APPELLO PER IL RISORGIMENTO SOCIALISTA
Un appuntamento di una
certa importanza per la sinistra italiana si è consumato qualche
giorno fa, con l’assemblea di Risorgimento Socialista che, a quanto
pare, scioglie definitivamente il nodo gordiano del rapporto con un
PSI oramai definitivamente digerito dentro il metabolismo
neocentrista del PD. E’ una ottima notizia.
Così come è una ottima
notizia che si ricostituisca un punto di riferimento per il pensiero
del socialismo di sinistra in Italia. Sappiamo bene tutti quale sia
l’analisi della situazione attuale. La verticalizzazione degli
assetti di potere economico impressa dalla fase finanziaria del
capitalismo, cavalcando sull’onda di una globalizzazione che ha
spossessato i popoli europei della stessa capacità di governare i
loro interessi, ha generato una deriva neoliberista senza frontiere e
senza politica, realizzando le indicazioni di Von Hayek sull’Europa.
Un’Europa oramai irrimediabilmente lontana dal progetto di
Ventotene, in cui la moneta unica è servita da grimaldello per
imporre agli Stati membri una strada forzata di imitazione delle
politiche economiche ordoliberiste del Paese leader. La gestione di
questo processo di incrudimento delle diseguaglianze e di
impoverimento di strati crescenti della società richiede una
progressiva cancellazione degli spazi della democrazia
rappresentativa , facendo crescere un leaderismo plebiscitario e
plebeista, privo di meccanismi di intermediazione, più simile al
caudillismo che alla democrazia.
In questo contesto, la
sinistra, in tutta Europa, ha perso quasi tutto il suo radicamento
sociale naturale, nel mondo del lavoro ed in quello di chi il lavoro
non ce l’ha. In primis perché i profondi cambiamenti sociali degli
ultimi trent’anni hanno frammentato e reso più porose e meno
chiaramente distinguibili le classi sociali novecentesche, ed hanno
generato segmentazioni interne al mondo del lavoro, tali da
ostacolare i tentativi di rappresentazione unitaria. Ma soprattutto
per errori di strategia: non aver letto correttamente, con onestà
intellettuale, i cambiamenti sopra menzionati, ha fondato l’illusione
di poter governare tale fase in una logica di “riduzione del danno”
(di compensazione delle esternalità sociali negative) tipica del
social-liberismo.
Purtroppo anche gli
esperimenti di sinistra più radicali che sono stati sinora messi in
campo, come quello di Syriza, hanno manifestato l’incapacità anche
solo di frenare la velocità della deriva economica, sociale e
democratica dentro la quale la civiltà europea si sta estinguendo.
In fondo, per lo stesso motivo: l’illusione di poter negoziare con
l’egemonia ordoliberista un compromesso onorevole, senza mettere
sul tavolo una concreta eventualità di rottura definitiva in caso di
impossibilità di negoziare. Il tutto in un quadro in cui l’utopia
dell’internazionalismo socialista si scontra con la dura realtà
dell’assenza del foro politico entro il quale poterlo esercitare.
Se l’Europa non è uno spazio politico democratico, e non può
esserlo perché metterebbe a repentaglio la direzione di marcia
neoliberista cui tengono i poteri economici e finanziari
transnazionali, non c’è il luogo dover esercitare forme di
internazionalismo. Se non un Parlamento Europeo che di parlamentare
ha soltanto il nome, e che somiglia ad una Dieta dello zar. Per
questi stessi motivi, non si può oggi essere ottimisti in merito al
pur coraggioso tentativo unitario che la sinistra portoghese sta
portando avanti, mancando la volontà di arrivare a far saltare il
tavolo, ove necessario.
