di Riccardo Achilli
E'
oramai evidente, e non soltanto per i cablogrammi diplomatici resi pubblici di
Wikileaks, che in qualche modo gli USA, e a rimorchio i sub imperialismi
europei, abbiano avuto un ruolo attivo nel portare al successo la Primavera
Araba, di fatto liquidando quei regimi laicisti che, sino a quel momento,
avevano rappresentato il baluardo dell'Occidente nel mondo arabo, tenendo a
freno l'islamismo politico, e non solo quello estremista, ma anche quello
dialogante rappresentato dalla Fratellanza Musulmana, che non a caso è stato
scelto, dagli USA, come pilastro per sostituire i regimi laicisti, in Paesi
strategici, come l'Egitto, la Tunisia (Ennahda, il partito al potere in
Tunisia, è infatti affiliato alla Fratellanza Musulmana) o la Siria. Il modello
è quello dell'islamismo moderato della Turchia di Erdogan, aperto agli
investimenti occidentali, incardinato dentro gli schemi formali della
democrazia liberale, e stabile alleato militare dell'Occidente stesso. Io
stesso, un paio di mesi fa, ho assistito al discorso fatto da un imam,
dirigente di Ennahda, tutto teso a promuovere l'affidabilità del nuovo Governo
tunisino rispetto agli interessi economici europei.
Evidentemente,
gli USA hanno scelto la strada di allearsi con la componente dell'opposizione
più affidabile rispetto ai loro interessi, aiutandola a prendere il potere,
consapevoli della perdita di sostegno popolare da parte dei regimi laicisti,
corrotti, nepotistici, giudicati incapaci, da parte delle popolazioni, di
difendere l'Islam dall'imperialismo occidentale, e spesso responsabili di veri
e propri processi di impoverimento del proletariato nazionale, per via di
un'adesione acritica alle politiche neoliberiste del FMI e della Banca
Mondiale, anche quando, come nel caso tunisino, tali regimi erano eredi di una
tradizione socialista, come quella del Destour. Io stesso, che frequentai per
lavoro la Tunisia nel 2008, cioè un paio di anni prima della rivolta, respirai
un'atmosfera di chiara disaffezione popolare verso Ben Alì, anche da parte di
funzionari della stessa pubblica amministrazione controllata dal RCD. In
sostanza, la politica statunitense ha seguito la linea del minor danno:
consapevole che i regimi laicisti erano oramai giganti con i piedi di argilla,
ne hanno favorito la dissoluzione, promuovendo un rapporto di alleanza con i
Fratelli Musulmani, considerati in grado di ricostruire un rapporto positivo
con le opinioni pubbliche nazionali, e di tutelare gli interessi economici imperialistici,
evitando che il malcontento popolare fosse canalizzato dal salafismo più
radicale ed antioccidentale. Ciò peraltro consente di ricostruire un percorso
di dialogo con Israele, nella misura in cui Hamas, costola della Fratellanza
Musulmana, ha di fatto inaugurato una linea di moderazione e negoziato.
La
Fratellanza Musulmana ha infatti una tradizione di dialogo con la società laica
che rende caricaturale etichettarla come movimento islamista radicale. Nel
1942, il fondatore della Fratellanza Musulmana, Hasan Al-Banna, appoggiò
pubblicamente il programma del Wafd, partito liberale, interconfessionale e
laicista, così come si oppose alle versioni più radicali del sufismo.
Da
questo punto di vista, quindi, le prime mosse di politica estera del neo-presidente
egiziano Morsi sono interessanti, perché riflettono, certo, la volontà
dell'Egitto di riappropriarsi di un suo ruolo egemone nel fronte sunnita del
mondo arabo, contenendo quindi il wahabismo di origine saudita (peraltro,
l'opposizione al wahabismo è tradizionalmente radicata nel sunnismo egiziano,
che ha nella scuola di Al-Azahar il suo epicentro dottrinale, su temi come ad
esempio i rapporti fra musulmani e non musulmani). Ma tali mosse riflettono
anche e soprattutto gli interessi occidentali, ed in particolare degli USA. La
conferenza dei Paesi non allineati dello scorso agosto, benedetta da Ban Ki
Moon (e quindi anche dalla diplomazia USA) ha prodotto alcuni interessanti
risultati. Per la prima volta dal 1979, un presidente egiziano ha accettato di
viaggiare a Teheran, un innegabile riavvicinamento fra i due Paesi,
tradizionalmente ostili perché considerati i bastioni delle due concezioni
contrapposte dell'Islam (sunnismo e sciismo) e perché schierati su fronti
geopolitici opposti.
