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lunedì 23 aprile 2012

PRIME CONSIDERAZIONI A CALDO SULLE ELEZIONI PRESIDENZIALI FRANCESI di Riccardo Achilli



PRIME CONSIDERAZIONI A CALDO SULLE ELEZIONI PRESIDENZIALI FRANCESI
                                                     di Riccardo Achilli


E' senz'altro troppo presto per una analisi approfondita dei dati elettorali delle presidenziali francesi, che ovviamente richiederà il dettaglio analitico che ancora non c'è. Però alcune tendenze di massima sono già evidenti.
Il Paese, in larga maggioranza, rifiuta l'estremismo liberista delle politiche di ristrutturazione delle finanze pubbliche imposto da Sarkozy, e quindi rifiuta la filosofia liberista dell'asse franco-tedesco Sarkozy-Merkel.
Tale rifiuto passa però attraverso sfumature e differenze notevoli: il 28/29% dell'elettorato si affida alla ricetta riformista moderata di Hollande, fatta da un equilibrio fra risanamento di bilancio e crescita, in cui c'è il rifiuto dell'estremismo liberista racchiuso nel fiscal compact, come ad esempio la follia del pareggio di bilancio, ma l’accettazione della linea di fondo di rimanere nell'euro, e quindi dimostra la volontà di proseguire nelle politiche di austerità di bilancio, a patto che vengano controbilanciate da una maggiore equità nella distribuzione sociale dei sacrifici, da qualche misura sulla crescita dal lato della competitività (da negoziare, nelle misura più significative, in sede europea, quindi passando per le forche caudine della rigidità della Germania) e da maggiori garanzie legislative sulla tenuta del sistema finanziario in caso di future crisi (in particolare, la separazione fra attività di credito ed attività di investimento delle banche e la creazione di una agenzia pubblica di rating europea, misure che peraltro ben difficilmente potranno prevenire, di per sè, future crisi finanziarie).

Ma quasi un elettore su cinque, generalmente nel proletariato e sottoproletariato urbano più colpito dalla crisi, ma anche in alcune frange piccolo-borghesi (in particolare fra i contadini, altra categoria sociale particolarmente colpita dalla crisi, data la fortissima fase di difficoltà che tale comparto sta attraversando) esprime, tramite il voto al FN della figlia di Le Pen, un rifiuto radicale del modello liberista su cui si fonda la costruzione europea, rifiuto radicale che purtroppo viene intercettato da un partito di estrema destra, che offre facili alibi nel razzismo (quindi nell'offerta di un facile capro espiatorio nell'immigrato che, secondo la propaganda del FN, peserebbe sul bilancio pubblico e ruberebbe il lavoro) ad un proletariato privato di coscienza di classe da decenni di ripiegamento ideologico imposto dal pensiero unico post-muro di Berlino, ed una falsa tranquillizzazione in termini di sicurezza e giustizialisti (il programma della Le Pen parla anche di reintroduzione della pena di morte) ad una piccola borghesia terrorizzata dalla perdita di sicurezze economiche causata dalla crisi (anche se il tradizionale nazionalismo che caratterizza la cultura francese favorisce un partito come il FN, così come anche l'entità, e le specificità di isolamento, anche fisico, nelle banlieues delle città, dell'immigrazione, nonché i conflitti di identità fra immigrati di prima e seconda o terza generazione, rendono molto complessa la gestione del dossier immigrazione in Francia, favorendo il successo, nei segmenti di opinione pubblica a maggior livello di esposizione al rischio di emarginazione sociale, dei messaggi razzisti, e quindi drasticamente semplificatòri, proposti dal FN ). 

Il FG di Mélenchon riesce ad intercettare e mantenere a sinistra circa l'11% del rifiuto radicale al modello economico e sociale dominante, riorientandolo chiaramente verso la richiesta di un paradigma diverso dal capitalismo (controllo stringente sull'attività bancaria, eliminazione del precariato, riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, introduzione di un salario minimo e di un tetto salariale massimo, stimolo all'imprenditoria cooperativa anche in settori altamente competitivi, ripubblicizzazione dei servizi essenziali, ecc. sono chiaramente richieste che prefigurano un modello socialista, sia pur introdotto in modo pacifico e senza rivoluzioni).
Nelle condizioni di arretramento della coscienza di classe che affliggono tutta l'Europa, il risultato elettorale di Mélenchon è senz'altro da considerarsi molto positivo, e contribuisce, nonostante la forte crescita del FN (che consolida il suo primato di più forte partito di estrema destra d'Europa) alla riduzione del risultato elettorale delle destre e dei partiti moderati (come quello di Bayrou) rispetto alle ultime elezioni presidenziali (le uniche realmente comparabili): oggi, le destre ed i movimenti centristi come il partito di Bayrou totalizzano il 54-55% dei voti.
Alle presidenziali del 2007, tale quota aveva superato il 62%. Il risultato del FG è tanto più importante quanto più segnala la crescita di tale partito, che (anche se il paragone con altre elezioni non è del tutto corretto) alle europee del 2009 aveva ottenuto il 6,5%.
Tuttavia, la sensazione netta, al di là dei sondaggi che danno Hollande vincitore al ballottaggio, e nonostante la tradizione secondo cui il vincitore del primo turno ha sempre vinto anche il secondo, è che i giochi siano ancora aperti.
Nessuno è realmente in grado di stimare l'astensionismo fra gli elettori del FN al ballottaggio, anche perché la Le Pen appare molto determinata a chiudere un accordo con Sarkozy, ed il suo appello serale all'unità degli elettori del FN sotto la sua guida ha il preciso scopo di ridurre l'astensionismo in caso di accordo con il presidente uscente. Inoltre, Sarkozy può giocare di sponda sia con quote di elettorato del FN (promettendo una svolta poliziesca e xenofoba più radicale) sia con quote dell'elettorato di Bayrou (che ha pur sempre ottenuto  l'8-9%) accogliendo alcune proposte di tipo economico del MoDem, che vanno in direzione di maggiore austerità.
Viceversa, Hollande ha come unico interlocutore il FG, poiché, come dimostrano le presidenziali del 2007, il MoDem di Bayrou, con il suo atteggiamento di neutralità, spinge i suoi elettori ad astenersi al secondo turno, o a votare in quote più o meno uguali fra il candidato di destra e quello di sinistra (a meno che, come detto, Sarkozy non riesca a spostare una maggiore fetta di elettorato di Bayrou sposandone le proposte economiche, che sono allineate alle sue, ed inducendo l'elettorato centrista di tale partito a votare per lui, agitando lo spauracchio dell'influenza dei "comunisti" del FG su Hollande). 
Da questo punto di vista la dichiarazione emotiva di Mélenchon "appoggerò Hollande senza chiedergli niente in cambio", evidentemente indotta dall'inatteso risultato del FN di Le Pen, appare come un grave errore politico. Difficilmente gli elettori del FG decideranno di votare in massa per Hollande al secondo turno, se egli non accoglierà alcune richieste del programma di Mélenchon, ben più radicale di quello dell'esponente socialista. Mélenchon deve lottare per indurre Hollande ad accettare alcune proposte del FG, perché altrimenti consegnerà la Francia ad un nuovo mandato di Sarkozy, che stavolta nascerebbe sotto l'astro nero dei fascisti del FN e sotto l'astro ancor più cupo della Bundesbank e del monetarismo più selvaggio che il capitalismo in crisi ha messo in atto nei confronti dell'Europa intera. Ed anche l'Italia si gioca, in queste elezioni, una fetta del suo prossimo futuro.

