Qual è l'attuale operatività delle FARC
La recente uccisione di Alfonso Cano, probabilmente il leader più dialogante e politico che le FARC abbiano avuto negli ultimi anni, può indurre qualche riflessione più lontana dagli effetti emotivi inevitabilmente generati dalla sua morte. Ringrazio i compagni del Cdr del blog per i loro preziosi suggerimenti.
La prima considerazione riguarda la forza effettiva delle FARC. Spiace dover deludere chi, abboccando alle sciocchezze della stampa borghese, crede che le FARC siano oramai definitivamente istradate verso un cammino di disfatta definitiva. Certo, i vertici storici del segretariato sono stati decimati negli ultimi anni, si sono verificate molte defezioni negli strati inferiori dei militanti, il Venezuela di Chávez ha ritirato il suo appoggio al movimento, privandolo di una fondamentale retrovia logistica, per la rotazione delle truppe ed addestrativa, e si riscontra una maggiore capacità di penetrazione nelle aree controllate dalle FARC, da parte di un Esercito governativo supportato dall'alta tecnologia statunitense (come dimostrano gli episodi di liberazione di ostaggi, che sembrano intensificarsi, negli ultimi tempi; nel 2010-2011 risultano infatti liberati dalle forze di sicurezza colombiane 5 ostaggi, altri 15, fra i quali la Betancourt, nel 2008-2009, senza contare quelli che sono stati liberati spontaneamente dalle FARC, soprattutto, negli ultimi tempi, per dimostrare la volontà di negoziare un accordo di pace con il Governo, vero e proprio pilastro della politica di Alfonso Cano).
Però il movimento conserva intatta la sua capacità organizzativa (Alfonso Cano è stato immediatamente, e senza contrasti interni, sostituito dal 52-enne comandante dell'intelligence, Rodrigo Londoño, soprannominato “Timoshenko”,
mentre il defunto Mono Jojoy è stato immediatamente sostituito da Felix Muñoz, alias “Pastor Alape, il tutto con una velocità tale da lasciar supporre che gli avvicendamenti al timone del segretariato siano decisi con molto tempo di anticipo, per evitare problemi organizzativi in caso di morte di uno dei componenti). Tra l'altro, il movimento si sta recentemente organizzando in modo più efficace, per resistere alla crescente pressione militare delle forze governative. Da un lato, la sua ancor consistente forza militare, di circa 9.000 componenti (secondo le cifre del Governo) o 18.000 (secondo le dichiarazioni del segretariato delle FARC), è stata riorganizzata in gruppi più piccoli e dotati di maggiore autonomia operativa, in modo da condurre le azioni di guerriglia in modo più efficace, ed occultarsi meglio rispetto al nemico. D'altro canto, le FARC hanno affiancato ai reparti combattenti veri e propri una milizia, in abiti civili, per ulteriori 9.000 persone, con compiti logistici, di intelligence, di genio (in particolare, sono spesso usati per stendere i campi minati) di raccordo con la popolazione civile, e soprattutto di promozione e comunicazione politica. Grazie a tali milizie, dedicate ad attività di indottrinamento politico, secondo un giornale tutt'altro che amichevole con le FARC, ovvero La Patria, il movimento conserva un forte radicamento sociale in aree anche a forte popolamento, come il Tolima meridionale. Le stesse fonti dell'Esercito, sempre secondo La Patria, narrano di reparti governativi attaccati direttamente dalle case dei civili, nei villaggi della zona del Cauca, dove le popolazioni indigene, inizialmente ostili alla guerriglia, ne sono divenute alleate, a seguito della brutalità dei metodi usati dall'Esercito, e del lavoro politico svolto dalle FARC stesse.
Di fatto, le FARC controllano ancora circa un terzo del territorio nazionale, e si stanno anche affacciando nei contesti urbani, dai quali tradizionalmente erano lontane. E se sussistesse ancora qualche dubbio circa le loro capacità operative, basterebbe citare il Congresso colombiano, secondo il quale, nel primo semestre del 2011, con 1.115 attacchi contro l'Esercito e la polizia, che hanno causato la morte di 167 militari, le FARC hanno incrementato la loro attività militare del 10% rispetto al medesimo semestre del 2010.
