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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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lunedì 28 aprile 2014

LA TRISTE PARABOLA DI PIOMBINO di Riccardo Achilli




LA TRISTE PARABOLA DI PIOMBINO  
di  Riccardo Achilli




Ho lavorato nell'acciaieria Lucchini di Piombino, per qualche tempo, alla fine degli anni Novanta, quando i bresciani, completata la privatizzazione-spezzatino dell'ex ILVA nel 1995, avevano di fatto acquisito quella che era la Divisione Prodotti Lunghi del vecchio colosso pubblico, fatto a pezzi (i prodotti piani a Riva, gli acciai speciali ai tedeschi della Krupp Thyssen, e quelli lunghi, per l'appunto, ai bresciani) contro ogni logica industriale, in un settore in cui le economie di scala e le sinergie sono fondamentali per competere. Il tutto in nome di un diktat europeo, mirato alla riduzione dell'eccesso di capacità produttiva della siderurgia, alle prese con la feroce competizione dal lato dei costi delle siderurgie emergenti della Corea del Sud, dell'India, della Cina, e poi della Russia. 
Una politica insensata, che anziché riqualificare la siderurgia europea, spostarla verso l'alta tecnologia e la compatibilità ambientale, mirava solo a sostenere i margini di profitto, erosi dalla competizione sui costi di produzione dei nuovi colossi siderurgici emergenti, tramite un taglio dell'offerta. 
Una politica industriale rinunciataria e senza prospettiva, basata sul presupposto, molto di moda a fine anni Ottanta, ma poi rivelatosi tragicamente errato, che i nuovi materiali avrebbero, nel giro di un ventennio, reso obsoleto l'uso dell'acciaio. Sulla base di questo diktat, inizò lo smantellamento dell'ILVA, costretta, nel 1989, a chiudere l'acciaieria di Bagnoli (che aveva appena portato a termine un costoso revamping dei treni di laminazione) e quindi indebolita nella competizione internazionale contro gli altri colossi mondiali dell'acciaio, proprio negli anni in cui era in corso la delicatissima operazione di risanamento finanziario della ex Italsider. 
L'indebolimento strutturale, sotto il profilo della capacità produttiva, del gruppo ILVA venne poi bissato, in base al famigerato accordo Andreatta-Van Miert del 1992, dall'obbligo, imposto ad un Paese stremato da una crisi speculativa sul tasso di cambio (che aveva provocato la fuoriuscita della lira dallo Sme) di privatizzare la sua industria pubblica, per ridurre un debito pubblico astronomico (con la conseguenza che l'industria pubblica è stata smantellata senza che il rapporto fra debito pubblico e PIL sia rientrato entro limiti ragionevoli). 

domenica 27 aprile 2014

MIRAMAR, QUASI UN AUTORITRATTO di Norberto Fragiacomo





MIRAMAR, QUASI UN AUTORITRATTO
di
Norberto Fragiacomo



I miei primi ricordi di Miramare (anzi, Miramar, che non è in triestino ma in castigliano!) affondano nella più remota infanzia, e saranno per sempre congiunti a quello di “nono Nino” che mi ci portava con la 500 blu: l’abbagliante castello sull’acqua, gli alberi piccoli e grandi, le vasche coi pesci rossi, i cigni e un giardino da fiaba. Ricordi, appunto – perché cigni e pesci sono spariti nel nulla, inghiottiti dall’incuria, il giardino all’italiana è stato ridotto a un deserto sabbioso. Rimane il castello bianco, maestoso e hollywoodiano ante litteram: il sogno di pietra (d’Istria) di un uomo romantico e sfortunato. Numerose sono le leggende – in gran parte macabre – che avvolgono questa magione, ma la realtà è più affascinante, a parer mio. Miramar, parco compreso, è in fondo un autoritratto – l’autoritratto di Ferdinand Max, figlio secondogenito e imperatore da operetta mutata in tragedia.

mercoledì 23 aprile 2014

I QUATTRO MILIONI DI POVERI CHE NON AVRANNO GLI 80 EURO DI RENZI di Maurizio Zaffarano



I QUATTRO MILIONI DI POVERI CHE NON AVRANNO GLI 80 EURO DI RENZI 
di 
Maurizio Zaffarano 


Il bonus fiscale approvato (?) dal governo Renzi (restando peraltro da definire la platea di beneficiari, le modalità di attuazione e l'effettivo importo pro-capite) ha palesemente la mera funzione di spot elettorale e tale è stato unanimemente riconosciuto, persino da Repubblica l'organo di stampa del renzismo.. Si tratta cioè dell'unico atto concreto in grado di spostare il voto popolare, nella competizione delle Europee decisiva per il futuro di Renzi, in mezzo ad un mare di annunci e di titoli che comprendono di tutto e di più: il lavoro e le riforme istituzionali, gli F35 e i segreti sulle stragi, la burocrazia ed i costi della politica. 80 euro al mese per avere la legittimazione elettorale per portare a conclusione la svoltaautoritaria  e proseguire/implementare quelle politiche liberiste che stanno distruggendo l'Italia. E' la pubblicazione periodica dei dati statistici – sulla disoccupazione, sulla povertà, sulla distribuzione della ricchezza, sul debito, sul calo del PIL e dei consumi, sulla chiusura delle imprese – che riporta tutti alla realtà e dimostra l'insufficienza, l'inefficacia e l'inadeguatezza delle politiche renziane ed il fallimento dei governi di salvezza nazionale degli ultimi anni promossi da Napolitano in ossequio ai voleri della Troika e sostenuti dal PD, da Berlusconi e dall'arcipelago centrista con la servile benevolenza dei cosiddetti 'giornaloni' (Repubblica, Corriere, La Stampa). 

IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE IN POLITICA di Riccardo Achilli





IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE IN POLITICA 
di Riccardo Achilli


Qual è il ruolo dell'intellettuale in politica? Il declino e lo sradicamento della sinistra italiana ripropongono questo tema in modo urgente, che naturalmente va inquadrato nel contesto più ampio del rapporto fra intellettuali e politica. Negli ultimi decenni, questo rapporto, nel nostro Paese, ha subito un profondo degrado. Nel migliore dei casi, l'utilizzo dell'intellettuale viene ridotto a quello di “antenna” che fornisce al politico gli umori della società, e nobilita il messaggio del politico dandogli una forma a volte linguisticamente più raffinata, ma contenutisticamente non diversa (modello-Becchi). Nel peggiore dei casi, l'intellettuale viene sbandierato come una bella figurina che dà lustro al partito, ma quello che dice, nella misura in cui è contrario agli orientamenti della leadership del partito stesso, non viene semplicemente ascoltato (come avviene a numerosi intellettuali che sono stati vicini ai Ds o al Pd, ma si pensi anche al trattamento ricevuto da Gianfranco Miglio dentro la Lega Nord, quando la sua visione di Stato neo-federale e neo-corporativo cozzò con il ben più pratico bisogno di Bossi di negoziare spazi di potere all'interno dell'ordinamento statuale esistente, barattando la rinuncia sia alla secessione sia ad un cambiamento radicale della forma di stato con forme più avanzate di federalismo e di redistribuzione del carico fiscale dal Nord verso il Centro Sud del Paese). Oppure, ancora, l'intellettuale viene ridotto al ruolo del tecnico, che non deve disegnare un modello nuovo di società, ma solo trovare le soluzioni tecnico-normative ed economico-finanziarie più efficienti per rispondere a problemi pratici e contingenti (modello-Tremonti).

martedì 22 aprile 2014

QUANDO LA SINISTRA FALLISCE LA DESTRA AVANZA ...








In un editoriale sul Corriere della Sera del 19 marzo Michele Salvati analizza in modo cinico ma realistico il futuro del Governo. ‘Renzi – scrive – deve dare l’impressione di portare subito a casa risultati (meglio naturalmente se li porta a casa sul serio) che migliorino le condizioni di vita dei cittadini e li invoglino a votare a favore del governo e del partito di chi lo presiede. Altrimenti la sua avventura politica è finita o gravemente compromessa’. Poi deve fare le cose serie, ad esempio ‘far capire al Paese e dimostrare all’Europa che si volta pagina significa saper reggere allo scontro con i sindacati’ e introdurre ‘la possibilità di derogare con contratti locali dal contratto nazionale, se le rappresentanze sindacali locali li approvano’. Per questo – prosegue – ci vuole una "strategia a due tempi, dove nel primo si concentrano misure di sicuro successo popolare e si è reticenti su quelle che dovranno essere adottate nel secondo: inutile crearsi nemici in anticipo". L’organo di partito del salotto buono della borghesia italiana suggerisce a Renzi cosa fare se vuole il sostegno del grande capitale. Oggi siamo in piena fase uno, quella degli spot pubblicitari. Vista la debolezza del Governo Salvati ha ragione: o uno spregiudicato utilizzo della carota per addormentare l’elettorato popolare e preparare le bastonate oppure la rottamazione del rottamatore. I presunti 85 euro in più in busta paga e gli spot anticasta (vendita delle auto blu, abolizione delle Provincie e del Senato, tetto alle retribuzioni dei manager pubblici), ammesso che vadano tutti in porto, sono la carota da dare in pasto all’opinione pubblica. I tagli ai servizi pubblici, le privatizzazioni, l’attacco ai contratti di lavoro (anticipato dalla sostanziale liberalizzazione dei contratti a tempo determinato) sono la copertura finanziaria reale, l’unica consentita dall’Europa, di quegli 85 euro. Che entreranno in busta paga per essere risucchiati subito dopo via sotto altra forma (tasse locali, aumenti tariffari ecc.). Mentre la limatura ai costi della politica, che incide ben poco sui conti dello Stato, è la copertura ideologica per preparare i tagli nel pubblico impiego e la svendita delle aziende e dei servizi pubblici, col consueto contorno di tangenti tali da risarcire abbondantemente la ‘casta’. Ne sarebbero contenti tutti: Merkel, Napolitano, le grandi banche, Confindustria che si lamenta un po’ per avere di più, mentre il sindacato, che da 20 anni chiede poco e si accontenta di ancor meno, rischia di far la fine del maggiordomo. Se collabora bene, sennò "se ne faranno una ragione".

