin stesso dichiara, che si esprimono in termini
del tutto capitalistici, come rapporto fra prezzo unitario del
prodotto al netto del suo costo (che se espresso in termini di
valore-lavoro diventa plusvalore) e capitale totale investito,
costante e variabile. L'utilizzo di strumenti tipici dell'economia
capitalista venne poi esaltato dalla riforma-Kosygin, in piena
era-Breznev, in cui si esaltarono forme simil-occidentali di
incentivi ai dirigenti d'impresa, di autonomia gestionale delle
imprese, di redditività dei prodotti.
C'è però un grande “ma”, che impedisce di classificare l'Urss
come semplice e banale capitalismo di Stato tout court. Mancano
infatti quattro ingredienti tipici del capitalismo, di Stato o non di
Stato:
a) l'obiettivo di massimizzazione del profitto;
b) l'assenza, o la scarsa entità, dei meccanismi redistributivi
della massa di profitto realizzata;
c) l'assenza del meccanismo dei prezzi come segnale per orientare le
scelte allocative dei fattori e distributive;
d) l'inevitabile tendenza alla finanziarizzazione del capitale e del
profitto, come fase necessaria, per così dire fisiologica, di
evoluzione di un sistema capitalistico maturo.
Iniziando dal primo punto, l'obiettivo di massimizzazione del
profitto è irrealizzabile, in parte nella misura in cui il tasso di
profitto viene stabilito ex-ante, anche se in funzione di obiettivi
di accumulazione di nuovo capitale, per lunghe fasi prioritariamente
costante e solo secondariamente variabile. La fissazione
“amministrativa” del saggio di profitto rende più difficile il
raggiungimento di livelli superiori tramite una maggiore estrazione
di plusvalore rispetto a quanto stabilito in sede di pianificazione,
o condizioni di mercato particolarmente favorevoli. A ciò si
aggiunge il tipico disincentivo del direttore d'azienda pianificata,
che non ha alcun interesse ad aumentare i livelli di produttività e
di produzione oltre gli obiettivi stabiliti dal piano per la sua
azienda, anche se ciò fosse tecnicamente possibile, perché
rischierebbe di vedersi assegnati, nella successiva tornata
pianificatoria, obiettivi più alti, più difficili da raggiungere,
quindi più rischiosi per la sua carriera. E si aggiunge, per
terminare, anche la tipica inefficienza distributiva dei processi
pianificatori centralizzati, per cui, non esistendo un sistema di
prezzi liberi che, come avviene in mercati concorrenziali, segnali,
in vari punti del mercato, situazioni di eccesso di domanda o di
offerta, non esiste alcun indicatore in tempo reale che consenta di
distribuire le merci prodotte in modo ottimale, in funzione cioè
della distribuzione reale ed attuale della loro domanda. Ciò
comporta tipici fenomeni di scarsità di merci laddove esisterebbe la
domanda (contribuendo ad alimentare le code davanti ai negozi, che
peraltro sono essenzialmente il frutto della già rammentata priorità
di lungo termine per il settore dei beni capitali rispetto a quello
dei beni di consumo) innescando perdite di profitto potenziale. Tra
l'altro, il diffusio malcostume di falsificare i dati produttivi
verso il basso da parte delle imprese di Stato rende anche gli
obiettivi pianificatori, ivi compresi quelli riferiti al tasso di
profitto, sottostimati rispetto alla realtà.
Quanto
al secondo punto, mentre nel capitalismo puro, tipicamente, il
profitto viene interamente destinato agli investimenti in nuovo
capitale ed al consumo della classe dominante, nel sistema sovietico,
“dal profitto
lordo ottenuto, sia che provenga da investimenti completamente
statali, che dal reinvestimento degli utili ricavati dal processo
produttivo precedente, l'impresa tiene per sé solo il 20%, tutto il
resto è dello Stato sotto forma di oneri fiscali (imposte), oneri
sul capitale fisso e su quello variabile (salari). All'interno di
questo 20% si deve trovare lo spazio per i finanziamenti per lo
sviluppo dell'impresa quali l'allargamento della base produttiva e
l'aumento degli stock, gli incentivi materiali sui quali costruire un
più efficace sfruttamento della forza lavoro e che, comunque, non
devono superare il 5%, un fondo culturale e un fondo per
l'edilizia”5.