Il fallimento del tentativo rivoluzionario con una logica guerrigliera
Sgombrato il campo da un'immagine di agonia che non corrisponde affatto alla situazione attuale delle FARC, e che viene propalata dalla stampa borghese per evidenti motivi strumentali, occorre però chiedersi come mai, dopo 48 anni di lotta armata, le FARC non siano ancora riuscite a innescare un processo rivoluzionario più ampio, e la Colombia rimanga, in un panorama latino americano che si sposta sempre più verso governi nazional-riformisti, il Paese più legato all'imperialismo statunitense, come sospeso negli anni Settanta. Una risposta a tale domanda non può rinvenirsi esclusivamente in motivazioni di carattere militare, ovvero nella capacità di contenimento operata da forze di sicurezza pesantemente equipaggiate ed assistite dagli USA, e dai gruppi paramilitari di estrema destra legati agli ambienti della borghesia compradora colombiana.
Certo, moltissimi gravi errori, e veri e propri crimini, hanno compromesso gravemente i rapporti fra FARC e proletariato colombiano, come ad esempio la pratica diffusa di utilizzare minorenni per combattere, come ammesso anche da Simón Trinidad, l'ex-portavoce delle FARC, quando dichiarò a Leech, nel 2009, che “nei nostri statuti abbiamo deciso che possiamo reclutare dai 15 anni in su.” E la giustificazione addotta da Trinidad, secondo cui il capitalismo colombiano utilizza i minorenni per prostituirsi, per lavorare nelle miniere o nei campi di coca, non appare affatto convincente per un rivoluzionario. La responsabilità di un rivoluzionario è infatti quella di mostrare una strada diversa rispetto al capitalismo, non di riprodurre meccanismi di sfruttamento tipici del capitalismo stesso. Non ci si può macchiare le mani con gli stessi crimini. Così come le diffuse pratiche di coercizione sulla popolazione dei villaggi sotto il controllo delle FARC, i reclutamenti forzosi ed altre pratiche, non possono essere certo accettabili per un movimento rivoluzionario, e non sono giustificabili con le esigenze della guerra, atteso che la necessità politica di proteggere gli oppressi, di mostrare una strada alternativa all'alienazione di un sistema sotto tutela imperialistica, dovrebbe essere prioritaria per un movimento rivoluzionario. E tali pratiche non possono non aver creato un fossato con le popolazioni che le FARC affermano di voler difendere.
Ma il problema che spiega il mancato trionfo della rivoluzione in Colombia è forse un altro, ed è più profondo. La mancata vittoria rivoluzionaria delle FARC non può spiegarsi solo con i fattori di cui sopra, atteso che, quando il Che visitò il Paese nel 1952, scrisse che “la situazione qui è molto tesa, e sembra che una rivoluzione stia per esplodere. Le campagne sono in rivolta aperta, e l'Esercito è impotente nel reprimerla”. Cosa non ha funzionato nell'indurre una rivoluzione, stante questo clima che, a giudizio di Guevara, possedeva tutti i requisiti per portare ad un simile esito?