lunedì 21 aprile 2014

LA VIOLENZA E LA RAGIONE, LA SPIRITUALITÀ E LA RABBIA di Giandiego Marigo








LA VIOLENZA E LA RAGIONE, LA SPIRITUALITÀ E LA RABBIA
di Giandiego Marigo



FACCIAMOLI QUINDI ANCHE QUESTI DISCORSI DIFFICILI!
Leggo di molti, compagni, anche fra quelli che più amo e mi sono vicini, che manifestano la necessità impellente ed un poco rabbiosa di un cambiamento e tutta la loro scontentezza per il fatto che  esso tardi o non si prospetti affatto all'orizzonte.
Leggo della convinzione che questa rabbia debba sfociare in una manifestazione palese di ribellione anche violenta.
Alla mia convinzione ed affermazione che la prossima rivoluzione debba essere , soprattutto d'ordine spirituale, questi compagni rispondono, molto spesso, ricordandomi che il potere non rinuncerà a se stesso e non ha alcuna intenzione né di cedere né tanto meno di concedere.

Grazie! Ne sono perfettamente cosciente.

Così come sono cosciente del fatto che, alla resa dei conti, questo stesso potere metterà in campo tutte le sue possibilità e qualità repressive. Eppure permane in me la convinzione che la scelta non violenta e la ricerca della maturazione spirituale debbano essere premesse di fondo … ossature e fondamento del nuovo pensiero progressista.
Vengo da lontano ed ho assistito (ed io stesso ne sono stato parte ed interprete) a come la convinzione che la forza e la violenza fossero , in qualche modo , utili, propedeutiche e necessarie abbia trascinato il movimento , e non solo una volta, in un gorgo da cui sono usciti vincitori solamente i forti, i violenti e gli incazzati, mentre i visionari e gli spiritualisti venivano emarginati e silenziati … in attesa di tempi migliori.
Perché il bello, il sacro ed il buono, l'alternativa culturale, la canzone e lo sberleffo sono relegati ai tempi in cui si può … ai tempi in cui non esista l'esigenza del resistere, del difendere, del riconquistare, del salvare.
È un errore che abbiamo già compiuto, a mio parere, e ben più di una volta.
Eppure, ripensandoci, è palese come il modello prodotto dall'uso e dall'abuso la violenza, non sia e non possa essere, mai, un modello alternativo a questo sistema perché esso stesso è fondato sulla violenza, la chiama e se ne nutre. Così come sulla prevaricazione, l'affermazione di forza, la misurazione muscolare, la selezione del migliore e dell'adatto.
Questo significa, forse, non credere nella forza, nella mobilitazione oppure rinunciare alla lotta ed all'affermazione delle nostre idee e della nostra visione? Niente affatto, non ha nulla a che vedere con la radicalità, con la convinzione e nemmeno con la coscienza della violenza infinita del capitalismo. Non è vuoto e stucchevole pacifismo di maniera.
Significa solamente lasciare al potere l'appannaggio della violenza senza senso ed accettare il rischio di subirla.

Perché e di due visioni alternative di mondo a confronto quello di cui stiamo parlando.
Di due modi d'intendere e di vedere
Di due filosofie e spiritualità differenti che partono da premesse diverse e non omogenizzabili.

Non esiste possibilità di confusione perché l'una viaggia verticalmente e l'altra orizzontalmente l'una si propaga linearmente l'altra circolarmente … sono postulati, premesse che non potranno trovare composizione.
La pratica della violenza verticalizza e rende lineare, impone visioni piramidali, dicotomizza il forte dal debole, preferendo e privilegiando il primo.
Quindi obbliga la mente e l'anima in un cunicolo che può solo portare ad un pensiero “sistemico” e piramidale quindi di negazione della visione altra di cui tutti parliamo e che è premessa d'un mondo diverso.
Non esiste cambiamento se non partendo da queste acquisizioni, queste affermazioni non sono opinabili se non al prezzo di accettare una logica dualistica e di contrapposizione tipica della propaganda e della filosofia del potere.
Mi rendo conto di affrontare un ulteriore scoglio, nel “pensiero di sinistra”, mi rendo conto di mettere in discussione quel “potere che nasce dalla canna del fucile” tanto caro a moltissimi “intellettuali conseguenti.
Mi rendo conto che moltissimi non saranno d'accordo con me.
È molto difficile abbandonare questa convinzione, che è parte, però, delle ragioni fallimentari della nostra storia.
Questa violenza necessaria che non ha mai compreso esattamente come dove e quando fermarsi, finendo sempre con l'accompagnare delle elite a sostituirne delle altre, mantenendo, però, intatto il “rapporto di potere” , le sue funzionalità pratiche ed il suo “percorso di propagazione” e quindi privilegiando la sostituzione al cambiamento.
È anche per questo che nei nostri esperimenti così spesso riproduciamo gli errori che abbiamo commessi sin qui, perché siamo intrisi d'una cultura e d'una filosofia sistemici e non accettiamo il prezzo d'una visione realmente altra.
Che sappia porre, davvero, premesse filosofico-etico-spirituali completamente diverse da quelle che ci hanno fatto crescere e ci “controllano” in questo sistema.
Senza alcun dubbio , a mio umilissimo ed inutile parere, l'uso e l'abuso della violenza e la convinzione che essa sia indispensabile all'affermazione del cambiamento è una di queste “malformazioni” , di questi “errori di postulazione” che commettiamo.