In conclusione, il risultato più scioccante di queste elezioni, ovvero l’avanzata dell’estrema destra, non solo conferma un dato sociologico già noto, ovvero la conquista di crescenti quote di voto di operai e disoccupati, indotta dal declino della coscienza di classe, ma anche dal moderatismo di un PSF che, dopo il progetto-bandiera sulle 35 ore di Jospin, ha progressivamente adottato (già dallo stesso governo-Jospin) politiche economiche e sociali sostanzialmente simili alla destra nell’impostazione generale, corrette da qualche compensazione sociale e distributiva, ma evidenzia anche la penetrazione crescente fra i colletti bianchi, ovvero fra quel cosiddetto “ceto medio”, definito dalla sociologia borghese, di impiegati del terziario, su cui si basa sempre di più il consenso elettorale del PSF. Non è infatti un caso se non vi è alcun avanzamento significativo dei consensi per tale partito, che passano dal 26% dato alla Royal durante le presidenziali del 2007 all’attuale 28-29%. 
Evidentemente manca una riflessione sui danni di un riformismo troppo moderato, che non rimette in discussione realmente il modello di capitalismo finanziarizzato che abbiamo davanti, limitandosi a qualche piccola compensazione sociale, a qualche incentivo alle PMI ed a qualche proposta normativa di contrasto alla speculazione finanziaria, peraltro inefficace a fermare l’avanzata del capitalismo finanziario, che, essendo globalizzata per definizione, è poco sensibile alle normative nazionali (e non ha nessuna speranza di poter essere normata a livello europeo, stante l’ostilità delle due principali piazze finanziarie del nostro continente, ovvero Londra e Zurigo, ad esempio ad una tassazione sulle transazioni finanziarie) e, agendo perlopiù “over the counter_”, ovvero in mercati deregolamentati ed opachi, non offre nemmeno la base informativa minima per una regolamentazione efficace.
Il riformismo, più o meno moderato, perde quindi consensi anche fra quel ceto di impiegati, privato “ab origine” di coscienza di classe dalle modalità organizzative stesse del lavoro terziario e dalla crescente precarizzazione dei rapporti sociali di produzione, che i cantori improvvisati e sciocchi del modernismo ritenevano potesse essere la base sociale di riferimento della sinistra del futuro, abbandonando il voto operaio e quello dei diseredati e degli emarginati del capitalismo, al punto da teorizzare ipotetiche “società senza classi” che esistono solo sul pianeta Mercurio.
Una sinistra modellata sulle lezioni di questi cattivi maestri dimostra di non saper avanzare, perché non ha colto il nesso che esiste fra le rivendicazioni sociali dell’operaio, del disoccupato, dell’impiegato pubblico e del lavoratore precarizzato del call center. Rinuncia ad una analisi di classe perché si illude che lo stesso concetto di classe stia annegando in un coacervo indistinto di “ceti medi”. E quindi propone una ricetta non dissimile da quella liberale nella sua base, edulcorata con un po’ di redistribuzione e di difesa del ruolo del soggetto pubblico.
Una ricetta interclassista che non basta, e che rischia di portarci verso una deriva di destra molto pericolosa. Persino il programma elettorale di Hollande, che è più attento alle questioni sociali della media degli ultimi anni del suo partito (e che rispetto al nostro PD appare quasi “radicale) non basta, soprattutto perché si appoggia su un partito che deve oggettivamente ricostruire un rapporto di maggiore prossimità con i ceti popolari più deboli ed esposti alla crisi.

E’ tempo che la sinistra, a livello mondiale, rifletta sulla necessità di offrire, sia pur per vie democratiche e pacifiche, un modello di riferimento diverso, se non vuole che tale modello venga offerto dalla destra xenofoba.


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