di Lorenzo Mortara
Delegato Fiom-Cgil
L’annuncio
dell’abbandono del progetto Fabbrica Italia da parte della
Fiat ha lasciato stupiti solo gli illusi. Non ci voleva molto a
capire che la grandeur del manager italo-canadese Marchionne
si sarebbe schiantata contro la dura realtà. Deridere oggi chi gli è
andato dietro è un po’ come sparare sulla croce rossa e rischia di
far apparire il Fronte del No e del “ve l’avevamo detto”
come il vincitore della contesa, quando in realtà la battaglia,
nonostante l’arresto o meglio la riformulazione del progetto,
pende ancora tutta a favore dell’uomo col maglioncino. Infatti, chi
ha detto Sì al progetto, dai sindacati gialli ai politici alla
Renzi, non l’ha fatto certo perché abbia creduto nell’idea, ma
solo per fedeltà ai padroni a cui si è sempre offerto come umile
servitore. È inutile quindi sperare in un loro ravvedimento. Il
Capitale passerà da un progetto all’altro, avendoli sempre al
guinzaglio come docili cagnolini. Dal loro punto di vista di
leccapiedi, dunque, l’appoggio a Marchionne non è stato un errore,
ma una scelta precisa di campo. Misurare invece Fabbrica Italia in
base alla propaganda fattane da Marchionne è l’errore continuo del
campo avverso, Fiom in testa. L’errore è duplice, primo
perché impedisce di affrontare il nocciolo del problema che affligge
i lavoratori, secondo perché in fondo legittima il progetto,
in quanto lo sconfessa soltanto perché non realizzato. Il fatto è
che, per noi operai, il progetto Fabbrica Italia non sarebbe mai
andato bene, nemmeno se si fossero realizzate le più rosee
previsioni di Marchionne. Inoltre, per la Fiom, rientrare in Fiat
significa precisamente sconfiggere il progetto Marchionne. Il ritiro
di Fabbrica Italia, dunque, dovrebbe essere salutato dalla Fiom come
una vittoria, invece Landini e compagni hanno commentato amaramente
l’annuncio del ritiro del progetto, segno che il tramonto di
Fabbrica Italia non è proprio una sconfitta per la Fiat. Qua,
infatti, abbiamo di fronte la fine del progetto e la Fiom ancora
fuori dalle fabbriche. Qualcosa insomma non torna. Perché anche se
Fabbrica Italia perde una sfida impossibile lanciata dalla sua
propaganda, Marchionne vince l’unica che ha combattuto davvero,
quella a favore del profitto. Magari non la stravince come avrebbe
voluto, ma comunque per ora la vince. Vediamo come.
PROPAGANDA
PADRONALE E CONTROPROPAGANDA SINDACALE
Prendere
sul serio la propaganda dei padroni per poi impallinarli quando la
realtà non si mostra all’altezza delle loro sparate, è lo sport
preferito della burocrazia sindacale quando le scelte del Capitale la
mettono all’angolo senza via d’uscita. In fondo è il modo più
semplice per avere sempre ragione senza dover mai rendere conto dei
propri torti. Più le sparano grosse i capitalisti, più la critica
senza mordente della burocrazia avrà lo stesso ragione. In questa
maniera, la burocrazia ottiene, cosciente o meno, quello che in fondo
vuole: aderire al sistema capitalistico dietro una leggera vernice di
contrapposizione. Se la cava con poco insomma, qualche scaramuccia
verbale coi padroni, un po’ di polemica in televisione e tanti
sermoni stucchevoli sulla democrazia, i diritti, la Costituzione e
fantomatici nuovi modelli di sviluppo sostenibile che non
vedranno mai luce, nonostante l’innaffiamento continuo e abbondante
delle sue lacrime.
Addetto a questo tipo di critica al padronato, la Fiom ha messo
Airaudo, specialista nel settore, più che in quello dell’auto. Da
quando la Fiat ha tirato fuori dal cassetto Fabbrica Italia, Airaudo
non ha smesso per un minuto di sostenere che la Fiat un piano
industriale non ce l’ha, nonostante la strana pretesa che
l’insediamento del Governo Monti coincidesse col primo Governo
della Storia della Repubblica borghese in grado di farglielo tirare
fuori. Delle due l’una: o Marchionne un programma ce l’ha, e
allora può tirarlo fuori benissimo da solo, senza bisogno dell’aiuto
dei suoi tecnici, oppure se non ce l’ha è inutile chiedere al
Governo che gli faccia tirar fuori dal cassetto un fantasma. Eppure,
nonostante queste assurdità, ora che Fiat ha ritirato il progetto,
Airaudo sarà ancora più convinto di aver avuto ragione. E poiché
già prima era un’impresa fargli capire che aveva torto, ora non
basterà un miracolo, tanto più che Landini gli dà corda chiamando
in soccorso Sua Santità il Governo che accusa dell’assenza di una
vera politica industriale. Morale: da Marchionne al sindacato,
dal sindacato al Governo, il problema rimpalla a tutti tranne che ai
lavoratori, con l’unica differenza che se padroni e Governo hanno
le loro ragioni per non vedere manco di striscio i lavoratori, il
sindacato ha il torto marcio di strisciare ciecamente attorno alla
pietà del Governo senza mai puntare sulla lotta dei lavoratori. Così
non andremo da nessuna parte, perché è ai lavoratori che bisogna
rivolgersi, non ai governi. Quando la Fiom lo farà, scoprirà di non
aver bisogno di interpellare padroni e loro manovalanza parlamentare
per capire i piani industriali dei capitalisti. Un buon sindacato o
li capisce da sé o non capirà mai niente di piani industriali,
nemmeno qualora gli industriali si degnassero di spiegarglieli
davvero per filo e per segno.
Quando i sindacati accusano i padroni di non aver un piano
industriale oppure i governi di non aver una vera politica
industriale, dicono semplicemente che padroni e governi non hanno né
piani né politiche industriali per i salariati. E in effetti padroni
e governi non hanno progetti per i salariati per la semplice ragione
che i loro piani industriali sono tutti studiati appositamente per il
profitto. Non sono però padroni e governi borghesi a dover avere
piani industriali per mantenere i salariati, questo compito spetta o
dovrebbe spettare ai sindacati, ai rappresentanti diretti dei
lavoratori. E sono loro che devono o dovrebbero imporli ai padroni.
Se ne hanno la forza, ovviamente, perché se non ce l’hanno
dovrebbero avere almeno la dignità di non implorare padroni e
governi perché facciano in vece loro, il ruolo che non sanno più
svolgere da tanto tempo. È tanto elementare che da Landini alla
Camusso a Ferrero, tutti invocanti il Governo risolutore, i nostri
rappresentanti continuano a non passare l’esame...