Le FARC, di fatto, affermano di voler inseguire una rivoluzione marxista/leninista. Tuttavia, la mistica militare, associata ad una minore importanza assegnata al rapporto dialettico e politico con la classe oppressa, allontana tale formazione dal leninismo, riproducendo gli stessi errori classici di tutti i movimenti guerriglieri latino americani (e che si rinvengono anche, ad esempio, nei motivi della sconfitta del tentativo rivoluzionario dei tupamaros, cfr. il mio articolo sul presente blog che analizza la parabola storica dei tupamaros). L'allontanamento dal leninismo dipende proprio dalla logica della guerriglia allo stato puro, ovvero dall'idea, erronea, che una piccola élite di guerriglieri possa innescare, con la propria attività, una rivoluzione di massa....senza un rapporto costante e politico (non militare) con la massa stessa! In pratica, l'assenza di alcune delle fondamentali condizioni oggettive per una rivoluzione viene sostituita da una mistica del guerrigliero, che non coinvolge le masse. Ma lasciamo parlare Nahuel Moreno, che identificò con esattezza il grande difetto di tale logica guerrigliera, ed il fallimento cui questa conduce. “Guevara, che si dichiarava discepolo di Mao e della sua strategia di “guerra popolare prolungata”,...teorizzò queste false concezioni fino a portarle all'estremo...la semplice installazione di un ridotto gruppo di combattenti in una zona di difficile accesso per l'esercito era già l'inizio di una rivoluzione; questo piccolo gruppo avrebbe conquistato l'appoggio della popolazione locale, estendendo la propria azione fino a convertirsi in un esercito, passando dalla guerriglia alla guerra convenzionale. Nello schema del Che, le condizioni oggettive sono necessarie solo nella misura in cui vi sia una grande miseria delle masse ed un regime politico odiato; il resto sarebbe venuto da solo, come prodotto della volontà ed eroismo combattente di un pugno di lottatori. La disposizione delle masse a combattere non viene presa in considerazione da tale strategia come un fattore oggettivo...Era, in questo senso, chiaramente antileninista, poiché Lenin collocò sempre la mobilitazione rivoluzionaria delle masse come un fattore oggettivo...la guerriglia non educa la classe operaia ad affidarsi alle sue forze e nella mobilitazione dei suoi alleati sotto la sua direzione..non vuole assolutamente l'autorganizzazione democratica degli operai, né della popolazione urbana, né dei contadini, poiché cerca di inquadrarli in una struttura militare chiusa e totalitaria...per tutte queste ragioni, l'organizzazione guerrigliera è nemica mortale di una strategia fondamentale del trotzkismo: la mobilitazione permanente e democraticamente autorganizzata dei lavoratori” (“Tesis Sobre el Guerrillerismo, N. Moreno, E. Greco, A. Franceschi).
Cosa intende dire Moreno? Che nessuna guerriglia di piccoli gruppi può sostituire il lavoro politico, di rapporto costante con le masse, alla luce del sole, di costruzione di una coscienza di classe. Al contrario, come dimostra il caso delle FARC, evitare tale lavoro per rinchiudersi in una guerriglia prolungata ed estremamente sanguinosa non può che provocare una degenerazione dell'etica rivoluzionaria dei combattenti, quindi ogni sorta di soprusi, se non di veri e propri crimini, contro gli oppressi, ed un distacco fra la guerriglia e le masse, che non porta a niente.
Va infine tenuto conto che la Colombia è un Paese a sviluppo capitalista intermedio, soggetto a dominio imperialistico, dove quindi la borghesia nazionale non si è sviluppata a sufficienza, rimanendo una borghesia compradora, e non ha quindi potuto svolgere quel ruolo storicamente rivoluzionario tipico della borghesia nazionale nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico. Il latifondo, le condizioni semi-servili dei contadini in molte zone rurali, l'assenza di una ingente accumulazione originaria di capitale, l'assenza di autonomia della borghesia nazionale, rispetto al controllo imperialistico statunitense, l'enorme estensione dell'economia informale, dove prevalgono rapporti di lavoro cottimistici ed a domicilio tipici delle fasi iniziali del capitalismo, sono elementi di arretratezza nello sviluppo capitalistico del Paese, che ovviamente riducono le possibilità di una rivoluzione marxista vincente. Ovviamente una simile rivoluzione si fece con esito vincente anche in Paesi il cui sviluppo capitalistico era persino più arretrato di quello colombiano attuale, quindi non vi sono regole generali, ma il problema è che quando si fanno rivoluzioni marxiste/leniniste in Paesi capitalisticamente arretrati, il peso del prestigio personale del leader rivoluzionario diventa preponderante. Quando questo carisma leaderistico non c'è (come nel caso delle FARC, che non hanno mai espresso un leader con il carisma personale analogo a quello dei rivoluzionari dianzi citati) l'arretratezza dello sviluppo delle forze produttive finisce per soffocare le prospettive di una rivoluzione vincente. Va anche detto, d'altra parte, che il leaderismo rivoluzionario, indispensabile per portare a termine una rivoluzione socialista in Paesi arretrati, facilita le deviazioni individualistiche e accentratrici del percorso rivoluzionario, come il soffocamento degli esperimenti dal basso di autonomia, il culto della personalità, l'eliminazione del dissenso proletario, la burocratizzazione, in breve nascono i Mao o gli Stalin o, nelle situazioni più fortunate, piccole dinastie familistiche disposte anche a fare operazioni controrivoluzionarie pur di sopravvivere al potere.
