di Carlo Felici
La lettera del Presidente Napolitano inviata ieri a Repubblica ci consente alcune
riflessioni nel merito dei suoi contenuti e della loro aderenza a
determinati principi ai quali si fa riferimento.
Prima
osservazione, Napolitano scrive: “Particolarmente acuta è oggi per le
forze riformiste l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano
delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti
ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e
valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete
conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di
sistemi di Welfare State in Italia e in Europa. Ebbene, per
comprendere e affrontare le sfide di un’economia di mercato
globalizzata, rimuovendo incrostazioni corporative e assistenzialistiche
rimaste ancora pesanti nel nostro paese, la lezione di Luigi Einaudi
può suggerire riflessioni e stimoli fecondi. Ci si può, naturalmente,
chiedere innanzitutto come e perché quel filone di pensiero liberale
abbia incontrato sordità e suscitato contrapposizioni nell’area del
riformismo e, più concretamente, nella sinistra legata al mondo del
lavoro, quando prese corpo, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni
Cinquanta, una nuova dialettica politica democratica nell’Italia
repubblicana. In effetti, i termini di quella dialettica furono
drasticamente segnati da una conflittualità ideologica che discendeva in
larga misura dal contesto internazionale presto precipitato nella
guerra fredda.”
Tralasciando di considerare cosa dicesse
in quegli stessi anni lo stesso Napolitano che prese le difese
dell'URSS quando invadeva l'Ungheria, perché poi, in effetti, lui
stesso se ne è pentito amaramente, (un fatto che comunque ci dà una
certa idea della “sordità”) la questione effettiva è: davvero quel
filone di pensiero nacque con intenti minimamente paragonabili a quelli
che oggi Napolitano mette in risalto? Per cioè perseguire nuovi
equilibri economici e sociali che avessero come finalità l'essere
“maggiormente competitivi”? Per “rimuovere incrostazioni corporative e
assistenzialistiche”, magari addebitabili sempre e comunque all'
“impaccio sindacale”?
Cosa diceva Einaudi dei sindacati, ad
esempio? Ebbene, i sindacati «non contraddicono lo schema della
concorrenza, ma sono uno strumento perfezionato della piena più
perfetta attuazione di quello schema» ( Einaudi: Liberismo e Comunismo,
in “Nuovi Argomenti” – 1941)
Il liberismo einaudiano (ma
sarebbe più appropriato parlare di liberalismo) consiste in un “metodo
di libertà», che «riconosce sin dal principio il potere di versare
nell’errore” questo vuol dire che «la libertà vive perché vuole la
discussione fra la libertà e l’errore; sa che, solo attraverso
l’errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla
verità. (…) Trial and error; possibilità di tentare e di sbagliare;
libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi
liberi».
Si può minimamente considerare di confrontare ciò con
la pratica dell'adeguamento alle regole dei mercati ai quali non si
riconosce alcuna possibilità di errore? Verso i quali nessuna regola
“correttiva” si pone in vigore, in ambito nazionale ed internazionale?
E
se i mercati agiscono secondo logiche monopolistiche e speculative,
ci dobbiamo mettere necessariamente, come rileva Napolitano, nella
situazione di adattarci ai “condizionamenti ineludibili della
competizione in un mondo radicalmente cambiato”? Cambiato in base a
cosa? Certamente in base al fatto che l'oligopolio capitalista, oggi,
rispetto ai tempi di Einaudi, è molto più forte ed aggressivo e
sicuramente più distruttivo in termini di impatto ambientale e di
guerre ai danni di popoli poveri e destinati ad un ruolo sempre più
marginale.
Einaudi era molto determinato nel contrastare tale
monopolismo, anzi, potremmo dire che questo era uno dei presupposti
cardine del suo pensiero. E proprio per spezzare tale eventualità sul
nascere, Einaudi metteva in risalto la necessità che lo Stato si dovesse
impegnare per rimuovere gli impedimenti politici, quindi le leggi,
che minano il funzionamento della libera concorrenza e competizione;
diventerebbe quindi necessario, per un pieno sviluppo in senso
liberale della società, combattere «le forze economiche e politiche,
le quali, se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di
quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne l’abrogazione».