I momenti, nella vita
degli individui come in quella delle società, in cui ci si trova con
le spalle al muro, sono quelli in cui occorre prendere decisioni
forti. Risorgimento Socialista, in questo contesto, ha un senso
soltanto se rappresenta una opzione di cultura politica avanzata, in
grado di mettersi al servizio di un progetto più ampio, di una idea
di fronte popolare ampio, che trovi una sintesi utile a dare risposte
a tutti gli sconfitti della crisi: il disoccupato, il lavoratore
povero e i vari strati della precarietà lavorativa ed esistenziale,
il pensionato, il piccolo imprenditore in rovina. Ciò a sua volta
implica che l’autonomia di pensiero e di cultura politica
socialista di questo soggetto sia spesa in un rapporto con le altre
componenti che stanno lavorando ad una sinistra unitaria e plurale.
Occorre ricostruire i legami molecolari fra i dispersi atomi della
sinistra italiana, altrimenti non si fa sistema, e non si intercetta
un fronte popolare, né ampio né sottile. Attenzione:
questo fronte troverà altri riferimenti nel giacobinismo senza
ideali e senza progetto di Grillo, o nella deriva xenofoba della
Lega.
La liquefazione sociale
ed esistenziale in cui precipita la nostra società (fotografata di
recente persino dal Censis, come già negli ultimi rapporti dello
SVIMEZ, che evidenzia questo ritorno di individualismo disperato,
ovviamente ben accolto dalle classi dominanti) richiede solidità.
Solidità contro lo sfacelo. Senza un radicamento di classe, che
richiede la solidità di un albero che pianta le radici dentro
specifici interessi sociali, per quanto ampi, l’orizzontalismo
civico anti-casta ha poche prospettive. Una volta sostituita la
vecchia élite, si riproducono gli stessi meccanismi precedenti,
basati su un liberismo più o meno compassionevole, e su una retorica
dell’onestà che ha le gambe corte, quando deve sporcarsi le mani
con la quotidianità del potere. L’esempio della gestione grillina
di un Comune come Livorno dovrebbe essere emblematico in tal senso.
Il nostro appello è che
Risorgimento Socialista entri, come componente organizzata, e con un
apporto culturale originale e preziosissimo, dentro i faticosi
processi di costruzione di un partito di sinistra nel nostro Paese.
Un partito, con la solidità di una organizzazione che consente il
confronto plurale ed il dibattito fra le diverse posizioni, e quindi
sedimenta le diverse culture politiche portandole ad una sintesi
innovativa, che fa cultura politica, che seleziona e fa crescere una
classe dirigente all’altezza. Azzerando in larga misura quella
attuale, che francamente è fallita, senza peraltro coltivare
retoriche nuoviste che hanno manifestato la loro natura
gattopardesca.
E l’apporto culturale
di Risorgimento Socialista deve fare leva sugli insegnamenti più
preziosi, ed ancora attuali, di Lelio Basso per il diritto dei popoli
e l’esigenza di un nuovo anticolonialismo, Riccardo Lombardi e
Fernando Santi (quest’ultimo soprattutto perché è necessario
ricostruire un sindacato forte, rappresentativo e moderno). Una
attualizzazione del concetto lombardiano di “riforma di struttura”,
che continui ad avere un ancoraggio di classe. La polarizzazione
sempre più grave, di reddito e di opportunità, che dilania la
società italiana, e gli enormi problemi di struttura che il
capitalismo in crisi ci propone, problemi che mettono a repentaglio
la nostra civiltà e finanche la sopravvivenza della specie umana,
richiedono un approccio radicale. Non si può indugiare in vaghi
richiami a Meade o a democrazie dei proprietari. Qui il problema non
è più quello di redistribuire le opportunità di autorealizzazione
dei singoli in una società liberale che ha realizzato
l’emancipazione dal bisogno immediato, garantendo le capacità individuali. Il problema è diventato quello di rispondere ai bisogni
primari riemergenti, dentro le nostre società, ed anche per i
milioni di disperati che, fuggendo da un Terzo Mondo divorato dalle
fiamme del neocolonialismo, premono alle nostre frontiere, e nei
confronti di assetti ambientali globali prossimi al collasso. Non ha
nemmeno più senso interrogarsi sul livello di “libertà”
individuale cui rinunciare per avere un welfare State, come faceva
Rawls, quando oramai le nostre società non hanno più il welfare
pubblico e stanno per perdere le libertà.