Se è vero che dal punto di vista dei salariati, padroni e governi
non hanno un piano industriale, se passiamo ad esaminare il progetto
Fabbrica Italia per quello che è, non per la sua propaganda,
scopriremo che dal punto di vista del profitto non è affatto quel
fallimento che può apparire a prima vista.
MARX E
MARCHIONNE
Finché
ci si metterà in testa un’idea di capitalismo non suffragata da
niente, sarà facile bocciare ogni progetto del Capitale come un
errore. In fondo il sindacato fa proprio questo: stabilisce a priori
che lo sviluppo debba andar bene per tutti, mantenere profitti,
salari e salvaguardare ambiente e diritti, dopodiché quando si
scontra con la cruda realtà che in nome del primo sacrifica gli
altri tre, ne deduce l’assenza di una vera politica di sviluppo!
Per nostra fortuna, non tutti hanno affrontato il capitalismo con la
metafisica del sindacato. Se l’avessero fatto, oggi non avremmo
alcun strumento valido per analizzare il capitalismo. A differenza
del sindacato, il nostro Marx cercò di valutare il capitalismo per
quello che era, non per quello che voleva che fosse. E proprio per
questo resta ancora oggi l’unico vero e proprio strumento a
disposizione della classe operaia per misurare con cognizione di
causa i progetti del Capitale. Mettiamo dunque alla prova del
marxismo Fabbrica Italia.
In due paginette memorabili del Manifesto del Partito Comunista,
Marx ed Engels, hanno spiegato alla perfezione quel che succede
durante tutte le crisi capitalistiche. La società borghese appare da
quattro anni come il mago che ha evocato gli spiriti degli inferi e
non riesce più a dominarli. Dal 2008 a oggi la società possiede
troppo commercio, troppe merci, troppi capitali, troppe industrie e
ahimè troppi lavoratori. In sintesi, con l’epidemia della
sovrapproduzione è scoppiata la crisi. Non manca affatto lo
sviluppo, s’è solo momentaneamente arrestato, alla fine di uno dei
suoi tanti cicli, perché ne abbiamo avuto troppo e ancora ne abbiamo
in eccesso. Tutto qua, senza lo smaltimento dello sviluppo in
eccesso, un nuovo ciclo non ricomincerà mai, il capitalismo è
destinato alla stagnazione. Marchionne lo sa benissimo e infatti
chiede alla concorrenza di eliminare un 20% della capacità
produttiva in eccesso. La concorrenza, sua disgrazia, ha un’idea
migliore: mantenere la sua produzione scaricando tutta la sua
abbondanza sulla Fiat. Invece di tagliare del 20% la produzione della
Volkswagen, di un altro 20% quella della PSA eccetera eccetera,
tenterà di tagliare del 100% quella della Fiat: mangiare un pesce
piccolo in eccesso perché possano crescere ancora di più alle sue
spalle, quelli più grandi senza che alcuno, operai licenziati a
parte, se ne accorga. Naturalmente, mentre il mercato decide le sorti
degli squali dell’auto, ogni concorrente si arrangia come può,
durante la crisi, per rimanere a galla. Come supereranno la crisi i
Marchionne? Stando a qualcuno col suo piano industriale immaginario,
per Marx ed Engels in maniera un po’ diversa. Da un lato, dicono i
padri del materialismo dialettico, distruggendo in maniera
coatta una certa quantità di forze produttive già create, cioè
chiudendo fabbriche, è il caso di Termini Imerese, dall’altro lato
aumentando lo sfruttamento in quelle che resteranno aperte, con
l’introduzione del metodo ergo-uas e l’esclusione del sindacato,
caso Pomigliano esteso poi a tutto il gruppo. Ma tutto questo da solo
non basterà. L’intensificazione dello sfruttamento dei vecchi
mercati unita alla loro saturazione, implica che per superare la
crisi sia necessario, sempre per Marx ed Engels, anche trovare nuovi
sbocchi aprendosi la strada verso nuovi mercati. Ecco che casca a
fagiolo l’accordo Fiat-Chrysler, lo sbarco in America della
Fabbrica Italiana Automobili Torino. Questo è tutto quello che viene
fatto dai capitalisti per superare le crisi. Nel Manifesto non
c’è altro perché altro la realtà non mostra. Come si vede,
Marchionne del 2010, coincide perfettamente con Marx ed Engels del
1848. Questo ovviamente non vuol dire che Marchionne sia un marxista,
e nemmeno che Marx ed Engels siano stati i primi sponsor della Storia
di Fabbrica Italia, significa solo che Marx ed Engels capiscono
ancora alla perfezione il meccanismo che oggi come ieri regola il
capitalismo, con buona pace di tutti coloro che dicono che tutto è
cambiato solo perché continuano a non capirci niente per troppa
presunzione.
Il progetto Marchionne, è il piano più semplice del capitalismo per
uscire dalla crisi senza rimetterci troppo. È il piano meno
rischioso. Non ha fantasia né scommesse a lungo termine. Solo fare
soldi nel più breve tempo possibile. È un piano brutale, il massimo
del risultato col minimo dello sforzo. È l’emblema del capitalismo
finanziario e decadente di oggi. Ma per quanto brutale sia, è pur
sempre qualcosa di reale e concreto. Un piano alternativo
semplicemente non esiste. Pretenderne uno più bello e grandioso vuol
dire chiedere a Marchionne di far andare indietro la ruota della
Storia, verso un capitalismo più imprenditoriale che speculativo. Un
capitalismo che non c’è più e che è bene che non ritorni. Perché
tornare indietro significa allontanarsi dal nostro traguardo: il
socialismo. Più diventa finanziario il capitalismo, più vuol dire
che i tempi sono maturi per il suo trapasso in socialismo. Se
ritardano è perché qualcuno si attarda a volerlo rianimare anziché
provare a dargli il colpo di grazia. Marchionne fa il suo gioco,
siamo noi che non facciamo il nostro.
20
MILIARDI DI INVESTIMENTI
Concludendo
un direttivo di un anno fa a Torino, Landini aveva liquidato Fabbrica
Italia con questa battuta: «20
miliardi di investimenti – cito a memoria – non si negano a
nessuno, poi non si fanno, ma prometterli non costa niente».
Nello stesso periodo, dal segretario provinciale della Uilm della mia
malinconica Stazione
dei Celti, ho imparato
l’unica cosa che finora abbia saputo insegnarmi qualcuno che non
sia della Fiom: «di
piani industriali – cito sempre a memoria – ne ho visti tanti, in
tanti anni di carriera, ma manco uno realizzato».