In
tale occasione, Morsi ha duramente criticato il regime siriano, con argomenti
del tutto analoghi a quelli usati dall'Occidente, ed ha auspicato una
transizione di Governo a Damasco, suscitando lo sdegno dei delegati siriani,
usciti dalla sala mentre il presidente egiziano parlava, ma anche forte
imbarazzo fra i vertici iraniani, tradizionali alleati di Assad.
Tuttavia,
la mossa di Mordi, ovvero la costituzione di un gruppo di contatto con la
missione di cercare una soluzione negoziale alla guerra civile siriana, includendovi
anche l'Iran, oltre che l'Arabia Saudita e la Turchia, appare denso di
significati, non del tutto chiari ad oggi. La mossa del filo-occidentale Morsi
sembra una mano tesa all'establishment iraniano, in una fase in cui la
diplomazia USA sta tessendo una tela per isolare l'Iran dal resto del mondo. Il
messaggio all'Iran, che non può che essere concertato con Washington, è più o
meno il seguente: “se voi accettate di dare una svolta moderata alla vostra
politica estera, tagliando i legami con il regime alawita di Damasco (e quindi,
implicitamente, con Hezbollah, poiché gli aiuti iraniani ad Hezbollah
transitano attraverso la Siria, ed Assad concede ufficialmente accoglienza a
tale movimento nel territorio siriano) noi possiamo restituirvi un ruolo di
protagonismo nello scenario mediorientale, abbandonando la politica
dell'isolamento, ed i propositi di aggressione militare occidentale”.
Tale
mossa significa due cose, una apparente ed un'altra più sostanziale: in primo
luogo, ed in apparenza, l'accettazione iraniana di partecipare al gruppo di
contatto messo su da Morsi indebolirebbe, sia pur formalmente ed in linea
teorica, Assad, isolandolo dal suo principale alleato, che di fatto entrando
nel gruppo di contatto accetterebbe, sempre in teoria, l'obiettivo di favorire
una qualche forma di transizione di Governo a Damasco. Ma questo indebolimento
è puramente apparente. Anche il Ministro degli Esteri russo Lavrov, il
principale alleato di Assad, accetta formalmente il concetto di una transizione
negoziata di Governo. Però di fatto condiziona tale percorso ad una procedura
che cancelli le sanzioni economiche in vigore nei confronti della Siria e che
sia basata su risoluzioni non punitive nei confronti del Governo siriano. La
Cina, anch'essa, auspica una soluzione negoziale di transizione, ma “nel
rispetto delle specificità nazionali”, e invocando “tutte le parti in causa”, e
non solo il Governo baathista, a cessare le violenze e gli omicidi, una
dichiarazione di tenore molto diverso da quella fatta da Morsi a Teheran, che
incolpa il solo Governo di Assad delle violenze politiche in atto.
In
realtà, e questo è il significato sostanziale e non formale della mossa di
Morsi, la storica visita di quest'ultimo a Teheran e l'inclusione dell'Iran nel
gruppo di contatto sono delle vere e proprie dichiarazioni di debolezza da
parte degli USA e della NATO. Non potendo spezzare il blocco
russo-sino-iraniano, e non potendo quindi intervenire militarmente in Siria con
una operazione analoga a quella fatta in Libia (a meno di non innescare una
escalation pericolosissima, e potenzialmente ingestibile, che potrebbe portare
ad uno scenario da incubo: un confronto militare diretto fra NATO, Russia e
Cina) e non potendo isolare del tutto l'Iran, come necessaria premessa per una
successiva aggressione a quest'ultimo Paese, l'Occidente, tramite il suo
alleato egiziano, porge all'Iran una richiesta di collaborazione. Che lo stesso
Iran è felicissimo di accettare, sia perché lo fa uscire dall'isolamento in cui
si trovava, sia perché il ripristino di normali rapporti politico-diplomatici è
essenziale per un Paese che vive di esportazioni petrolifere e la cui
infrastruttura estrattiva e logistica, peraltro, è obsoleta, non gli consente
di sfruttare appieno le risorse energetiche di cui dispone, e richiederebbe
ingenti investimenti, anche di fonte occidentale, per il suo potenziamento e
rinnovo.