Quindi, già la quota di profitto trattenuta dall'impresa deve
contribuire, sia pur in piccola parte, per gli incentivi ai
lavoratori e per i fondi culturali e per l'edilizia a loro destinati.
Si potrebbe obiettare che, anche in sistemi capitalistici dove sono
presenti forme di cogestione aziendale, una parte del profitto viene
destinata, volontariamente o meno, a “finalità sociali”. Però,
nell'Urss, la quota dell'80% del profitto che va allo Stato viene
utilizzato, è vero, per alimentare la classe dominante dei burocrati
di partito e di Stato, sotto forma di salari pingui, beni stranieri
di lusso occidentali importati e venduti in negozi riservati ai soli
oligarchi, dacie di Stato in campagna generosamente assegnate ai
dirigenti, appartamenti di lusso (ben diversi da quelli prefabbricati
in cui vive il popolo) in quartieri spesso “esclusivi” (come il
Blloku dell'Albania comunista, vero e proprio residence di lusso per
oligarchi), prostitute di Stato generosamente tollerate, cliniche
private.
Però è anche vero che praticamente tutti i costi sociali e primari
sono gratuiti o semi gratuiti, dai beni alimentari di prima necessità
pressoché regalati (quando si riesce a trovare qualcosa nei negozi
semivuoti, beninteso) agli affitti su valori del tutto simbolici,
alla sanità ed alla scuola completamente gratuite, ai trasporti
pubblici semigratuiti, persino alle assicurazioni degli autoveicoli
pagate dallo Stato. In nessuno Stato capitalista, anche nel più
generoso, il livello di redistribuzione popolare dei profitti è così
importante ed intenso come nell'Urss. Ciò ha fatto sì che, pur con
un PNL pro capite pari ad appena il 78,3% della media italiana nel
1979, in quello stesso anno il cittadino sovietico medio mangiasse 57
kg. di carne all'anno, disponesse di uno spazio abitabile medio di
12,7 mq, il 78% delle famiglie avesse il frigorifero e l'82% la
televisione (la fonte è il giornale britannico The Guardian). Si
tratta di statistiche che mostrano un tenore di vita simile a quello
degli italiani nel medesimo anno. Nel 1991, al suo crollo, l'Urss
garantiva ai suoi cittadini una speranza di vita alla nascita pari a
65 anni per i maschi e 74 per le femmine, analoga a quella di un
Paese di livello intermedio di sviluppo.
Un livello redistributivo di profitto così alto è assolutamente
atipico nei Paesi capitalistici, e dipende proprio dalla intuizione
di fondo di Bruno Rizzi, sopra analizzata, ovvero la presenza di un
collettivismo burocratico, dove la proprietà dei mezzi di produzione
è collettiva, ovvero dell'intera classe degli apparatschik, e non
suddivisa, all'interno della classe, per singoli individui o
famiglie, come avviene nel caso della borghesia capitalistica.
L'anonimità della proprietà dei mezzi di produzione a favore di una
classe indistinta, classe tenuta insieme dalla consapevolezza di
dover dirigere un Paese almeno formalmente socialista, garantisce un
utilizzo sociale del plusvalore assolutamente sconosciuto in
qualsiasi Paese capitalista, e spiega perché, ancora oggi, fra i
gruppi sociali più poveri dei Paesi ex socialisti (in particolare
fra i pensionati a basso reddito, ma anche, in parte, fra i giovani
che nel capitalismo non riescono ad inserirsi lavorativamente) aleggi
una diffusa nostalgia per i precedenti governi socialisti. A Sofia,
ho assistito di persona, nel 2008, a una fila di gente, non tutti
anziani, che posava fiori sul monumento dedicato all'Armata Rossa,
nel giorno in cui, ai tempi di Zivkov, si festeggiava la liberazione
del Paese dal controllo nazista. Alcuni avevano le lacrime agli
occhi.