È incredibile come ben sapendo che i piani industriali siano solo
una bugia, i sindacati gialli ci credano lo stesso, mentre i
sindacati veri, anziché prenderli per quello che sono, frottole,
smascherandole davanti ai lavoratori, non facciano altro alla fin
fine che rinfacciare ai padroni di non aver trasformato le loro bugie
in realtà.
I piani industriali e tutti i
progetti dei padroni pompati dai loro giornali sono solo trovate pubblicitarie. Ma come tutte le bugie servono a coprire una qualche
verità inconfessabile. Se la Fiom invece di andare dietro a tutte le
chiacchiere della Fiat controllasse semplicemente quello che
Marchionne ha fatto fino adesso, scoprirebbe che il progetto Fabbrica
Italia, Marchionne glielo sta facendo sotto il naso e non è affatto
del tutto insensato come i detrattori vorrebbero far credere. Abbiamo
già visto come il progetto sia in linea col meccanismo generale del
capitalismo. Ora non resta che addentrarci nei dettagli.
20 miliardi di investimenti
avrebbero dovuto portare a 1 milione e 400 mila vetture all’anno
entro il 2014, prodotte in Italia, saturando così gli impianti. A
livello mondiale l’accordo con Chrysler avrebbe dovuto portare, da
4 a circa 6 milioni di auto prodotte all’anno. Cifra ritenuta
accettabile per restare sul mercato e competere con GM, Toyota,
eccetera senza sfigurare troppo. Il mercato ha sbarrato le porte in
uscita a questo progetto. Ma un progetto comincia dall’entrata, e
qui Marchionne ha trovato le porte aperte, perché due sindacati
gliele hanno aperte loro, l’altro perché invece di chiudergliele
si è fatto mettere lui alla porta.
A
Pomigliano attualmente si producono circa 700 vetture al giorno con
2200 dei 5000 lavoratori circa che lavoravano prima che la fabbrica
fosse trasformata in una New-co. 700 vetture al giorno per 2200
lavoratori fa una media di 0,31 auto al giorno per lavoratore, cioè
circa 445˙500 auto all’anno a pieno regime. A Mirafiori, ci
dice Pasquale Lojacono rappresentante Fiom «ultimamente facevamo 900
vetture al giorno con 4.900 lavoratori. Prima di Fabbrica Italia con
2.500 lavoratori in più ne facevamo appena sopra i mille. Quindi,
ciò vuol dire che in ogni caso quel piano avrebbe comportato tanti
esuberi». Bastano queste poche parole per capire quello che c’è
da capire. Per chi vuol capire naturalmente! A Mirafiori il progetto
Marchionne ha intensificato lo sfruttamento di circa il 40%. E qual
era lo scopo di Fabbrica Italia? In pratica raddoppiare la produzione
mantenendo lo stesso organico se non diminuendolo. In termini
assoluti era e resta un’impresa disperata, ma la condizione senza
la quale era e resta persino inutile tentarci, era quella di
riuscirsi subito almeno in termini relativi di produzione pro capite.
6 milioni di vetture all’anno non dipendono del tutto dai piani
industriali, perché di mezzo c’è il mercato. Nessun piano
industriale può garantirle, nemmeno quello suggerito dalla Fiom,
ovvero innovazione-ricerca-sviluppo. Ma un qualunque piano
industriale, tranne quelli proposti dal sindacato, deve
necessariamente garantire l’incremento produttivo del singolo
operaio. Purtroppo, quando Landini sostiene che «non aver fatto gli
investimenti ha determinato che la Fiat venda meno di altri perché
non ha i modelli», non fa altro che chiedere quell’aumento dello
sfruttamento relativo contro il quale dovrebbe battersi. Perché è
lì che si gioca da sempre la partita tra Capitale e Lavoro, e noi
continuiamo a perderla perché anche i sindacalisti come Landini da
tanto tempo hanno rinunciato a giocarla proprio in quel punto
nevralgico. Dopo tante chiacchiere su un nuovo modello di sviluppo,
il sindacato, al momento del dunque, non fa altro che chiedere alla
Fiat che vinca la corsa sfrenata del solito, vecchio sviluppo. Gli
altri produttori che hanno fatto gli investimenti, infatti, vendono
più auto ma hanno ancora meno lavoratori. Per produrre i suoi 9
milioni di veicoli, la Toyota, la fabbrica più all’avanguardia
dell’intero comparto auto impiega poco più di 69000 operai, con
una media di 0,46 auto al giorno a testa. Questo non significa che i
lavoratori della Toyota stiano meglio di quelli della Fiat, significa
soltanto che per ora possono non sentire il grado del loro
sfruttamento, perché grazie al primato della loro azienda possono
scaricarlo in toto sui dipendenti Fiat e delle altre concorrenti. Per
la Fiat, invece, significa che il margine di miglioramento è ancora
enorme. Fiat, infatti, può passare da 0,31 auto prodotte a testa, a
0,46. Si può incrementare la produzione di un 50% senza ricorrere a
un solo operaio in più, oppure, se il mercato non tira, si può
mantenere la stessa produzione con circa metà organico. Eccolo qui
il progetto Marchionne, il piano industriale che non c’è!
Per
onestà, bisogna dire che questi dati non vanno presi come valori
assoluti. È infatti difficile stabilire con precisione la produzione
per ogni operaio, perché diverse sono le macchine e diversi sono gli
orari di lavoro. Una macchina ha bisogno di più o meno lavoro per
essere fabbricata così come un giapponese è inchiodato per più
tempo alla catena di montaggio. Tuttavia, siccome non sono i valori
assoluti che qui ci interessano, ma solo la loro tendenza di fondo, a
grandi linee queste cifre dicono la verità nuda e cruda. Vien da
sorridere quando si leggono commenti tanto superficiali quanto
ingenui che credono che la produzione della Fiat sia precipitata ai
livelli degli anni ’70. Chi dice queste sciocchezze dimentica
sempre di dire che nel 2012, per produrre il milione scarso delle
auto che produceva negli anni ’70, Fiat impiega e pure a mezzo
servizio 24˙000
dipendenti, mentre negli anni ’70 ne aveva nella sola Torino 120
mila. Se davvero la produzione fosse precipitata ai livelli degli anni
’70, oggi la Fiat produrrebbe tra i 6 e i 12 milioni di vetture
solo in Italia, con la possibilità di arrivare facilmente a 18. Non
avrebbe bisogno di nessun accordo con Chrysler per fare il culo alla
Toyota e a tutto il resto del comparto auto, dominerebbe il mondo
direttamente da Mirafiori.
Investimenti
e ancora investimenti, scrivono sui loro giornali i servi dei padroni
come se gli investimenti fossero la panacea di tutto.