sabato 19 aprile 2014

TUTTI I RISCHI DEL TRATTATO TRANSATLANTICO




L’obiettivo dichiarato del Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) è quello di costruire la più grande area di libero scambio al mondo attraverso l’eliminazione delle barriere, tariffarie e non, che ancora limitano i flussi commerciali tra Europa e Usa. Le previsioni ufficiali in merito ai presunti benefici associati al Ttip non sembrano però esaltare, a fronte della brusca deregolamentazione di cui il Trattato è foriero. È già riscontrabile una divaricazione tra quanto affermano i report ufficiali e gli studi commissionati dalle lobby interessate (la Commissione ha recentemente ridimensionato i dati già forniti ad uno 0.1% di crescita del Pil per entrambe le parti coinvolte nell’accordo, che equivarrebbe ad una crescita risibile dello 0.01% annuo su di un orizzonte di dieci anni. 

giovedì 17 aprile 2014

PER UN CONTROSEMESTRE POPOLARE



PER UN CONTROSEMESTRE POPOLARE

Proposte di confronto e iniziative durante il semestre europeo dell'Italia di Renzi



Il governo Renzi si prepara al semestre italiano nell'Unione Europea con un piano liberista e autoritario che colpisce a fondo la Costituzione. Ce lo chiede l'Europa, dice questo governo come i suoi predecessori. Così abbiamo avuto l'età pensionabile più alta d'Europa e una serie continua di leggi per estendere il precariato, ultima il Jobs Act. L'Italia è il solo paese della Unione Europea che ha messo nella Costituzione la clausola capestro del pareggio di bilancio e ora il governo Renzi si prepara ad una nuova ondata di privatizzazioni e tagli di servizi e di posti di lavoro, coperti dalla concessione di uno sgravio fiscale che verrà pagato con la distruzione di ciò che resta dello stato sociale, anche tramite una “spending review” che, invece di colpire corruzione e privilegi, intende bastonare ulteriormente i più deboli. La democrazia è in pericolo, si costruisce un sistema elettorale ancora più autoritario ed escludente di quello attuale e ovunque, sul piano delle relazioni sociali, crescono le spinte antidemocratiche, di cui é parte fondamentale il recente accordo tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria sulla rappresentanza sindacale, che massacra ulteriormente i diritti sindacali e del lavoro.
Il governo Renzi ha fatto proprio l'obiettivo delle classi dirigenti e dei poteri forti del nostro paese, di usare il vincolo europeo per realizzare una controriforma sociale e politica globale e la crisi è diventata la grande occasione per realizzare il progetto. Ma l'obiettivo della controriforma globale è anche quello che le classi dirigenti europee vogliono imporre in tutto il continente. Per questo l'opposizione al governo Renzi deve oggi essere parte della lotta contro il potere e i vincoli che ci vengono imposti dalla Unione Europea.

Basta con la retorica ipocrita che presenta come un processo democratico quello che è un processo autoritario guidato dai governi liberisti più forti, dalla tecnocrazia e dai poteri economici e finanziari. L'Unione Europea reale è quella che attraverso le politiche di austerità ha risposto alla crisi con decine di milioni di disoccupati in più, è quella che smantella la più grande conquista dei suoi popoli: lo stato sociale. È quella della distruzione dei contratti e dei diritti del lavoro, della precarizzazione, della delocalizzazione e dell'incentivo alla concorrenza selvaggia tra lavoratori. L'Unione Europea reale é quella della chiusura delle frontiere anche ai sopravvissuti delle stragi sul mare, è quella che ha imposto, con i diktat dei governi tedeschi e di quelli succubi della Germania, la sovranità limitata ai paesi debitori, stravolgendovi le regole democratiche e le stesse Costituzioni, è quella che ha massacrato la Grecia, grazie anche ai suoi governi complici, compiendo una politica di sopraffazione che copre di vergogna tutte le sue istituzioni. L'Unione Europea reale è quella che dopo avere imposto patti devastanti come il Fiscal compact e il Mes, ora all'insaputa dei suoi popoli sta trattando con gli Stati Uniti il TTIP, un trattato che mette finanza e multinazionali al di sopra di qualsiasi potere istituzionale.
Così come il governo Renzi, questa Unione Europea è il nostro avversario oggi e non possiamo più subirne le aggressioni senza reagire davvero. Mentre le forze reazionarie in tutto il continente accrescono il loro consenso strumentalizzando la rabbia sociale contro questa Europa, le principali forze politiche del centrosinistra e le grandi centrali sindacali ne appaiono come i principali sostegni. Questo provoca una situazione pericolosissima per la democrazia, che finisce soffocata tra la tecnocrazia finanziaria, i governi social-liberisti, le rivolte reazionarie.