Quindi, sembra che una rivoluzione con qualche prospettiva futura favorevole, e che eviti involuzioni leaderistiche pericolose, richieda di potersi innescare in un contesto caratterizzato da un certo grado di sviluppo capitalistico. E la Colombia non è a questo stadio. La situazione potrebbe, alla lunga, andare in direzione di una involuzione simile a quella dei tupamaros uruguagi, che per ammissione dei loro stessi leader storici (come Zabalza o lo stesso Sendic), perderono contatto con il proletariato, isolandosi in una lotta sanguinosa ma disperata, senza via d'uscita. E rendendo più facile il lavoro di distruzione e repressione condotto dai militari e dalla destra borghese filo-USA.
Come uscire fuori dal bagno di sangue promuovendo gli interessi del proletariato
Come si esce da una guerra civile sanguinosa ma che, ancora oggi, dopo 48 anni, non sembra avere prospettive? A parere di chi scrive, oggi diviene prioritario pensare a come porre termine a questo bagno di sangue, il cui tributo è stato pagato da tanti proletari e contadini poveri, cioè dal popolo che le FARC dovrebbero proteggere (e mi piace ricordare anche i tanti soldati di leva dell'Esercito governativo uccisi, mutilati e sequestrati, spesso figli delle classi popolari, il cui unico torto era quello di trovarsi nell'età per il reclutamento obbligatorio). Sicuramente l'idea di una negoziato di pace che porti ad una integrazione delle FARC nel quadro politico borghese non è una soluzione praticabile, né auspicabile. Sarebbe lo stesso percorso dei tupamaros, che si legalizzarono costituendo il MPP ed abbandonando la lotta armata per entrare nell'agone politico della democrazia borghese. Con il risultato che oggi il presidente della Repubblica di quel Paese è un ex guerrigliero tupamaro che fa accordi sindacali al ribasso per attrarre investimenti diretti esteri basati sul basso costo del lavoro, e che fa mille resistenze persino ad aprire un processo politico e giudiziario nei confronti degli esponenti superstiti del regime militare. Che minaccia i giovani tossicodipendenti di confino in campi di addestramento militare, anziché proporre politiche di integrazione sociale e di liberalizzazione del consumo di stupefacenti.
No, la strada non è quella di integrare le FARC nel sistema capitalistico, facendole degenerare verso un riformismo borghese di piccolo cabotaggio. Finché le FARC rimangono armate e mantengono il controllo di ampie aree del territorio, possono negoziare le loro condizioni. Se abbassano le armi per sedersi ad un “tavolo” di trattative si consegnano alla borghesia, entrano nella logica borghese, e si piegano al sistema, degenerando in cambio di un ruolo nell'agone politico, che la borghesia è ben lieta di dare: in fondo, la sinistra radicale pacificata e integrata nel sistema è utile per fungere da “cane da guardia” del proletariato. Nessuno negò a Bertinotti la carica di presidente della Camera e tutti i cocktail party che voleva, quando costui fece capire di non essere più pericoloso per la borghesia.