Innovazione-ricerca-sviluppo gli fa eco il sindacato col suo mantra
preferito. Eppure la Fiat ha cominciato a scendere al di sotto dei
100 mila operai dopo la sconfitta sindacale del 1980. Nel 1982 furono
raddoppiati gli investimenti, nel 1983 arrivarono oltre i 900
miliardi per sfondare il tetto dei 1000 miliardi nel 1984. Da 300
robot prima della marcia dei quarantamila si passò a quasi 2000 nel
1987. La progressione degli investimenti e delle vendite che nel 1987
superarono i 2 milioni, era inversamente proporzionale al numero di
dipendenti: 113˙000 nel
1979, 80˙000 dopo la
sconfitta epocale nel 1980, 60˙000
nel 1984 eccetera eccetera. Gli investimenti tennero sul mercato la
Fiat, ma tolsero da quello del lavoro più della metà dei
dipendenti. E sarà sempre così finché avremo sindacalisti che si
preoccupano degli investimenti senza preoccuparsi dell’unico
investimento che entri davvero nelle nostre tasche, quello speso in
salari. E un sindacalista che controlli gli investimenti da tutti i
lati della ricerca e dell’innovazione di prodotto ma non da questo
è un sindacalista che non sa neanche da che parte è girato. Anche
se Marchionne li avesse fatti, con 20 miliardi di investimenti, gli
investimenti che contano, quelli in salari, sarebbero calati. Perché
in generale gli investimenti in ricerca-innovazione-sviluppo
investono nel profitto, non nei salari. Perciò se ne possono fare
quanti si vuole, non è detto che per noi vada bene. Anzi, la storia
dimostra che più i padroni investono, più noi siamo a spasso,
perché in effetti i padroni investono su sé stessi. La colpa però
non è loro, ma dei sindacalisti che puntando sull’innovazione, non
si accorgono di fatto di investire anche loro nei padroni. Ed ovvio
che se invece di investire sui lavoratori anche il sindacato investe
sui padroni, a noi non resterà sul groppone che il fallimento di
entrambi.
LA
FABBRICA ITALIA DEI MIRACOLI!
Non
si vuol negare che Fiat nella sua storia abbia commesso anche tanti
errori e pure grossi. Fiat ha sbagliato a decentrare tutta la
produzione per poi doverla ricentrare. Non ha capito niente delle
potenzialità del mercato cinese, quando il più grande partito
stalinista d’occidente gli aveva già in pratica spianato la strada
abbattendo tutte le muraglie che si frapponevano tra il Lingotto e
l’Oriente. Quello che qui si vuol negare nella maniera più
assoluta è che si debba inculcare nei lavoratori l’idea bislacca
che possano cavarsela solo se gli imprenditori che li sfruttano,
saranno in grado di sfruttarli sempre alla perfezione. Chiunque
infatti provi a frugare nella Storia delle altre fabbriche troverà
suppergiù gli stessi errori. La Toyota si è appena ripresa dallo
smacco delle auto ritirate dalla circolazione per un difetto. General
Motors è tornata a veleggiare dopo essere stata salvata dal
fallimento da Obama. PSA si appresta a tagliare 8000 mila persone e a
chiudere uno stabilimento, cioè a mettere anche lei in pratica il
piano Fabbrica Italia di Marchionne. E la Volkswagen che ha
distribuito 7000 euro ai dipendenti, prelevandone metà dai precari a
paga dimezzata, sente già i primi scricchiolii e nel 2013, quando
scadrà l’accordo con l’IG Metal che le impedisce di licenziare,
forse farà tornare sulla terra i tanti sognatori che già si son
persi tra le nuvole dei suoi bilanci.
Non
è per gli errori del padronato che gli operai stanno in cassa
integrazione o sulla strada, al contrario è per il loro grande
successo dovuto alla bancarotta del movimento comunista in primis,
e sindacale in secundis. Per capirlo basterebbe provare a
ipotizzare il miracolo di Fabbrica Italia che realizza parola per
parola il progetto Marchionne. Se la Toyota con poco meno di 70˙000
dipendenti produce oltre 9 milioni di automobili, alla Fiat di
Marchionne, sfruttando le migliori tecnologie, ci sarebbe lo spazio
per produrne 1,4 milioni con poco più di 10˙000
operai. Ecco perché chiudere Termini Imerese non basta, perché si
può benissimo incrementare la produzione chiudendo gli impianti di
Mirafiori vecchi e logori o chiudendo quelli di Pomigliano o
addirittura chiudendoli tutti e due. Non è facile trapiantare il
modello Toyota e finora nessuno ci sta riuscendo, né la Volkswagen
né tanto meno General Motors, ma tutti in un modo o nell’altro si
sono avvicinati ai suoi standard. Perché la tendenza è segnata.
Perciò se anche la Fiat riuscisse a produrre 6 milioni di veicoli,
non riuscirebbe a salvare 24˙000
dipendenti, perché un terzo o addirittura la metà se non oltre
sarebbero spacciati. Solo producendo 8 o 10 o 12 milioni di veicoli,
si avrebbe qualche speranza di mantenere tutti gli attuali
dipendenti. Ma produrre 10 o 12 milioni di veicoli, vuol dire
togliere dal mercato quelli della Volkswagen o della Toyota, cioè
sprofondare domani nella stessa crisi della Fiat di oggi i
concorrenti tedeschi e giapponesi. I tagli annunciati da PSA come da
Fiat non faranno che incrementare la produzione pro-capite, e questo
non farà che accelerare la necessaria chiusura di interi
stabilimenti o addirittura la fusione tra gruppi industriali ormai
ridotti a inutili doppioni superflui.
Tagli
e chiusure però non vogliono dire necessariamente emigrazione verso
nuovi lidi o dismissione dei vecchi. Anzi di norma sono il preludio
per un nuovo ciclo di sfruttamento nel posto che ha tanto fruttato.
Non è detto che Fiat voglia spostare la testa in America. Di norma
un imprenditore non abbandona facilmente uno Stato che lo foraggia
tutte le volte che entra in perdita. Non tutti gli stati sono così
generosi. E per ora solo la Toyota sembra farcela senza aiuti di
Stato. Vale a dire solo uno, il primo della classe, ce la fa senza
stampelle. Gli altri senza sostegno cadrebbero tutti come birilli. È
più probabile che Fiat voglia prendere gli aiuti di due Stati (se
non di tre o più), non rinunciare a quelli di uno. Ma sia che resti
in Italia, sia che lasci, il problema della Fiat non sta nel capire
dove starà la sua testa, ma nel tempo che ancora ci vorrà perché
il movimento operaio torni ad usare la sua.
Fabbrica
Italia sta per essere rimessa nel cassetto. Il progetto Marchionne
continuerà invece come prima, riformulato per i soliti gonzi.