Vogliamo usare il semestre italiano per costruire l'opposizione, la contestazione, l'alternativa al governo Renzi e al sistema di potere europeo di cui è parte e che lo sostiene. L'Italia è ancora indietro su questo terreno. I movimenti reali e le lotte sociali hanno finora faticato ad individuare le controparti e gli avversari da combattere. A differenza che negli altri paesi del sud Europa massacrati dalle politiche dell’Unione Europea, della Troika e dei governi liberisti, in Italia non abbiamo ancora visto nelle strade una lotta democratica di massa contro l'Unione Europea e i suoi vincoli all’altezza della gravità della situazione. Questo ha indebolito le lotte e soprattutto dato spazio alle forze leghiste e del populismo di destra. Se si vuole uscire dalla tenaglia tra le politiche liberiste e autoritarie del governo Renzi e i lepenismi, bisogna costruire rapidamente un campo democratico e anticapitalista contro questa Unione Europea. Per questo proponiamo a tutte le forze che si oppongono ad essa e al governo Renzi e che rifiutano entrambi, nel nome del lavoro, dei diritti sociali, dei Beni comuni e della democrazia, di incontrarsi per definire un percorso comune, partendo da tre scelte di fondo.

1) L'opposizione al liberismo di Renzi e dei governi europei di centro destra e centro sinistra e a tutte le controriforme .
2) La lotta per abbattere le politiche di austerità e i trattati e i vincoli che le impongono.
3) Il contrasto alla deriva autoritaria sia sul piano del sistema politico che delle relazioni sociali, dalla legge elettorale del governo Renzi all'accordo sindacale del 10 gennaio.

Partendo da questi punti intendiamo proporre la costruzione di un’alleanza di forze diverse, che si muovono assieme contro la disoccupazione e per i diritti del lavoro e i Beni comuni, contro le privatizzazioni e per il rilancio del pubblico e dei diritti sociali, contro l'autoritarismo, per la democrazia politica e sindacale, per la partecipazione.
Il nostro obiettivo é giungere al semestre di presidenza italiana della Unione Europea dando avvio ad un Controsemestre del lavoro, dei diritti sociali, dei Beni comuni e della democrazia, che si contrapponga ai contenuti liberisti del governo Renzi e dell’Unione Europea per tutta la durata del semestre italiano.

Per definire la piattaforma e il percorso del Controsemestre popolare, proponiamo un primo incontro il 23 aprile, alle 15.30, a Roma, in via Galilei 53 (fermata metro A, Manzoni)

Prime firme proponenti:

Giorgio Cremaschi - Ross@
Confederazione Usb
Confederazione Cobas
Rete 28 Aprile - Cgil
Rete dei Comunisti
Sinistra Anticapitalista
Militant – Rete Noi Saremo Tutto


martedì 15 aprile 2014

ROMA, 12 APRILE: UN TEMA LIBERO DA INSUFFICIENZA NETTA di Norberto Fragiacomo




roma, 12 aprile
un tema libero da insufficienza netta
di
Norberto Fragiacomo



Roma, nuvole e sole.
Sono sceso in treno da solo, il giorno avanti: con i compagni triestini di Ross@ c’eravamo dati appuntamento a Porta Pia. L’indomani non li ho trovati, né loro né lo striscione che progettavamo di seguire – con Giorgio Cremaschi, incontrato per caso nelle vicinanze di Termini, sono almeno riuscito a scambiare due parole.
Così alla dimostrazione di sabato ho partecipato (si fa per dire) al fianco di Santarelli, romano di BRIM, e di una compagna venuta da fuori: il resto della pattuglia di blogger e futuri colleghi ha marcato visita. I manifesti affissi ai muri annunciavano un corteo “meticcio, antifascista e antirazzista”, formula che – giustamente - ha fatto imbestialire Stefano. Meticcio? E che accidenti significa? Gli altri due aggettivi, poi, sono tautologie: che una manifestazione di sinistra sia antifascista e contro il razzismo è scontato, come dire che una marcia si fa a piedi. Ovvietà fuori tema, tra l’altro: a Palazzo Chigi non bivacca uno di CasaPound, e l’austerity imposta dall’Unione affama le masse senza badare a provenienze e colori. D’accordo, qualche riga più in basso stava scritto che avremmo sfilato contro il distruttivo Jobs act e il governo Renzi, ma nel suo complesso il messaggio era generico e assai confuso. Troppa carne al fuoco e, assaggiandola, l’avremmo trovata cruda e, purtroppo, di nuovo al sangue.

Passo davanti a Porta Pia che sono da poco scoccate le undici del mattino, sotto un cielo torvo: un antipasto di manifestanti, che giungono alla spicciolata o a gruppi. Le compagnie indossano quasi tutte panni scuri, gli sguardi sono decisi: pare che dai centri sociali del nordest sia in arrivo gente tosta. Non proprio una bella notizia, penso, mentre mi imbatto nei primi agenti chiusi nelle loro armature modulari, roba da film di Hollywood.
Alle due del pomeriggio sono ancora abbastanza in pochi a far compagnia al bersagliere di bronzo: duemila persone, forse. Quelli che di solito riempiono le piazze (Fiom, Rifondazione) non si son fatti vedere; scorgo Paolo Ferrero che, sigaro in bocca, discute con Cremaschi. Intorno ondeggiano i vessilli dell’universo comunista: ci sono la Rete, quelli del PMLI, i militanti del Partito Comunista dei Lavoratori, Sinistra Popolare di Marco Rizzo (lui però non lo vedo). Tutti loro, se non altro, hanno individuato gli avversari nell’Unione Europea e in Renzi – ma sono un’esigua minoranza in una folla tutt’altro che oceanica. A pochi passi da noi si raggruppano giovani in nero, con zaini e (alcuni) pure con caschi: ci togliamo rapidamente di mezzo.