Con riferimento al terzo punto, l'assenza di un sistema di prezzi
liberamente oscillanti entro fasce in grado di segnalare la migliore
allocazione dei fattori produttivi e degli investimenti fra i
settori, e la migliore distribuzione dei prodotti finiti fra i vari
punti del mercato, dovuta al completo controllo amministrativo degli
stessi in fase di pianificazione, allontana la realtà economica
dell'Urss da qualsiasi capitalismo, anche di Stato. Infatti,
l'oscillazione libera dei prezzi è di fatto l'unico meccanismo
autoregolatore di mercati concorrenziali, e la sua assenza è quindi
impensabile in contesti non concorrenziali sotto il profilo
capitalistico. Persino in un capitalismo di Stato, come ad esempio
quello cinese, i prezzi sono in larga misura liberalizzati,
altrimenti non si generano i giusti segnali per far funzionare il
mercato e la concorrenza capitalistica fra imprese, e fra imprese e
lavoratori (atteso che anche il salario è un prezzo) e per
determinare le scelte dei consumatori fra una molteplicità di
prodotti concorrenziali fra loro. Ciò peraltro significa anche che
nel sistema economico sovietico non si generavano quelle pericolose
bolle inflazionistiche, che nei sistemi capitalistici portano ad
improvvise crisi ma anche a una continua crescita della speculazione
alle spese dell'economia produttiva (nell'Urss, una bolla dei prezzi
immobiliari inquietante, e potenzialmente distruttiva, come quella
che si sta generando in Cina in questi ultimi mesi, sarebbe stata
impensabile). Il che, ovviamente, non significa che non vi fossero
forme di concorrenza, nell'Urss, fra imprese, fra queste ed i
lavoratori, o fra lavoratori. Tali forme esistevano, ma in larga
misura erano di tipo non capitalista, avevano a che vedere, ad
esempio, con il posizionamento nella catena di comando e controllo
gestita al suo vertice dal Gosplan e/o con la possibilità di fruire
di avanzamenti di carriera o di prestigio legati al rispetto degli
obiettivi di piano o al superamento degli obiettivi produttivi,
mentre forme di concorrenza paracapitalistica si verificavano solo
nel settore semi-privatistico dei kolchoz, oppure fra le imprese rese
più autonome nell'attività contrattuale con fornitori e clienti
dalla riforma Kosygin sopra ricordata.
Per
finire, il quarto elemento di differenziazione dal capitalismo è
l'assenza di un meccanismo significativo di finanziarizzazione
dell'economia. Nel capitalismo, di Stato o di mercato, la
finanziarizzazione crescente dell'accumulazione è uno sviluppo
fisiologico, inevitabile, legato a numerosi fattori: la crescita e la
crescente sofisticazione dei meccanismi di erogazioen del debito
monetario necessario per avvire processi di sccumulazione, la caduta
tendenziale del tasso di profitto, la tendenza crescente
all'oligopolizzazione dell'economia, che genera rendite da
oligopolisti destinabili al mercato finanziario. Sul legame fra
sviluppo del capitalismo e finanziarizzazione dello stesso, cfr.