Dall’italo canadese non dipendeva la sua piena realizzazione,
essendo questa in mano al mercato. Da lui dipendeva solo quella
relativa. Nell’attuale produzione della Fiat, Marchionne si è
assicurato un più alto valore aggiunto per ogni operaio, cioè un
maggior valore tolto dallo sfruttamento bestiale degli operai. Il suo
ideale è ancora lontano, ma finché potrà scaricare sullo Stato o
sulla strada i suoi esuberi, potrà galleggiare guadagnando pur
sempre qualcosa anche in tempi di crisi, nell’attesa di guadagnare
da far schifo quando verranno, se verranno, tempi migliori. E se non
verranno pazienza, lui avrà fatto il massimo nelle condizioni date.
La
Fiat ha fatto fuori molte aziende prima di oggi. Può darsi sia
arrivato il suo turno. Se si vuole la concorrenza, si deve volere
anche che qualcuno vinca e qualcuno perda. Pretendere che stiano
tutti in campo tramite investimenti significa appunto dimenticare che
gli investimenti si fanno proprio perché qualcuno sul campo resti
stecchito. Se Marchionne in questo momento non li fa o meglio ne fa
pochi, è perché giudica il rischio troppo grande. La Fiat ha
accumulato un enorme ritardo nei confronti dei suoi avversari. Lo
sforzo di aggiornarsi potrebbe non valere la candela. Il sindacato
chiede continuamente investimenti per la semplice ragione che tanto i
soldi non deve metterceli lui. Se toccasse al sindacato investire forse
lo vedremmo diventare prudente più o meno come Marchionne. Il
sindacato però stia tranquillo, se ci sarà possibilità di vendere
qualche motore o macchina in più, Marchionne lo farà. Come tutti
gli imprenditori, infatti, venderebbe la madre per fare soldi e
piazzare le sue merci in ogni dove. Non c’è bisogno che il
sindacato spinga dove già tutto il sistema spinge. Ma come tutti gli
ingranaggi del Capitale, Marchionne potrebbe finire stritolato dal
sistema stesso. Per noi questo significa solo che se le auto, la Fiat
di Marchionne, non le farà più, le farà per lei qualcun altro. Ed
è qui in fondo che si vede tutta l’inadeguatezza del sindacato di
oggi. In fondo a noi operai cosa importa se dobbiamo produrre per
Fiat, Volkswagen, PSA, Totyota o Ford? In fondo che a darci il
salario sia la Fiat-Chrysler o la Chrysler-Fiat o la GM che s’è
mangiata tutte e due, per noi è lo stesso. Lo spostamento della
testa di un’industria da un Paese all’altro comporta
ristrutturazioni non per il trasferimento del Know-how e di altre
carabattole con cui si gingilla la stampa piagnucolante a difesa
dell’industria patriottica, ma perché le fusioni tra due o più
aziende sono la necessaria conseguenza della capacità produttiva in
eccesso. Si può mantenere Fiat in Italia ma l’eccesso di impianti
e produzione resterà ugualmente. E non si risolverà con
investimenti produttivi un problema di eccesso di produzione, ma con
l’esatto contrario, con il disinvestimento da qualche impianto. A
meno che il sindacato prenda il toro per le corna. Il mercato è
saturo, c’è un eccesso del 20% di impianti dice Marchionne. Chi
può dargli torto? Forse sta addirittura un pochino stretto,
l’eccesso è molto superiore al 20%. La sovrapproduzione è il
risultato dei successi strabilianti del mercato dell’automobile
degli ultimi 30 anni. 14 auto per addetto produceva la Fiat nel 1979,
28 nel 1985. Oggi Toyota ne fa circa 130, Melfi 85, lo stabilimento
di Tychy in Polonia supera i 100. I tempi di produzione si sono
ridotti di 10 volte. Anche i tempi di progettazione si sono più
volte dimezzati. Solo l’orario di lavoro è rimasto uguale. Tutta
la produttività è andata a vantaggio dei padroni per colpa di un
sindacato che ha inseguito le chimere della competitività,
dell’innovazione e della ricerca, cioè dello sviluppo del
profitto. Si accorci dunque l’orario del 20-25% a parità di
salario, se non addirittura a salario aumentato, e quel che oggi
appare come un eccesso, diventerà immediatamente necessario. Dal
circolo vizioso dei tagli per una stretta ancora più recessiva, si
passerà al circolo virtuoso del boom e dell’espansione.
Naturalmente, del passaggio dal circolo vizioso a quello virtuoso in
sé e per sé non ce ne frega niente. Non è infatti per il bene del
capitalismo che si deve lottare per la riduzione dell’orario di
lavoro, ma per il nostro, per fargli ancora più male di quanto già
non se ne faccia da solo con le sue stesse contraddizioni. Per avere insomma più tempo a disposizione
per studiare il modo di farlo definitivamente fuori.
È
chiaro che per un compito simile abbiamo bisogno di un sindacato che
faccia sistematicamente appello alla mobilitazione dei lavoratori,
non all’immobilismo di Governi e imprenditori. Si continui a fare
appello ai governi, e si vedranno passare indisturbati altri mille
piani Marchionne, con la produttività per operaio che passerà da
100 a 150 a 200 auto all’anno, e col sindacato che piagnucolerà
per la mancanza di un piano industriale, perduto nella vana ricerca
dell’innovazione...
Stazione dei Celti
Lunedì 17 Settembre 2012
Nota
– i dati sull’incremento produttivo della Fiat degli anni ’80,
sono tratti dal libro Cento... e uno anni di Fiat, Massari
Editori, 2000, scaricabile anche dal sito di
Antonio Moscato.
Per
quanto riguarda le contraddizioni delle innovazioni è interessante
sentire cosa dice Taiichi Ohno, nel suo libro Lo spirito Toyota,
Einaudi, 1993.
Per
gli errori della Fiat si può vedere questo articolo, Fiat
trent’anni di errori in Cina.
Infine
per i commenti di Landini e altri sul ritiro di Fabbrica Italia si
possono leggere i seguenti articoli dal sito Controlacrisi: Fiat:
i punti chiave... ; Romiti
critica Marchionne; il
piano Fiat non poteva reggere; La
Fiom aveva ragione;
12 commenti:
L'errore di fondo dell'autore dell'articolo (L.Mortara), è di insistere sul ruolo del sindacato, come punto di rottura capitalistico, facendo assumere al sindacato lotte che in se sono giuste (riduzione dell'orario del lavoro a parità di salario ad es.), ma che appartengono queste lotte invero, alla politica.
Ossia ad una forza politica dei e per i Lavoratori (e quindi squisitamente di classe), che è completamente assente.