Possiamo
dire, parlando dei governi nazionali (anche quelli del
centrosinistra), e considerando le loro politiche nel merito della
possibilità di favorire la libera concorrenza e contrastare quel
conflitto di interessi che è la base fondante di ogni politica
monopolistica, che tale principio sia stato applicato? Persino parlando
dell'ultimo governo di Monti e dell'asta sulle frequenze, la risposta
appare lapalissiana, e Napolitano se non considera tale incongruenza,
rischia di essere assai presbite, di guardare bene assai lontano
soprattutto nel tempo, ma di non poter affatto leggere il presente, il
suo così come il nostro. Ed il presente che è sotto i nostri occhi è
rappresentato dal tragico destino in cui si trova il nostro Paese che
vede imprenditori e operai accomunati nel "suicidio di classe" perché
sono ridotti a "niente" dalla implacabile legge dettata dagli oligopoli,
in particolare da quelli commerciali, la quale li costringe alla
impossibilità di competere, alla marginalizzazione e alla perdita del
lavoro e della loro identità.
Ciò vale soprattutto in campo
internazionale, in cui i colossi finanziari e bancari ormai la fanno da
padroni, con le loro straripanti mire speculative e monopoliste su
ogni elementare criterio di libera concorrenza, e senza che alcuna
politica efficacemente transnazionale possa porre loro seriamente dei
limiti, determinando così dei veri e propri fenomeni sismici altamente
distruttivi nei confronti delle economie locali e di ogni loro singola
iniziativa imprenditoriale.
Napolitano conclude la sua lettera
con le seguenti osservazioni che, a ben guardare, sembrano quasi una
sponda per le recenti posizioni della segreteria del PSI: “Il recupero
di simili approcci e contributi di pensiero ai fini di una revisione,
di un adeguamento al nuovo contesto generale, della piattaforma
programmatica e di governo delle forze riformiste, non può apparire né
improprio né arduo: se è vero che, come è stato osservato, la
fecondità della ricerca del liberale Einaudi resta testimoniata dalla
varia collocazione di uomini usciti dalla sua scuola, tra i quali
eminenti liberalsocialisti e socialisti liberali.”
Ma siamo
veramente sicuri che Napolitano e l'attuale segretario del PSI
interpretino correttamente la lezione del libralsocialismo su cui
vorrebbero impostare una nuova politica di rapporti nell'ambito del
riformismo e del centrosinistra?
Leo Valiani ci spiega che,
rispetto ai seguaci del Socialismo Liberale di Rosselli, nato e
cresciuto nel solco del socialismo salveminiano e con presupposti
rivoluzionari antifascisti, “I liberalsocialisti italiani
appartenevano invece alla generazione cresciuta dopo la soppressione in
Italia dei partiti socialisti. Essa non li conosceva che assai
vagamente e non ne conosceva molto di più neppure la dottrina. Era
tuttavia convinta che gli uni e l'altra fossero superati.
Questo
le veniva detto sia dalla cultura politica fascista o fascistizzata,
sia dalla cultura liberale che, con gli scritti di Benedetto Croce, ma
anche con quelli di Adolfo Omodeo - il maggior collaboratore, e poi
quasi il solo, in quel periodo di Croce - e di Guido De Ruggiero, o di
Luigi Einaudi, continuava invece ad operare legalmente, malgrado il
suo antifascismo, in Italia.”
Eppure anche il liberalsocialismo
elaborò un manifesto perfettamente in linea con quelle che, da sempre,
sono state le istanze del socialismo internazionalista, specialmente
considerando l'ambito economico e sociale.
Basta solo leggere i
paragrafi 7-8-9 per rendersi conto di quanta e quale distanza ci sia
tra quelle tesi e la cosiddetta politica “riformista” di stampo
blairiano che la lettera di Napolitano sembra voler rievocare per
l'ennesima volta in Italia come elemento fondante di un necessario
riformismo, dopo per altro essere stata ripudiata nei suoi stessi paesi
di origine. Eccoli:
7. Una delle prime mete di tali riforme
sociali dev'essere il raggiungimento della massima proporzionalità
possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si
dispone. Questa non è che una prima tappa sulla via del socialismo (ed
è già superata, tutte le volte che con la ricchezza comune si
soccorrono i deboli e gl'infermi, incapaci di lavorare). Comunque, è
quella che si deve intanto cercar di percorrere. Di qui la
fondamentale istanza anticapitalistica, che il liberalsocialismo fa
propria: bisogna portare sempre più oltre la battaglia contro il
godimento sedentario dell'accumulato e dell'ereditato.