anche
http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/11/il-declino-tendenziale-del-saggio-di.html
. “Mentre nel
capitalismo occidentale, in questi ultimi venti anni, si è assistito
a un enorme sviluppo e sofisticazione della finanza e dei suoi
strumenti operativi, in Russia (Urss, nda), il mondo della finanza
si è riproposto per decenni con gli stessi meccanismi e le stesse
funzioni. Un po' per il percorso storico, un po' per la cecità della
centralizzazione del capitale finanziario, un po' per la stessa
rigidità del piano, L'Urss (Nda) si è ritrovato negli anni Ottanta
con una struttura finanziaria simile a quella che aveva alla fine
dell'ottocento sotto la gestione dei Romanov. In pratica una unica
banca, la Gosbank, funge da istituto di emissione, da banca ordinaria
e da banca commerciale. Esistono le Casse di risparmio, ma il loro
ruolo è talmente irrilevante da poter essere considerato nullo. Le
imprese non possono emettere obbligazioni né tantomeno azioni che
comporterebbero una compartecipazione alla proprietà dell'impresa
stessa. Manca la Borsa (...) Nei meccanismi del Piano la emissione di
Titoli pubblici è prevista solo eccezionalmente e per importi
complessivi risibili6”.
L'assenza
di una significativa finanziarizzazione può essere vista come un
problema soltanto laddove si consideri l'Urss un sistema
capitalistico, sia pur di Stato, ma rimane il fatto che occorrerebbe
spiegare come mai un presunto capitalismo di Stato non abbia
sviluppato anche un forte settore finanziario, come ad es. la Cina.
Dire che ciò non è avvenuto per il percorso storico, per la
centralizzazione finanziaria o le rigidità della pianificazione non
spiega niente, nella misura in cui un capitalismo con esigenze di
sviluppo ed evoluzione, per esempio in direzione di una maggiore
finanziarizzazione, è lesto nell'eliminare simili barriere
storico/normative con opportune riforme. Se ciò non è avvenuto, o
per meglio dire è iniziato soltanto con la perestrojka, ed ha
portato in pochissimi anni alla disintegrazione dello Stato sovietico
e della sua economia, l'unica spiegazione plausibile è che l'Urss
non era un sistema capitalistico, per cui l'innesto di meccanismi
finanziari tipicamente capitalisti fatto nell'era-Gorbaciov ne ha
provocato l'esplosione ed il crollo.
Conclusioni
In conclusione, l'assenza di stimoli alla massimizzazione del
profitto, l'amplissima utilizzazione sociale dello stesso, l'assenza
del meccanismo dei prezzi, l'irrilevanza del settore finanziario,
sono elementi di fondo, strutturali, che allontanano l'economia
sovietica dalla possibile definizione di capitalismo di Stato. Non
essendo nemmeno un sistema socialista, o tendente verosimilmente al
socialismo, l'Urss, nella sua natura sociale, può definirsi
soltanto, in linea con l'intuizione di Bruno Rizzi, un sistema “sui
generis”, un modo di produzione a sé stante, che ha integrato, fra
l'altro, anche forti elementi di capitalismo, tanto da poter essere
definito “a base paracapitalistica”, ma che è stato anche
caratterizzato da profonde differenze strutturali di funzionamento
rispetto al sistema socio economico dominante, tanto da non poter
essere inserito in una qualche categoria del capitalismo, di Stato o
industrialistico.