Caro compagno Mortara, il sindacato seppur squisitamente di classe, non basta a dare la mazzata finale al decadente capitalismo, anche se un siffatto sindacato può vincere delle battaglie (e migliorare quindi la condizione operaia) nella guerra tra Capitale e Lavoro.
A quando una unione politica di compagni, che si proponga l'abolizione dello stato di cose presenti, e faccia "definitivamente fuori" questo sistema sociale delle diseguaglianze che chiamiamo capitalismo?
Saluti da Luigi
Segnalo al link: come il caso dell'auto, sia emblematico nel mettere a nudo le contraddizioni di questo modo di produrre capitalistico:
http://www.leparoleelecose.it/?p=2219
L'ultima riduzione d'orario in Italia è stata conquistata dall'autunno caldo del 1968-69 dal movimento sindacale. Non esiste una separazione netta tra ciò che è sindacale e ciò che è della politica. Già Rosa Luxemburg faceva notare che quando la lotta si inasprisce, lotta economica (sindacale) e lotta politica (partito) si fondono assieme. L'idea che si possa fare la rivoluzione senza trasformare i sindacati, solo appoggiandosi al partito, è del tutto erronea. Chi non sa lottare dentro i sindacati per la loro trasformazione, non saprà nemmeno fondare il partito.
Grazie per l'attenzione
Un caro saluto
Lorenzo
@Mortara
A proposito delle lotte sindacali, Marx faceva notare che seppur importanti, esse sono limitate agli effetti e non alle cause, che se la classe operaia vuole intraprendere un "movimento più grande" di lotta, deve intraprendere la lotta politica. In "Salario, prezzo e profitto", Marx scrive: Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla servitù generale che è legata al sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana (la lotta sindacale). Non deve dimenticare che lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Perciò non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società. Invece della parola d'ordine conservatrice: "un equo salario per un equa giornata di lavoro", gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: "SOPPRESSIONE DEL SISTEMA DEL LAVORO SALARIATO".
Ora Lorenzo, ma che era un marziano sto Marx, se nella seconda metà dell'800, parlava di...ABOLIZIONE DEL SISTEMA DEL LAVORO SALARIATO?
Tu scrivi: "Chi non sa lottare dentro i sindacati per la loro trasformazione, non saprà nemmeno fondare il partito".
Lorenzo, guarda che la composizione del capitale variabile, è assai cambiata.
Abbiamo milioni di disoccupati (tanto per fare un esempio), che non stanno in nessun sindacato, ed hanno tanto tempo libero. Ergo, non c'è nessun bisogno di una riduzione dell'orario di lavoro, per far si che "il lavoratore abbia maggior tempo libero per crescere culturalmente e dotarsi di nuovi strumenti per combattere i padroni", ci ha già pensato il capitale a far questo.
Pensiamo alle masse di neolaureati, che si arrabattono a far lavori da fame, saltuari, stagionali, o marcire a tempo indeterminato in un call center.
In una parola, all'esercito di precari, che di tempo ne ha avuto e ne ha a sufficienza, per sensibilizzarsi culturalmente.
I sindacati di base, rappresentano una minoranza dei lavoratori, mentre che al contrario abbiamo milioni di lavoratori a spasso (esercito industriale di riserva).
Mi sembra che tu abbia ancora una visione da conservatore, ossia, sei ancorato alle vecchie forme di lotta, che debbono per forza di cose scaturire da chi è inserito in un sindacato.
Un soggetto politico nuovo, formato da menti eccelse e preparate, capace di aggregare milioni di lavoratori (proletari il cui documento di riconoscimento dovrebbe essere la loro busta paga, o il loro stato di disoccupazione), e la classe media oramai proletarizzatasi, spazzerebbe via questo sistema delle diseguaglianze, che si mantiene in bilico distruggendo uomini e natura.
Saluti.
Luigi
Dimentichi che il tempo libero dei disoccupati è un tempo libero subito, non conquistato, negli anni 70 dopo le conquiste fiorivano riviste radicali pubblicazioni rivoluzionarie eccetera. Con la disoccupazione di oggi per le sconfitte dei lavoratori fioriscono le pubblicazioni stupide e la letteratura rivoluzionaria è meno letto. Quello che scrive Marx in salario prezzo e profitto, è appunto lo scritto in cui Marx dice di non separare la lotta politica da quella economica. Invita però i lavoratori a imprimere ai sindacati il carattere più rivoluzionario possibile, non a lasciare stare perché tanto è dal partito che deve venire tutto (Di passata nel mio scritto parlo di rivoluzione e cioè di abolizione del sistema salariato, che passa però anche da determinate conquiste durante il periodo della dittatura borghese). Un soggetto politico nuovo non nasce da menti eccelse (che ci sono sempre come in tutte le epoche) ma da qualche lotta particolarmente importante e significativa. Oggi il partito non c'è, in compenso abbiamo sindacati di massa. È per ora più semplice trasformare i sindacati che fondare partiti. Ma le due cose vanno assieme. E senza spezzare la guida concertativa dei sindacati, è pia illusione il soggetto politico nuovo in grado di aggregare milioni di lavoratori.
Le forme di lotta non devono per forza scaturire dalle vecchie organizzazione ma è difficile che organizzazioni di 4 gatti come i Cobas possano cambiare qualcosa. La riscossa partirà dalla Cgil e dalla Fiom o non partirà affatto.
Buona giornata
Lorenzo
P.S. - i disoccupati non fanno parte del capitale variabile.
Premesso che concordo con la risposta di Lorenzo vorrei partire da una analisi di Luigi per una mia brevissima riflessione. Luigi afferma di una "classe media oramai proletarizzatasi". Ecco io sarei molto più prudente ad affermare ciò: è vero che i ceti medio/bassi si stanno impoverendo, ma questo non significa automaticamente che si stanno proletarizzandosi.
Perchè fare parte di una classe sociale non è solo dato da posizioni economiche, ma anche da questioni legate alla mentalità.
Sinteticamente ricordo che nella Rivoluzione Francese esisteva la cosidetta "plebe nobiliare" la quale non disponeva più di feudi ed era certamente più povera di molti borghesi, ma che non era disposta a rinunciare ai loro privilegi nobiliari. Tanto è vero che la nobiltà "rivoluzionaria" è formata per la maggior parte da nobili che disponevano di buone risorse finanziarie: vedi il Marchese de La Fayette e il cugino del Re Philippe Egalité, padre del futuro Re di Francia Luigi Filippo.