Occorre tornare ad un
approccio di classe, per quanto sufficientemente ampio da garantire
una sintesi fra le diverse classi e sottoclassi sociali colpite dalla
crisi. L’economia diventa “umana” se è in grado di rispondere
a bisogni collettivi, non lo è se amplia la prateria per le ricorse
solitarie di ciascuno. Qui occorre tornare a dare risposta al diritto
al lavoro, al diritto alla casa, al diritto ad una istruzione di
massa e di qualità, alla sanità pubblica per tutti, persino al
diritto al cibo, e basta dare uno sguardo ad una mensa della Caritas
o a certe scuole “di frontiera” per accorgersene.
Ed occorre farlo in un
contesto in cui la crescita non c’è più. E non ci sarà più sui
livelli del passato, perché non ci saranno più locomotive
macroeconomiche come prima: Cina, gli altri Brics, Stati Uniti,
Giappone, Europa, sono tutti alle prese con specifiche contraddizioni
macroeconomiche, la cui soluzione per l’uno aggrava i problemi
dell’altro, generando, progressivamente un multipolarismo con
leader sempre più numerosi e sempre meno potenti, molto pericoloso
anche sotto il profilo geopolitico. Ma soprattutto perché abbiamo
raggiunto un duplice vincolo, sociale ed ambientale, alla crescita.
Il primo ci dice che, con gli assetti attuali, la crescita di alcuni
significa ulteriore impoverimento e guerra per gli altri, generando
spinte migratorie globali oramai giunte al limite della sostenibilità
culturale e sociale nei nostri Paesi, generando fenomeni di xenofobia
e di erraticità delle politiche di gestione delle migrazioni. Il
vincolo ambientale ci segnala che, lasciando da parte la polemica
scientifica ed ideologica sul riscaldamento globale, che pure è
incontrovertibilmente in atto, abbiamo raggiunto il limite massimo
dell’impronta antropica sull’ambiente, in termini di pressione
sulle risorse alimentari, idriche ed energetiche. Le innovazioni
tecnologiche, le politiche ambientali e demografiche e i cambiamenti
negli stili di vita basteranno solo per allentarlo, dilazionarlo, ma
non per rimuoverlo. In un contesto in cui occorre ripensare
completamente il paradigma lavoristico su cui si fondano le nostre
società, perché, semplicemente, il progresso tecnico fa sì che non
ci sia più bisogno di far lavorare tutti. Ed in un certo senso la
precarizzazione dei mercati nazionali del lavoro fornisce una
risposta liberista, ovviamente inadeguata, a questo vincolo:
precarizzando il lavoro e la sua retribuzione, lo si distribuisce su
un maggior numero di teste.
Queste enormi sfide
strutturali, non congiunturali, ci pongono davanti al tema di
elaborare un nuovo modello di sviluppo. Meno quantitativo e più
qualitativo, meno assurdamente globalizzato e più fondato sui legami
sociali di comunità. Più partecipato, ed il paradosso della
partecipazione è che, quando la si allarga, essa richiede gli
organismi intermedi di rappresentanza che la sintetizzino, non le
distopie casaleggiane del cittadino che vota sul social di Internet.
In tal senso si pone anche l’esigenza di riproporre l’istituto
della programmazione economica non eterodiretta e orientata secondo
dettami costituzionali, ex art. 2, 3, 4, 35-47, con particolare
attenzione a forme inedite di attuazione dei principi stabiliti
dall’art. 43 e alla più recente riflessione politica e giuridica
sulla indisponibilità dei beni comuni, cfr. Commissione Rodotà -
per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni
pubblici (14 giugno 2007).