8. I
mezzi tecnici e giuridici atti a realizzare progressivamente questo
intento dovranno essere commisurati, caso per caso, alle possibilità
della situazione. Quanto più i contadini, gli operai, i tecnici, i
dirigenti saranno capaci di agire come imprenditori e amministratori,
tanto meno dovrà esistere la figura del proprietario puro. Quanto più
si svilupperà lo spirito della solidarietà e dell'uguaglianza, tanto
più sarà possibile ravvicinare le distanze fra i compensi delle varie
forme di lavoro, senza inaridire il gusto dell'operosità e
l'iniziativa creatrice. Di qui la fondamentale importanza
dell'educazione delle persone, e quindi, tra l'altro, del problema
della scuola.
9. Sul piano internazionale, il liberalsocialismo
difende gli stessi principi di libertà e di giustizia per tutti.
Niente nazionalismo, niente razzismo, niente imperialismo: niente
distinzione di principio fra politica ed etica. Le assise fondamentali
della civiltà debbono essere le stesse tra gli uomini e tra le
nazioni: il dovere dell'onestà ed il riconoscimento che l'altrui
diritto, non è soltanto una faccenda privata. Di conseguenza: difesa
di ogni organismo che possa favorire la realizzazione di questi
principi nel mondo; internazionalizzazione, almeno dal punto di vista
economico.
Abbiamo forse inteso mai parlare di “istanze
anticapitalistiche” da Napolitano o dall'attuale segretario del PSI?
Di politiche compartecipative dei lavoratori alla gestione delle
imprese, di cooperativismo, o di partecipazioni statali?
Quanti e quali tagli alla scuola sono stati contrastati dai governi di centrodestra e di centrosinistra?
Sul
piano internazionale abbiamo forse notato Napolitano impegnarsi
fortemente per contrastare quel subdolo imperialismo che ha originato
guerre sempre più distruttive verso popolazioni inermi e che,
mascherandosi da alfiere della democrazia, ha spianato a suon di bombe
proprio quelle infrastrutture sociali ed economiche senza le quali la
stessa democrazia è solo una parola vuota e priva di significato?
Se
è vero che “il dovere dell'onestà ed il riconoscimento che l'altrui
diritto, non è soltanto una faccenda privata” ma che riguarda da vicino
i rapporti tra gli organismi internazionali e gli Stati, siamo
davvero sicuri di essere stati “onesti” e di avere “riconosciuto” i
diritti delle popolazioni più povere aggredite e massacrate durante le
perduranti guerre di questo inizio di secolo, a non moltissimi
chilometri da noi..dal Kosovo, all'Iraq, all'Afghanistan..alla Libia?
Allora, caro Presidente Napolitano, di cosa stiamo parlando?
Di quale “liberalsocialismo” vogliamo essere autentici interpreti?
Vogliamo
forse coniare un'altra “moneta” liberalsocialista buona per tutte le
stagioni e per tutte le occasioni, magari anche quelle di
“riciclaggio” economico e politico, sostituendola a quella originaria?
Non c'è il rischio anche in questo caso di sprofondare in un debito
incolmabile di cultura?
O forse quello più realistico di
mettere in circolo solo una moneta falsa non spendibile, da nessuna
parte? Capisco che tutte queste rischiano di essere domande retoriche,
ma considerando il senso stesso della responsabilità (dal latino
responsum) tanto evocato in questi giorni di crisi, che cosa è essa
stessa, a ben guardare, se non proprio la capacità di dare risposte
credibili alle domande poste, in questo caso dalla nostra contingenza
storica, sociale e politica?
Quest'anno crediamo che il
miglior discorso possibile da fare a tanti italiani lobotomizzati dalla
TV sarebbe facilmente condensabile in sole tre parole: “studiare,
capire, agire”, soprattutto per non farsi “dare a bere” frottole su
questioni cruciali, per non confondere l'ombra dei valori con il loro
autentico significato.
Stasera (ma non solo) dunque, spegniamo la TV e accendiamo la mente.
C.F.
BUON ANNO A TUTTI DI FELICE CONSAPEVOLEZZA E DI CORAGGIOSO IMPEGNO.
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