Ciao Stefano
@Mortara
Tutto quello che hai descritto nel tuo articolo su "fabbrica Italia", è stato che: a causa della CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO, si mettono in moto, FATTORI DI CONTROTENDENZA, che frenano e contrastano l'efficacia della legge generale. Come ad esempio: 1) LA CONCENTRAZIONE DI CAPITALI (la morte delle aziende più deboli ed il loro assorbimento da parte di quelle più forti, determinando la concentrazione della produzione in sempre meno mani); 2) AUMENTO DEL GRADO DI SFRUTTAMENTO DEL LAVORO: cioè accrescimento del plusvalore, attraverso il prolungamento del tempo di lavoro ( Plusvalore assoluto) e l’intensificazione del lavoro (Plusvalore relativo). Quindi, aumento della quota di lavoro NON PAGATO, ossia il saggio di Plusvalore. E’ ciò che ha fatto Marchionne, verso la produzione rimasta in Italia. Mentre che per la restante produzione, ha delocalizzato in Polonia, Serbia, ecc; 3) LA COMPRESSIONE DEL SALARIO AL DI SOTTO DEL SUO VALORE”, secondo Marx è: “una delle cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di profitto”.
Tralascio gli altri fattori di controtendenza a questa legge che si abbatte sugli uomini, come legge di natura.
Il punto è: chi dovrà abolire le leggi del capitale (di cui la caduta tendenziale del saggio di profitto ne è una), che si riproducono come leggi di natura, e sviluppare un nuovo modo di produzione e nuovi rapporti di produzione quindi (ossia, un nuovo modo di essere e stare assieme)?
Il sindacato forse, anche il più rivoluzionario e radicale possibile? non scherziamo, siamo seri!.
E' compito dell'azione politica e non sindacale rivoluzionare modi e rapporti di produzione, perciò Marx scrive, a proposito della lotta sindacale da parte della classe operaia che: "Non deve dimenticare che lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia".
A proposito delle menti eccelse costituenti il necessario soggetto politico, intendevo dire: Lavoratori (ossia coloro che subiscono o che hanno subito lo sfruttamento) emancipatisi dall'ideologia borghese imperante.
Uomini emancipati che mettano al centro di tutto, ...l'Uomo stesso.
(continua)
Sul tempo libero: Lorenzo, prima la cultura era appannaggio di pochi, ma i mass media, erano di gran lunga meno sviluppati. Ergo: lo sfruttato di prima, era meno "distratto" dalle inutilità massmediatiche. Oggi, è esattamente il contrario: c'è maggiore consapevolezza culturale, più tempo libero anche, ma siamo totalmente immersi da mane a sera, nei "sistemi di persuasione occulta borghesi", ossia...i mass media, e questo vale sia per i disoccupati che per i lavoratori.
Tu scrivi: "è pia illusione il soggetto politico nuovo in grado di aggregare milioni di lavoratori", e : "La riscossa partirà dalla Cgil e dalla Fiom o non partirà affatto".
Prendiamo me. Sono un precario, che non ha mai fatto parte di un sindacato, che ha fatto e fa, una marea di lavori in nero, e il futuro che ho davanti è finire precario nella scuola (nella migliore delle ipotesi).
Allora che dici, aspetto che voi della Fiom-Cgil facciate partire la riscossa? sì?...campa cavallo che l'erba cresce!
E perchè poi, milioni di precari e disoccupati, il cui numero supera di gran lunga gli effettivi lavoratori assorbiti nel processo lavorativo dal capitale (che diminuiscono sempre più, proprio in ragione della caduta tendenziale del saggio di profitto) e che sono iscritti al sindacato, dovrebbero stare alla finestra, e aspettare voi della Fiom che inneschiate la rivoluzione?
Ma dove sta scritto, che io e tantissimi come me (sovrappopolazione relativa), che hanno subito lo sfruttamento come e più di voi salariati che avete un contratto (una fictio juris), dal momento che ci dobbiamo accontentare quando capita anche del lavoro nero, di part time a tempo determinato, ecc. (ossia, di condizioni lavorative schifose, senza un minimo di cosidetti diritti che può accampare al contrario un salariato a tempo indeterminato), dove sta scritto dunque, che siamo tagliati fuori dalla lotta politica, solo perchè, non facciamo parte di un cazzo di sindacato? e che si chiami Fiom per giunta, me lo spiegheresti?
Seguendo il tuo ragionamento, anche i pensionati (ex Lavoratori) sarebbero fuori da una azione di lotta politica capace di farci abbandonare questo vecchio mondo, questo vetusto e angusto modo di produzione capitalistico.
Spiacente Lorenzo, ma le tue vedute sono alquanto ristrette. Avevo sperato che qualcosa bollisse in pentola, per attrezzarmi a dare il mio contributo, ma siete fermi a...rivoluzionare la lotta sindacale.
Buon prosieguo
Luigi
P.S. per Santarelli.
Stefano, che concorda con Lorenzo, nessun dubbio, visto che ve la cantate e ve la suonate tra di voi.
Caro Luigi,
è difficile rispondere quando la si mette sul personale. Non è un buon modo per rimanere lucidi. Continui a separare sindacato e partito. Io non ho detto che è il sindacato che dovrà fare la rivoluzione, ho detto che sarà la classe operaia attraverso i suoi due strumenti principali, sindacato e partiti, a farla. Ora però il partito non c'è, il sindacato invece sì e pure grosso, lì bisogna lavorare per trasformarli. Il tuo modo di ragionare anche se si presenta come nuovo è in realtà vecchio di almeno un secolo e mezzo. Già allora c'era chi stabiliva prima che cosa potesse essere il sindacato, e di conseguenza lo lasciava così com'è perché tanto non era rivoluzionario. Lenin però dice che bisogna rimanerci dentro fino ad espellervi tutti i capi opportunisti e "concertatori".
Il fatto che tu sia precario e disoccupato non significa che tu sia fuori del sindacato. Esiste infatti il NIDIL-CGil per i precari. Insomma anche tu puoi lavorarci dentro la Cgil e contribuire alla sua trasformazione. Puoi ovviamente non farlo ma difficilmente combineremo qualcosa fino a che 6 milioni di lavoratori e pensionati staranno sotto l'egida della Cgil. Un disoccupato tecnicamente non è uno sfruttato, infatti non producendo nulla nulla gli può essere estorto. Non è questo un discorso menefreghista verso il disoccupato. Tutto il contrario. Voglio solo dire che se i disoccupati riempissero le piazze dando garanzia ai padroni di perfetta diligenza, i padroni sottoscriverebbero subito una simile protesta che non li toccherebbe di un solo centesimo. È chiaro che un simile caso non si verificherà mai perché milioni di disoccupati in piazza mettono pressione e stimolano gli occupati a fare altrettanto. Ma sta di fatto che senza gli occupati che guidino gli altri difficilmente andremo a buon fine, non per questioni personali, ma perché il fulcro della società capitalistica è l'operaio di fabbrica. Era così prima e lo sarà sempre di più. Non bisogna offendersi ma prendere atto della realtà e intervenire nel posto giusto, o contribuire allo scopo, muovere gli operai, da dove si è. Ma da soli, disorganizzati, non si batterà mai una burocrazia organizzatissima.
