di Lorenzo Mortara
delegato Fiom-Cgil
Dopo 5 settimane, 45
morti e un mare di sangue generosamente offerto dall’apartheid
liberale che ha sostituito dal 1994 l’apartheid razziale, s’è
concluso con un aumento del 22% dei salari, lo sciopero dei minatori
africani cominciato ad Agosto. L’accordo è stato raggiunto tra la
multinazionale britannica Lonmin, padrona delle miniere di platino, e
il Num, il maggior sindacato di categoria. Non ha firmato invece
l’Amcu, il sindacato nato alla fine degli anni ’90 da una
scissione del Num e che ha trainato la lotta. Proprio per questo, può
darsi vi siano strascichi della protesta. Ma per quanto l’Amcu
possa provare a proseguire da solo, tutto lascia supporre che qui,
almeno per ora, si sia messa la parola fine a questa lunga lotta. E
qui, dunque, bisogna trarre un primo bilancio. La domanda che sorge
spontanea è: vittoria o sconfitta per i minatori africani?
È
difficile valutare da qui tutte le implicazioni di una lotta così
efferata, ma pur con molta prudenza qualche considerazione possiamo
provare a farla. Il rischio, per una avanguardia intellettuale che è
in grado di vedere il problema sotto tutti gli aspetti e che ha un
ideale molto più alto di un semplice aumento salariale, è quello di
non riuscire a misurare il risultato sulla base concreta delle
condizioni materiali e intellettuali dei lavoratori che sono in scesi
in lotta.
1200
dollari avevano chiesto i lavoratori, il 200% di aumento. Ne hanno
portati a casa circa 150, il 22%. Se giudichiamo in base alla
differenza, potremmo valutare il risultato, poco più di un decimo
del richiesto, come una miseria. Ma non si chiedono 1200 dollari di
aumento per portarli a casa tutti, si chiede il 200% di aumento per
mettere il massimo della pressione addosso ai padroni.
Il
22% di aumento, tra premi e indennità, porterà 150 dollari in più
al mese, nelle tasche di chi fino ad oggi ha preso il minimo
sindacale, 450 dollari. Per queste persone l’aumento sarà del 33%.
E un aumento secco di 100-150 dollari nelle tasche di un minatore
sfruttato per 450 dollari, è un cambiamento enorme, perché il
minatore sentirà sulla sua pelle il miglioramento, sentirà cioè
che la lotta ha pagato, eccome. E in effetti sembra proprio che
all’accordo raggiunto i minatori, prima del rientro nella miniera,
si siano dati alla festa. Ed è giusto che sia così. I lavoratori
hanno un modo tutto loro di subire, vincere, lottare, soffrire e
gioire, e se non si entra in sintonia con questo modo di vedere le
cose, si corre il rischio di perdere il polso della situazione. Per
capire l’importanza del traguardo raggiunto, basta fare il
raffronto con una busta paga italiana da 1200 euro. Se qua
conquistassimo un aumento compreso tra il 22 e il 33%, porteremmo a
casa tra i 264 e i 400 euro. Un trionfo! Landini sarebbe portato a
spalla per il resto delle sue manifestazioni. Alla Camusso
spargerebbero petali di rose attorno ad ogni suo passo. È quindi
molto probabile che i minatori africani abbiano salutato l’accordo
come una vittoria, ed è per questo che alla fine hanno votato a
maggioranza a favore dell’accordo, per quel loro senso pratico che
da sempre è la loro caratteristica migliore. Ed è giusto che sia
così perché non potrebbe essere diversamente. Dopo 5 settimane di
guerra, 300 litri sangue, grosso modo due morti per ogni percentuale
di aumento, tanto è il prezzo dell’emancipazione dalla schiavitù
capitalistica, il risultato ottenuto non è affatto da disprezzare.
Con un aumento del genere in capo a meno di 3 mesi, con qualche
straordinario, gli operai avranno recuperato quel che hanno messo in
gioco, e saranno già in attivo. Curate le ferite, preso un attimo di
respiro, potranno riprendere la lotta galvanizzati dal successo. La
fiducia in sé stessi crescerà vertiginosamente, sempre che questa
prima importante vittoria venga usata correttamente dai vertici
sindacali. E qui potrebbe esserci la prima crepa nelle file dei
minatori. L’Amcu, non avendo firmato l’accordo, rischia di
pregiudicare il suo futuro. È indubbio che la spinta dell’Amcu sia
stata decisiva nella vertenza. Il Num, come tutti i sindacati
burocratizzati, si è mosso controvoglia, più per non perdere il
contatto con le masse che altro. Se il Num avesse spinto al massimo
come l’Amcu, i minatori avrebbero ottenuto molto di più. Tuttavia,
pur rimarcando il suo ruolo di riformista e pompiere, non bisogna
comunque dimenticare che il Num ha 300˙000
iscritti, mentre l’Amcu, il sindacato dei lavoratori più
sfruttati, solo 50˙000.