PARTIGIANI A TRIESTE





Presso la Libreria Minerva - V knijžnici Minerva 
Trieste - Via San Nicolò 20
Mercoledì 23 aprile 2014 alle 18.30 – V sreda , 23. april 2014, ob 18.30
Presentazione del libro - Predstavitev knjige
Partigiani a Trieste”
I Gruppi di Azione Patriottica e Sergio Cermeli
Hammerle Editori
Introduce: Marta Ivašič
Knjigo bosta predstavila Marta Ivašič
Sarà presente l'autore - Prisoten bo avtor
Sergio Mauri
Segue dibattito - Sledi razprava




lunedì 14 aprile 2014

12 APRILE: RIFLESSIONI "SCOMODE"


















13 aprile. Stendiamo un pietoso velo sul comportamento dei gruppi che ieri, vestiti di nero o di blu, han cercato lo scontro ad ogni costo in una Roma in Stato d'assedio. Lo distanza tra l'obbiettivo conclamato (attacco al Ministero del lavoro) e la capacità di metterlo in atto è stata siderale. Quando le forze di polizia hanno sferrato la prevedibile carica chi lo scontro cercava, e aveva il dovere di almeno difendere il resto del corteo, se l'è data a gambe levate.

Un'altro è l'elemento su cui chi ha puntato e scommesso sul successo di questa manifestazione deve riflettere. Lo scarso numero dei partecipanti (un quarto, forse meno, di quelli che parteciparono alla manifestazione omologa del 19 ottobre scorso) ha significato un sonoro fallimento.

Abbiamo la sensazione che la manifestazione di ieri, con la sconfitta subita, segni uno spartiacque. Ci sono segnali che nel frastornato poliverso dell'estrema sinistra possa finalmente aprirsi un dibattito affinché ci si lasci alle spalle concezioni e pratiche sterili che non portano da nessuna parte. Il ritardo, a cinque anni dalla più grave crisi economica che si ricordi, è riprovevole, ma meglio tardi che mai.

domenica 13 aprile 2014

MANIFESTARE LA VIOLENZA di Francesco Salistrari






MANIFESTARE LA VIOLENZA 
di Francesco Salistrari


Non basta più gridare la volontà di cambiamento, bisogna rivoluzionare gli strumenti di lotta



Ancora scontri con la PoliziaIeri a Roma. Di nuovo guerriglia tra manifestanti e poliziotti, di nuovo l’eterna guerra tra poveri voluta e cercata dai tanti che hanno interesse solo a che le proteste finiscano in massacro, che le idee vengano cancellate dal dibattito, che quello che resti, di una manifestazione, siano solo gli schizzi di sangue ed il disgusto.

Basta!

Il mondo è cambiato. E’ cambiato tutto. La sacrosanta protesta di un popolo contro le ingiustizie, i soprusi, i diritti negati, la protervia e la corruzione del potere, non può non cambiare con esso. Pena l’annientamento, l’annichilimento, la sconfitta, l’oblio.

Gli anni Settanta sono finiti. Non si può più continuare ad usare gli strumenti e i metodi di lotta di un’epoca passata, seppellita sotto un cumulo di cambiamenti che hanno stravolto rapporti di forza e condizioni sociali, abito mentale ad un intero corpo sociale, che hanno mutato le stesse risposte del potere.

Il corteo, la manifestazione, la sfilata di protesta, intese classicamente, non servono più a nulla. Per ragioni pratiche, prettamente pratiche, ma anche teoriche, ideologiche.

UNA BREVE NOTA SUGLI SCONTRI DI ROMA di Stefano Santarelli




UNA BREVE NOTA SUGLI SCONTRI DI ROMA
di Stefano Santarelli


Che ieri ci sarebbero stati scontri era già facilmente intuibile soltanto limitandosi a passeggiare a Porta Pia dove doveva partire il corteo il quale ha aspettato ben due ore prima di muoversi. Un corteo, questo va detto, estremamente pacifico e festante.

Quello che appariva subito evidente era la mancanza di una direzione politica e organizzativa della manifestazione. Era infatti emblematico un manifesto dell’area, chiamiamola antagonista, che propugnava un “corteo meticcio, antirazzista e antifascista” e lo striscione iniziale del corteo era per la difesa del diritto alla casa, certamente un diritto sacrosanto figuriamoci, ma in questo contesto erano parole d’ordine che definire più che generiche è dire poco specialmente per una manifestazione che oggettivamente rappresentava la prima protesta di piazza contro il Governo Renzi/Berlusconi e che non denunciava, come abbiamo visto, con la dovuta forza la criminale politica dell’Unione Europea verso i ceti più deboli della nostra società.