Un caro
saluto
Caro Luigi,
è difficile rispondere quando la si mette sul personale. Non è un buon modo per rimanere lucidi. Continui a separare sindacato e partito. Io non ho detto che è il sindacato che dovrà fare la rivoluzione, ho detto che sarà la classe operaia attraverso i suoi due strumenti principali, sindacato e partiti, a farla. Ora però il partito non c'è, il sindacato invece sì e pure grosso, lì bisogna lavorare per trasformarli. Il tuo modo di ragionare anche se si presenta come nuovo è in realtà vecchio di almeno un secolo e mezzo. Già allora c'era chi stabiliva prima che cosa potesse essere il sindacato, e di conseguenza lo lasciava così com'è perché tanto non era rivoluzionario. Lenin però dice che bisogna rimanerci dentro fino ad espellervi tutti i capi opportunisti e "concertatori".
Il fatto che tu sia precario e disoccupato non significa che tu sia fuori del sindacato. Esiste infatti il NIDIL-CGil per i precari. Insomma anche tu puoi lavorarci dentro la Cgil e contribuire alla sua trasformazione. Puoi ovviamente non farlo ma difficilmente combineremo qualcosa fino a che 6 milioni di lavoratori e pensionati staranno sotto l'egida della Cgil. Un disoccupato tecnicamente non è uno sfruttato, infatti non producendo nulla nulla gli può essere estorto. Non è questo un discorso menefreghista verso il disoccupato. Tutto il contrario. Voglio solo dire che se i disoccupati riempissero le piazze dando garanzia ai padroni di perfetta diligenza, i padroni sottoscriverebbero subito una simile protesta che non li toccherebbe di un solo centesimo. È chiaro che un simile caso non si verificherà mai perché milioni di disoccupati in piazza mettono pressione e stimolano gli occupati a fare altrettanto. Ma sta di fatto che senza gli occupati che guidino gli altri difficilmente andremo a buon fine, non per questioni personali, ma perché il fulcro della società capitalistica è l'operaio di fabbrica. Era così prima e lo sarà sempre di più. Non bisogna offendersi ma prendere atto della realtà e intervenire nel posto giusto, o contribuire allo scopo, muovere gli operai, da dove si è. Ma da soli, disorganizzati, non si batterà mai una burocrazia organizzatissima.
Un caro
saluto
Un contributo quello di Mortara , che di fatto non spiega molto e soprattutto, non mi sembra offra soluzioni di ampio respiro internazionale, visto poi che il sito si dichiara destalinizzato e che annovera tra i suoi link di riferimento vari partiti(???)comunisti internazionalisti.Oltre che elencare le malefatte di Marchionne, del credito ricevuto e mal riposto,si passa di fatto a richiedere una riduzione dell’orario di lavoro, visto che da decenni , non se ne chiedeva una.Richiesta questa, che nel pieno di una crisi mondiale, mi sembra davvero poca cosa, soprattutto se affiancata ad un aumento dei salari,cosi’ che ‘il lavoratore avrà maggior tempo libero per crescere culturalmente e dotarsi di nuovi strumenti per combattere i padroni’.Detta così,mentre si perdono continuamente posti di lavoro,si chiudono fabbriche, con quale forza si potrà ottenere anche un aumento delle retribuzioni ? Se non esiste una forza politica in grado di aggregare milioni di lavoratori, in che modo i sindacati di base, minoranza nei posti di lavoro, potranno costringere le aziende ad accettare tali richieste? Questo mi sembra solo un modo di raccogliere consensi, strillando forte e alzando la posta in gioco, che si può fare solo se si dispone di una forza sindacale e politica in grado di organizzare lotte generalizzate, di scala nazionale, ma non solo per difendere posti di lavoro e salari, ma per dar vita ad una rivoluzione sociale, che consenta di ridistribuire le ricchezze, enormi, in mano a pochi soggetti,e consentendo così di ridare speranze a chi oggi non le ha.Ma realisticamente parlando, dopo il fallimento politico della FIOM, incapace come sempre di staccarsi dalla CGIL e farsi protagonista delle istanze delle fasce più deboli e non solo dei lavoratori metalmeccanici , i numeri esigui dei sindacati di base, che tranne il tentativo dell’ USB, di raccogliere le varie sigle sotto un unico contenitore, non saranno mai in grado di sorpassare i confederali,i partitini della sinistra,quasi tutti di matrice trotskista , quindi elitari e non di massa, con una FDS alla continua ricerca di alleanze con partiti ambigui vedi IDV, pensare di dettare condizioni al capitalismo selvaggio, ormai sempre più finanziario, mi sembra come i tanti slogan sentiti in questi ultimi anni, dove tutti affermavano di non voler pagare il debito creato dalle banche.Oggi serve solo che , menti preparate si mettano alla testa di un soggetto politico nuovo, da creare,che sappia coniugare marxismo, ambientalismo,difesa degli interessi nazionali,(non nazionalismo!!) democrazia interna ma non personalismi e autoreferenzialità,che stipuli un programma di pochi punti comprensibili e condivisibili.Un saluto.
Premetto che non mi piace per nulla la critica anonima. Stando all'anonimo oggi con la crisi che c'è e con la burocrazia che tiene in mano i lavoratori è impossibile la riduzione di orario eccetera. Invece menti eccelse solo che si uniscano e voilà ecco fatto il partito che unirà le masse con pochi punti comprensibili per tutti. Delle due l'una: o non è possibile creare il partito dal nulla, o se è possibile creare il partito dai geni in circolazione, è possibile anche creare il sindacato che ridurrà l'orario. In realtà è l'anonimo che non ha una soluzione perché appunto l'unica cosa che sa dire è quale soluzione ci voglia. Che ci voglia il sindacato il partito eccetera lo sanno anche i sassi, il problema è come arrivarci? Ci si arriva lavorando nei sindacati tradizionali con una critica serrata. L'articolo è appunto questo, una critica marxista all'impotenza del sindacato. È ovvio che senza cambiare i vertici sindacali non si arriverà alla riduzione dell'orario, ma la critica serve appunto per strappare alla burocrazia quanti più adepti possibili. Tante altre critiche serviranno. Lanciando solo soluzioni, per giunta da fuori dalla classe ovvero dai sindacati di base, senza una critica pungente, è l'anonimo che non combinerà nulla per la semplice ragione che l'idea delle menti eccelse al di sopra della classe e delle sue lotte, è un'idea da piccolo borghese.
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