Ma
l'Iran sa benissimo che, partecipando al gruppo di contatto, non infligge alcun
danno al suo alleato di Damasco, perché lo stesso gruppo è delegittimato
dai“ribelli” siriani, per cui non avrà alcuna possibilità pratica di incidere.
Lo stesso Brahimi, il diplomatico algerino che ha sostituito Annan come
negoziatore, parla esplicitamente di una missione disperata. D'altra parte, la
posizione di Russia e Cina, favorevoli ad una transizione, però senza alcun
meccanismo di pressione, consente ad Assad di continuare a rafforzare le aree
del Paese che presidia. In tutta questa situazione, la NATO e gli USA si
trovano in un cul de sac, dal quale possono uscire soltanto con un intervento
militare diretto, sul campo, che ad oggi non sono nelle condizioni di lanciare,
e con il quale, comunque, difficilmente potrebbero prendere il controllo
completo del Paese, stante l'appoggio di una componente non trascurabile della
popolazione ad Assad, ed anche la forza militare, non proprio trascurabile,
delle sue forze terrestri.
La
posta in gioco in tale partita che coinvolge la Siria è enorme. L'Occidente si
gioca la stessa possibilità di continuare ad influenzare gli eventi nello
scenario mediorientale e più in generale nel mondo musulmano, perché è evidente
che un fallimento della “rivolta” siriana comporterebbe, a catena, il
fallimento di tutta l'architettura costruita tramite la Primavera Araba,
mettendo in crisi i Governi islamici sunniti alleati degli USA, e
disarticolando il network della Fratellanza Musulmana, che proprio a Damasco ha
uno snodo fondamentale. L'Iran, supportato da Russia e Cina, si gioca la
possibilità di divenire una potenza regionale, il che avrebbe immediate
ripercussioni anche in Irak, rilanciando progetti di annessione del sud sciita
a Teheran, e consoliderebbe le ambizioni, ugualmente imperialiste, di Mosca e
Pechino sull'intera regione. La redistribuzione del potere imperialistico in
Medio Oriente a favore di Cina e Russia e dei loro satelliti sciiti (Iran,
Siria) ovviamente si incrocerebbe con la partita delle forniture di petrolio e
gas naturale all'agonizzante apparato industriale europeo e statunitense,
implicando una redistribuzione globale della ricchezza radicalmente diversa da
quella attuale, con il rischio di un nuovo shock petrolifero che darebbe il
colpo di grazia all'economia dell'Occidente, già provata da una crisi
straordinaria.
La
stessa strategia israelo-statunitense sarebbe gravemente danneggiata
dall'incapacità di liberarsi di Assad e dal rafforzamento dell'Iran come
potenza regionale sciita. Il conseguente indebolimento degli alleati
filo-occidentali della Fratellanza Musulmana porrebbe fine al tentativo di
portare il fronte palestinese su posizioni più negoziali e morbide, esporrebbe
Israele ad una recrudescenza degli attacchi di Hezbollah dal Libano
meridionale, mentre creerebbe nuove preoccupazioni rispetto alla tenuta degli
accordi di Camp David e della sicurezza del confine con l'Egitto, di cui Morsi
si è fatto recentemente garante, anche attaccando militarmente i gruppi
estremistici che operano nel Sinai contro obiettivi israeliani. Il tutto in un
momento in cui l'economia israeliana è in rallentamento (la crescita del 2012 è
la metà del 2011) e gli effetti delle misure fiscali prese dal Governo di
destra di Netanyahu, associate all'aumento dei prezzi, stanno falcidiando il
tenore di vita dei ceti medi. Costringendo il governo, in caduta libera di
consensi, ad un'azione diversiva, ovvero l'aggressione militare contro l'Iran,
simile a ciò che fece, in una analoga situazione, la Thatcher nel 1983 con le
Falklands. Ma ovviamente in un eventuale quadro, indotto dalla sopravvivenza di
Assad a Damasco, di indebolimento dei Fratelli Musulmani e di Hamas, di
conseguente crescente tensione ai confini libanesi ed egiziani, di
radicalizzazione della controparte palestinese, di rafforzamento politico
dell'Iran, tale azione diversiva sarebbe impossibile. E la tenuta del blocco di
potere politico/militare/affaristico/religioso che da sempre governa Israele
sarebbe messa in serio pericolo dalla recrudescenza del conflitto sociale
indotto dagli effetti del rallentamento economico e dell'aumento delle
diseguaglianze distributive.
Nessun commento:
Posta un commento