Questo corteo ha visto una partecipazione estremamente ridotta rispetto alle giornate del 18 e 19 ottobre, e di questo dovremmo tutti quanti riflettere.

Fin dall'inizio è stato letteralmente circondato da imponenti forze di polizia che aspettavano solo un pretesto per attaccarlo. E tale pretesto è stato immediatamente fornito dai cosidetti Black Bloc (anzi oggi Blu Bloc) che costituivano, come negli scontri di due anni fa, una esigua minoranza non rappresentativa del corteo, un corteo che come allora non era dotato di un minimo di Servizio d’ordine.

Questa manifestazione è finita quindi nel peggiore dei modi con scontri violentissimi che hanno coinvolto come al solito non i provocatori ma i pacifici manifestanti ed è emblematico l’atteggiamento della polizia che all’inizio ha lasciato campo libero ai Black Bloc per poi caricare violentemente a Piazza Barberini il corteo.
Il Governo Renzi/Berlusconi si è mostrato quindi con il suo vero volto, un volto violento ed insensibile alle tematiche sociali che questa manifestazione, sia pure con tutte le sue contraddizioni, portava avanti.

Un bruttissimo segnale a cui corrisponde una incapacità di tutta la sinistra radicale a essere veramente alternativa a questo stato di cose.



giovedì 10 aprile 2014

Italia (Europa) 2014: politiche industriali di sinistra o lotta di classe?



Considerazioni intorno al libro "Dove sono i nostri. Lavoro classe e movimenti nell'Italia di Clash City Workers

di 
Stefano Macera

Non dovrebbero sorprendere i consensi sin qui ricevuti dal libro Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi (La Casa Usher, Lucca, 2014). E’ infatti positivo che qualcuno si ponga l’obiettivo di affrontare seriamente la “questione delle questioni”, ossia com’è formato, oggi, il proletariato italiano. 
Non si usa qui a caso l’avverbio seriamente. Troppo spesso tale nodo decisivo viene risolto aprioristicamente, ad esempio definendo la nostra classe di riferimento sulla base dell’intuizione, più o meno fondata, di alcune tendenze della realtà sociale e produttiva, senza successive verifiche di alcun tipo. 
Di contro, vi è anche chi si basa esclusivamente sulla prassi quotidiana, per cui i soggetti raggiunti dal proprio intervento (che siano i disoccupati organizzati nelle liste o, poniamo, chi lavora nelle cooperative sociali) diventano automaticamente quelli centrali, le cui caratteristiche sarebbero rivelatrici della generale condizione degli sfruttati. 
In Dove sono i nostri, invece, ci si confronta con statistiche che riguardano l’intero mondo del lavoro in Italia. Si tratta di elementi di conoscenza forniti dagli istituti di ricerca di quella controparte che, rispetto a noi, ha ben altra intelligenza dell’attuale situazione delle classi sociali. 
Tale approccio, mirante ad avere lo stesso sguardo globale del padronato, per meglio perseguire obiettivi ad esso contrapposti, è già una novità dirompente rispetto alla canonica filosofia dell’antagonismo sociale. 
Tanto da produrre immediatamente un effetto: che “i nostri” – intesi nella loro totalità – tornano a riprendersi la scena, ad essere di nuovo i protagonisti di una discussione in cui, per molto tempo, sono stati presenti in modo frammentario. 
Il fatto è che alla logica, appena accennata, per cui si tende ad assolutizzare l’importanza dell’unico segmento di classe con cui si ha una relazione stabile si assomma, spesso, la subalternità ai messaggi veicolati dai media ufficiali. Tanto che ci sono interi pezzi del movimento italiano che si occupano solo delle lotte tra capitale e lavoro che “bucano lo schermo”. 
Così, dall’Innse di Milano agli autoferrotranvieri di Genova, abbiamo avuto tutta una serie di episodi conflittuali che, pur suscitando entusiasmo, sono stati perlopiù considerati isolatamente. Oggi, sulla base del contributo fornito da Clash City Workers con questo libro, si può finalmente tentare di inserirli in un contesto più ampio, cominciando a definire come i soggetti sociali che li hanno animati si collocano all’interno di quello che è il proletariato italiano odierno. 