E che quindi ha avuto anche una base sociale, oltre che economica,
diversa, per certi versi, da quella capitalistica. Mentre il rapporto
che il lavoro dipendente ha con i mezzi di produzione è infatti del
tutto analogo al rapporto classico di sfruttamento e di alienazione
capitalistico, va rilevata l'inesistenza di una borghesia
statisticamente definibile (per usare i termini di Bordiga) e la
presenza di una classe burocratica con forme di riproduzione
peculiari, diverse da quelle della borghesia capitalistica (una
classe definibile marxianamente, non un semplice “strato”
rimuovibile di uno Stato ancora fondamentalmente operaio, come
cercava di credere Trotzky). In parte improduttiva, perché dedicata
a compiti politico/amministrativi ed organizzativi generali, non
connessi cioè con la direzione e l'organizzazione della produzione,
in parte proprietaria dei mezzi di produzione, ma in forma, oltre che
collettiva e dunque anonima, anche indiretta (amministrandoli cioè
non nel proprio nome, come fa la borghesia, ma nel nome dello Stato)
tale classe è stata costretta a rinunciare all'obiettivo di
massimizzare il saggio di profitto, come avrebbe fatto un
capitalismo, anche di Stato, ed è stata anche costretta a
socializzare una quota della ricchezza nazionale superiore alla media
di un Paese capitalistico. Tutto ciò l'ha condotta ad utilizzare
anche un'altra forma di riproduzione: quella derivante dall'economia
sommersa. E' stat infatti indotta, come ogni burocrazia, a compensare
i mancati introiti da massimizzazione e conservazione del profitto
produttivo con redditi di tipo improduttivo, generati dalla
corruzione, fenomeno che infatti permeava ogni struttura dello Stato
e del partito. Il reddito da corruzione è infatti un introito
improduttivo, che deriva da un particolare (ed illecito) utilizzo di
reddito produttivo precedentemente prodotto, tipico di una classe
sociale, come la burocrazia, che è solo parzialmente,
collettivamente (anonimamente) ed indirettamente connessa con la
gestione dei mezzi di produzione.
E' chiaro quindi, da quanto ho scritto, che la versione più vicina
alla realtà circa la natura sociale dell'Urss è, a mio avviso,
quella di Rizzi, che però ha il difetto (oltre che di credere ad una
estensione mondiale del dominio di classe della burocrazia, che non è
avvenuto) di esaltare in modo eccessivo il ruolo “servile” del
lavoratore nei confronti dello Stato, evidentemente perché Rizzi
aveva sotto gli occhi la fase più dura, ovvero quella stalinista.
Dopo la morte di Stalin, il lavoratore sovietico, persino quello
sottoposto alla dura disciplina di fabbrica ed al credo
stakhanovista, non era né più né meno servo di quello occidentale.
E certo la presenza o l'assenza di sindacati o di meccanismi di
contrattazione del salario e del lavoro non rendono il lavoratore
italiano del 2013 più felice, tutelato e sicuro di quello sovietico
del 1970. Non c'è quindi niente di “feudale” nel rapporto di
lavoro sovietico, come credeva Rizzi, ma semplicemente una forma di
sfruttamento del lavoro diversa, attuata da un modo di produzione a
sé stante, ibrido, in grado di incrociare caratteristiche di fondo
del capitalismo ed elementi strutturali assolutamente non
capitalistici. Così come, d'altra parte, la tesi bordighista della
“fluida associazione” eterodiretta dal capitalismo globale non ha
senso, almeno sino all'avvio della perestrojka gorbacioviana, dovuta
però, in primo luogo, alla profonda crisi interna in cui era caduto
il modo di produzione sovietico, quindi a motivi prima di tutti
endogeni (anche se poi è chiaro che, scaturendo da problemi interni,
il processo che dalla glasnost ha condotto alla fine dell'Urss è
stato rapidamente preso in mano e quindi guidato da interessi
capitalistici esterni e, in quel caso sì, da “fluide”, ed
aggiungerei ambigue, associazioni di interessi coagulatesi attorno a
Gorbaciov, ed in questo, almeno, si può accreditare Bordiga di
capacità profetiche).
2Il
18 Brumaio di Luigi Bonaparte
3Bruno
Rizzi, Il collettivismo burocratico. Imola, 1967, pag. 59 e segg.
4J.
Stalin, “Problemi economici del socialismo nell'Urss”, 1952, in
http://www.pmli.it/stalinproblemieconomicisocialismourss.htm
5http://www.leftcom.org/it/articles/1990-09-01/urss-dall-economia-di-piano-all-economia-di-mercato
6http://www.leftcom.org/it/articles/1990-09-01/urss-dall-economia-di-piano-all-economia-di-mercato
Nessun commento:
Posta un commento