E d'altra parte il “tavolo” che tanto desiderava Alfonso Cano non ci sarà mai. Uccidendo Cano, Santos ha chiarito una volta per tutte che l'intento della borghesia nazionale e degli USA non è quello di aprire un tavolo di trattative. I motivi di ciò sono diversi: la borghesia nazionale non può dare riconoscimento politico alle FARC, perché cadrebbe l'alibi che consente ai gruppi paramilitari di estrema destra, resisi protagonisti di stragi ben peggiori di quelle delle FARC, di operare liberamente, perché gli interessi economici e militari degli USA in Colombia vanno difesi anche da una ipotesi di FARC pacificate, perché il grosso del narcotraffico non è gestito dalle FARC (che anzi, a differenza di quanto afferma la stampa borghese, non operano nel narcotraffico, ma si limitano solo a prelevare una tassa dai ricchi narcotrafficanti che operano nelle aree sotto il loro controllo), ma da spezzoni della borghesia nazionale, alleati con la criminalità statunitense (Pablo Escobár non era certo un rivoluzionario, ma un businessman della droga ben introdotto negli ambienti politici e militari della destra colombiana). E ovviamente le aree di coltivazione della coca sotto il controllo delle FARC fanno gola a questi affaristi della droga legati alla destra. Quindi non ci sarà mai nessun tavolo, non conviene alla borghesia nazionale e non conviene agli USA.
E allora, se la soluzione fosse un'altra? Anziché cercare il “tavolo” per dialogare con i loro nemici, per poi morire ammazzati, i leader delle FARC potrebbero cercare, come peraltro stanno già iniziando a fare con la tattica, dianzi ricordata, dei miliziani come anello di congiunzione fra FARC e popolazione, di parlare al loro popolo, proponendo un paradigma diverso da quello capitalistico, ma togliendosi le ingombranti lenti del dogmatismo guerrigliero/guevarista. Potrebbero proporre, nelle aree rurali sotto il loro controllo, un esperimento libertario, con forme di autonomia dal basso e di autogoverno, con comunità piccole ed autonome, federate fra loro, dove la proprietà dei mezzi di produzione sia collettiva, e dove applicare principi di decrescita, o di crescita sostenibile ed integrata con il territorio, cercando di realizzare il motto di “mandar obedeciendo”. Senza propositi di dittature di proletariato che nella realtà rurale e precapitalistica delle aree sotto il controllo delle FARC, probabilmente, non fanno presa sull'immaginario degli indigeni. Potrebbero ad esempio proporre una adattamento dell'esperimento libertario condotto da Hugo Blanco in Perù, in cui nelle zone rurali di Convencion e Lares, installò alcuni esperimenti comunitari (ad esempio quello di Chaupimayo, in cui la comunità indigena aveva il suo autogoverno, la sua giustizia popolare ed il suo proprio sistema socio-educativo) o, mutatis mutandis, e tenendo conto delle differenze rilevanti fra le due realtà, proporre un adattamento delle esperienze di autogoverno zapatiste. In tutto ciò, l'attività militare delle FARC dovrebbe essere notevolmente ridotta, e limitarsi ad una mera difesa del territorio sotto il loro controllo dalle incursioni delle forze governative, abbandonando quindi in modo completo gli attentati e gli attacchi.
Se le FARC vogliono lasciare il segno nella storia, è ora per loro di uscire dalla selva, di dialogare con il popolo, con gli indigeni, con i contadini nullatenenti, con i disoccupati e sottoccupati delle città, per proporre loro una cosa semplice: abbandoniamo i dogmatismi ideologici, e costruiamo insieme, in forma partecipata, un modello sociale diverso da quello capitalistico, che sia aderente alle vostre aspettative ed ai vostri desideri, non ad uno schema teorico. Iniziamo a dare l'esempio, evitando di replicare meccanismi di sfruttamento, o vere e proprie violenze, che appartengono al nostro nemico di classe, e noi non dobbiamo replicare. E lasciamo perdere il dialogo con la borghesia, che ci porterebbe solo ad una integrazione, dal lato perdente, in un capitalismo sempre più alle corde. Se il capitalismo in crisi dovrebbe avviarsi, ovunque, verso forme sempre più autoritarie e centralizzate, oltre che populiste, di governo (e ricordiamo che il populismo come forma di governo non tollera il decentramento dei poteri) allora la libertà e l'autogestione dal basso saranno beni sempre più rari, sempre più preziosi e sempre più desiderati dai proletari di domani.
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