Limiti del dibattito a sinistra 
Qualcuno, per giustificare almeno parzialmente tali limiti “di visione” del ceto militante, dirà che la frammentarietà si lega anche al modo in cui ci si è presentata la “classe” nell’ultimo ventennio, in seguito alle trasformazioni della sfera produttiva e del mercato del lavoro. 
In effetti, da tempo, ciò che risulta immediatamente visibile è la sua dispersione in una miriade di figure sociali diverse, subordinate al padronato tramite le forme contrattuali più variegate e sparpagliate in unità produttive spesso molto piccole. 
Ma siamo propri sicuri che questa sia la realtà oggettiva e non piuttosto un’apparenza, in cui elementi concreti si fondono con rappresentazioni? 
Purtroppo alcuni, per schivare certe difficoltà di lettura, sono fuggiti anche concettualmente dai posti di lavoro, sviluppando la convinzione che sia possibile raggiungere “i nostri” solo nella dimensione territoriale, cercando di organizzarli in lotte come quelle per la casa, i trasporti gratuiti, i servizi sociali. 
Ma dando per scontata l’impossibilità di intervenire con continuità nei luoghi di lavoro, sono state rese più deboli le stesse, importanti battaglie portate avanti nello spazio metropolitano. Che essendo, in sostanza, lotte per il “salario indiretto”, possono trarre più d’un beneficio dal legame stabile con le resistenze in atto nei posti di lavoro in varie parti della penisola. 
A questo, complessivo atteggiamento d’una parte cospicua dell’antagonismo sociale, va aggiunta la spinta legata ad alcuni dei più noti “economisti di sinistra”. I quali, in questi anni, hanno avuto il merito di rompere con il pensiero unico liberista, con il riformismo delle continue ridefinizioni del mercato del lavoro a vantaggio della Confindustria, offrendo un altro, stimolante punto di vista. 
Ma anche il loro discorso ha dimostrato delle falle, forse generate dalla tendenza a fare i consiglieri del principe. 
In sostanza, l’assenza di organizzazioni politiche e sindacali capaci di collocarne il contributo in quello che una volta si sarebbe definito progetto proletario, ha spinto studiosi che pur si rifanno alla lectio marxiana a rivolgersi, idealmente, al sistema paese nel suo complesso (implicitamente, anche a chi lo amministra). 
Con l’idea di suggerire i termini di una politica industriale capace di evitare all’Italia un declino rovinoso, coincidente addirittura con la perdita totale del suo apparato produttivo. 
Tale approccio si è purtroppo saldato con quello di una parte della sinistra di classe, contribuendo a rendere meno visibili “i nostri”. 
Il punto è che concentrandosi troppo sulle oscillazioni mensili delle tabelle dell’import/export, si sono persi di vista i dati concernenti quel che avviene realmente nel laboratorio della produzione. 
Se ne fosse maggiormente tenuto conto, l’evidente calo di posizioni dell’Italia nella competizione globale sarebbe stato diversamente collocato. Evitando di dare per scontato un futuro prossimo basato sulla centralità esclusiva dei servizi e del turismo. E ponendosi qualche problema prima di definire periferia1 il belpaese. Non suona forse strana l’evocazione di un passaggio repentino dal rango di potenza industriale di prim’ordine a quello di paese in via di sottosviluppo? 
Certe forzature sembrano attenere al ruolo che, in qualche modo, si è assunto. E’ come se questi economisti ritenessero che – estremizzando alcuni aspetti della realtà – la loro voce possa avere maggiori possibilità d’ascolto. 
Ma non dilunghiamoci troppo. Quel che va segnalato è che nel testo realizzato da Clash City Workers si superano brillantemente alcune delle contraddizioni insite negli angoli visuali sin qui delineati. 

lunedì 7 aprile 2014

IL CORO PARTIGIANO TRIESTINO "PINKO TOMAZIC" CANTA LA STORIA SOGNANDO PIAZZA DEL POPOLO




il coro partigiano triestinoPinko Tomažič” canta la storia, sognando piazza del popolo

di
Norberto Fragiacomo

Incontro con i (disponibilissimi) coristi di Padriciano, recentemente insigniti della massima onorificenza slovena: musica di “superqualità”, ma soprattutto cuore

Quella del martedì è tradizionalmente serata di prove, per i musicisti del Coro Partigiano Triestino/Tržaški Partizanski Zbor “Pinko Tomažič: il ritrovo è alle otto e mezza in sede, una specie di magazzino (fu centro di accoglienza per i profughi provenienti dall’Istria) sulla strada che da Basovizza conduce a Padriciano. Non è la prima volta che assisto, in compagnia di mia sorella, e l’accoglienza è calorosa; in attesa dell’inizio, giovani e meno giovani (la stragrande maggioranza, ma non mancano i quindicenni) si punzecchiano a vicenda con witz e battute, in un’atmosfera rilassata. Poi prendono posto in sala, e mi accomodo anch’io. Grazie alla bonomia del vicino, che mette in comune il librone con gli spartiti (oltre un centinaio tra inni e canzoni, in varie lingue, e ciascuno ha il suo), riuscirò a seguire e canticchiare qualche ritornello… per rendermi conto, ben presto, che un’attività in apparenza naturale e spontanea richiede preparazione e studio adeguati: non basta certo un po’ di pratica in osmiza. Splendide voci, ma l’eccesso virtuosistico di un paio di (bravi) tenori viene immediatamente biasimato dalla direttrice, Pia Cah; tromba e fisarmonica accompagnano, e a volte trascinano.
Dopo due ore di sessione entusiasmante e, a tratti, goliardicamente caotica, viene il momento da me atteso dell’intervista-chiacchierata con la presidentessa Rada Zergol e il fisarmonicista Miran Pečenik; la sala si è rapidamente svuotata, in una stanza attigua i coristi si stanno già rifocillando con vino e affettati misti (anche la marenda finale pare essere un’apprezzata tradizione!).

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