E ciò richiede un
approccio di breve periodo, su temi come la rimessa in circolo di una
politica economica sulla domanda che arresti la spirale
deflazionistica, la ricostruzione della scuola e del sistema
formativo pubblici dopo anni di tagli e di dequalificazione
professionale e la difesa della sanità, il governo dei fenomeni
migratori con una politica estera, di sicurezza e di accoglienza
intelligente, il governo politico, non militare, del multipolarismo
che sta producendo, come dice Bergoglio, una guerra mondiale
frammentata. Ma inevitabilmente getti lo sguardo sul lungo periodo,
quando le contraddizioni di sistema imporranno un approccio nuovo,
che eviti la trappola del decrescismo, perché il problema non è
decrescere e tornare ad epoche premoderne, o peggio ancora negare ai
Paesi emergenti il diritto a sperimentare una crescita del benessere,
ma redistribuire meglio la crescita, sotto il profilo sociale, e
renderla meno impattante sotto quello ambientale.
Tutto ciò già ora, già
adesso, ci impone di rompere i primi equilibri. Non si tratta nemmeno
di dividersi fra europeisti ed antieuropeisti. E’ sufficiente
prendere atto del fatto che questa Europa è irriformabile
dall’interno, in un’area valutaria unica senza trasferimenti
monetari compensativi ed a bassa mobilità del fattore lavoro l’unica
possibilità di cambiare radicalmente le politiche economiche è che
le cambi il Paese leader, ossia la Germania. Cambiamento che la
Germania non farà mai, se non per piccole modifiche marginali e di
modesto impatto complessivo, nemmeno se nel 2017 vincessero i
socialdemocratici, perché cesserebbe di essere il leader regionale.
E quindi occorre, come minimo, preparare con uno sforzo adeguato
strumenti di fuoriuscita, se possibile concordati e ordinati. Se non
possibile, anche unilaterali e bruschi. Anziché dilettarsi su
tatticismi per cui “se non possiamo negoziare il piano A, non
possiamo nemmeno negoziare il piano B” basterebbe aver visto un
film degli anni Sessanta, “l’Inferno di Cristallo”. La
situazione dell’Italia e degli altri Stati europei sottoposti al
dominio germanico è quella del protagonista di quel film che,
all’ottantesimo piano di un grattacielo in fiamme, ha solo due
scelte: scendere dalle scale, con la certezza assoluta di morire
bruciato, oppure gettarsi dalla finestra, sperando che qualcosa freni
la sua caduta, evitando la morte.
L’auspicio è che
almeno una parte di queste brevi riflessioni possa servire a
Risorgimento Socialista per svolgere un ruolo utile, sotto il profilo
culturale e di contributo programmatico, dentro la ricostruzione
della sinistra italiana.
Occorre riflettere sul
piano della prospettiva sociale che RS vuol perseguire. È stato
detto, in modo molto evocativo, che RS intende essere non già un
capitolo della cosiddetta “diaspora socialista” bensì la fuoruscita da
essa. Ciò coinvolge anche emotivamente molti compagni e compagne,
cui va il rispetto per un reale travaglio generazionale. Nondimeno si
tratta di individuare e perseguire un differente percorso: la
ricostruzione di una forza di ispirazione socialista fra quelle
classi sociali e anagrafiche tratteggiate a più riprese nel presente
documento. A costoro poco o nulla dicono diatribe, peraltro sterili,
su questioni di un passato antecedente alla loro nascita o alla
persistente crisi esistenziale che attanaglia la loro generazione.
Per costoro val la pena riprendere la china di un non breve né
facile percorso verso equilibri più avanzati.
7 Dicembre 2015
Riccardo Achilli
Giuseppe Angiuli
Gaetano Colantuono
Norberto Fragiacomo
Ferdinando Pastore
Stefano Santarelli
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