Il rapporto è di 6 a 1 a favore del Num. Trascinati nella bolgia
della lotta, la maggior parte dei lavoratori, non starà a guardare a
queste sottigliezze. Quel che vedrà è che l’accordo ha portato
sensibili miglioramenti e tenderà a serrare i ranghi attorno al
sindacato più grosso. Il Num che meno merita gli applausi per la
vittoria, è destinato a raccoglierne i frutti. Sopratttuto adesso
che l’Amcu non ha firmato. L’Amcu ha tutto da guadagnare da una
simile lotta, ma a patto che non si isoli dalle masse. Con un
rapporto ancora così sfavorevole rispetto al Num, forse sarebbe
stato più saggio accettare l’accordo come una tappa sul suo
cammino. L’Amcu ha già fatto molto riuscendo, con un piccolo
gruppo, a trascinare alla lotta le grandi massi. Ora non deve voler
strafare al di sopra delle sue forze. Rientrare nell’accordo può
significare per l’Amcu continuare a restare incollato alle masse e
continuare a pungolare il Num. Così rischia solo la repressione per
niente. Con una buona tattica e un po’ di diplomazia, tenendo conto
del ricordo che la multinazionale avrà dello sciopero e della paura
che ricominci, non dovrebbe essere molto difficile coi prossimi
accordi migliorare le condizioni abitative e di sicurezza e
raddoppiare nel giro di un paio d’anni la condizione dei minatori.
Il rischio, non avendo l’Amcu firmato, è che il Num non avendo più
la spina nel fianco, passata la burrasca, pian piano si risieda e
addormenti di nuovo la lotta. Senza più l’Amcu tra i piedi, il Num
userà questa lotta per fregiarsi il petto con mille decorazioni,
lasciando che pian piano la situazione si accomodi sulle poltrone dei
burocrati.
È
già successo molte volte che gruppi minoritari abbiano dato il via
ad esplosioni di lotta che sembravano doverli trasformare in gruppi
di massa. Il rifiuto però di determinati compromessi ha ricacciato
indietro queste piccole formazioni e riportato in auge i burocrati.
Il caso più significativo che fa al caso nostro è la stagione di
lotte del 1968-69. Cominciate grazie alla spinte dei primi Cub furono
portate al successo dalle burocrazie sindacali che nel frattempo si
erano spostate a sinistra ed erano venute parzialmente incontro alle
richieste dei lavoratori. Vedendo il ruolo comunque frenante delle
burocrazie, Lotta Continua e altri gruppuscoli dell’estrema
sinistra finirono col giudicare come bidoni il contratto del 1969 e
lo Statuto dei Lavoratori conquistato nel 1970. In questo modo
si consumò di fatto la rottura tra loro e la base operaia che vide
quelle conquiste come vittorie assolutamente importanti. La
burocrazia poté così recuperare consensi e riprendere in mano la
situazione. Indubbiamente, nello Statuto dei Lavoratori c’è
anche la presenza riformista di chi usa determinati diritti per
ingabbiare le lotte. Un esempio tipico è l’articolo 19 e la
costituzione delle RSA nominate dalle burocrazie e non elette
democraticamente dai lavoratori. Ma una conquista pura non esiste e
chi l’aspetta per firmare un accordo è destinato a non firmare mai
niente. Quello che conta nello Statuto dei Lavoratori come in ogni
altra conquista è se la parte buona superi di gran lunga la parte
non buona. Ed è indubbio che in quelle conquiste la parte
progressista schiacci di gran lunga la parte reazionaria, come è
altrettanto indubbio che il contratto del 1969 fu il miglior
contratto dal dopoguerra a oggi. Portò a casa il quadruplo del
precedente contratto e la riduzione dell’orario con l’eliminazione
progressiva del sabato. Un po’ come se oggi Fiom-Fim-Uilm,
portassero a casa 400 euro d’aumento e le 35 ore entro il 2016.
Quale lavoratore boccerebbe un tale accordo dopo le 100 miserabili
euro regalate per l’ultimo triennio dal contratto separato di Fim e
Uilm?
L’Amcu
condivide con le Cub sessantottine alcune sue concezioni di fondo che
sono anche i suoi limiti. Il Num affiliato al Cosatu è legato
all’African National Congress (ANC), il partito di Mandela e di
Governo ormai marcio fino al midollo capitalistico. Anche il Partito
Comunista (Sacp) ovvero stalinista è legato al Num e, come da
tradizione stalinista, all’appoggio dell’ANC. Non stupisce quindi
che il Sacp abbia subito accusato di teppismo la radicalità
dell’Amcu. Sono queste vergogne del movimento operaio ad aver
portato forse l’Amcu a dichiararsi apolitico e non comunista, cioè
a farne un sindacato anarchicheggiante. Ma anche se forse non è
colpa sua, ma più dello schifo che gli sta accanto, l’Amcu con il
suo anarchismo di fondo ha la tendenza a chiudersi a riccio in sé
stesso. Ed è per questo in fondo che l’Amcu non ha firmato, perché
lo spirito anarchico vede meno i rapporti di forza e più le
questioni di principio. E le questioni di principio segnano quasi
sempre l’inizio della fine per chi ne abusa. La fine dell’Amcu
per ora comunque è solo un’ipotesi e non è affatto detto che pian
piano questo sindacato non riesca a correggere i suoi errori o trovi
la forza per rovesciare questo pronostico. Il futuro delle lotte in
Sudafrica giudicherà la scelta dell’Amcu. Vedremo se sarà stata
giusta o affrettata dall’estremismo. Per ora pur lodando
l’abnegazione dell’Amcu, senza la quale probabilmente i minatori
africani non si sarebbero neanche mossi, chi scrive festeggia la loro
vittoria che certamente si farà sentire in tutto il mondo e nel
continente africano in particolare.
Nota – Per
un quadro più preciso della lotta, si veda quest’articolo della
compagna Sonia Previato: Il
Sudafrica esplode.
Stazione
dei Celti
21
Settembre 2012
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