roma, 12 aprile:
un tema libero da insufficienza netta
un tema libero da insufficienza netta
di
Norberto
Fragiacomo
Roma, nuvole e sole.
Sono sceso in treno da solo, il giorno avanti: con i compagni triestini
di Ross@ c’eravamo dati appuntamento a Porta Pia. L’indomani non li ho trovati,
né loro né lo striscione che progettavamo di seguire – con Giorgio Cremaschi,
incontrato per caso nelle vicinanze di Termini, sono almeno riuscito a
scambiare due parole.
Così alla dimostrazione di sabato ho partecipato (si fa per dire) al
fianco di Santarelli, romano di BRIM, e di una compagna venuta da fuori: il
resto della pattuglia di blogger e futuri colleghi ha marcato visita. I
manifesti affissi ai muri annunciavano un corteo “meticcio, antifascista e
antirazzista”, formula che – giustamente - ha fatto imbestialire Stefano.
Meticcio? E che accidenti significa? Gli altri due aggettivi, poi, sono
tautologie: che una manifestazione di sinistra sia antifascista e contro il
razzismo è scontato, come dire che una marcia si fa a piedi. Ovvietà fuori
tema, tra l’altro: a Palazzo Chigi non bivacca uno di CasaPound, e l’austerity
imposta dall’Unione affama le masse senza badare a provenienze e colori.
D’accordo, qualche riga più in basso stava scritto che avremmo sfilato contro
il distruttivo Jobs act e il governo Renzi, ma nel suo complesso il messaggio
era generico e assai confuso. Troppa carne al fuoco e, assaggiandola, l’avremmo
trovata cruda e, purtroppo, di nuovo al sangue.
Passo davanti a Porta Pia che sono da poco scoccate le undici del
mattino, sotto un cielo torvo: un antipasto di manifestanti, che giungono alla
spicciolata o a gruppi. Le compagnie indossano quasi tutte panni scuri, gli
sguardi sono decisi: pare che dai centri sociali del nordest sia in arrivo
gente tosta. Non proprio una bella notizia, penso, mentre mi imbatto nei primi
agenti chiusi nelle loro armature modulari, roba da film di Hollywood.
Alle due del pomeriggio sono ancora abbastanza in pochi a far compagnia
al bersagliere di bronzo: duemila persone, forse. Quelli che di solito riempiono
le piazze (Fiom, Rifondazione) non si son fatti vedere; scorgo Paolo Ferrero
che, sigaro in bocca, discute con Cremaschi. Intorno ondeggiano i vessilli
dell’universo comunista: ci sono la Rete, quelli del PMLI, i militanti del
Partito Comunista dei Lavoratori, Sinistra Popolare di Marco Rizzo (lui però
non lo vedo). Tutti loro, se non altro, hanno individuato gli avversari
nell’Unione Europea e in Renzi – ma sono un’esigua minoranza in una folla
tutt’altro che oceanica. A pochi passi da noi si raggruppano giovani in nero,
con zaini e (alcuni) pure con caschi: ci togliamo rapidamente di mezzo.
Il tempo trascorre, la forzata immobilità innervosisce e sfibra: ci
sediamo sul ciglio di un marciapiede, ad osservare. Musica e canti sono
sovrastati dal ronzio cupo degli elicotteri dell’Arma, che volano abbastanza
bassi. Pian piano la piazza si va riempiendo, anche se Stefano minimizza i
nostri numeri, e afferma di riconoscere un sacco di facce. Gli habitué delle
manifestazioni romane? Probabile: l’evento – o come diavolo vogliamo chiamarlo
– è stato pubblicizzato con parsimonia, persino i siti antagonisti erano parchi
di informazioni al limite della reticenza. Sfilano fisionomie di giovanotti
combattivi e di idealisti in là con gli anni; nella calca si aggirano i
venditori di birre tenute al fresco, che reclamizzano il prodotto con voci
stentoree da treno in sosta.
Dopo due ore abbondanti di attesa, necessità fisiologiche ci impongono la
ricerca di un bar: finalmente ci si sgranchisce un po’, perché i locali nelle
immediate vicinanze sono chiusi. Una birretta al tavolo ci ruba un quarto
d’ora, o forse più: al nostro ritorno il corteo è già partito. Abbiamo con noi
una mappa del percorso piuttosto esplicativa, visto che nomina il ministero
dell’economia e quello del lavoro: proviamo ad inseguire i fuggitivi, e
immancabilmente perdiamo l’orientamento. Corteo alternativo, scherzo, composto
da ben tre persone… che raggiungono infine la coda di quello vero in via
Barberini. La massa umana, abbastanza diluita, occupa il centro della strada;
sui marciapiedi camminano turisti e “civili”. Lo spezzone più numeroso in
retroguardia è quello del PCL, munito di servizio d’ordine (5-6 compagni);
seguono persone di mezza età con qualche bandiera di Rifondazione e una dei
Comunisti italiani. Dietro di loro avanza la polizia. Proviamo a muoverci come
un pesce nel laghetto ed entriamo in piazza. Sullo sfondo dei palazzi di via
Veneto noto una macchia blu, che scambio per divise di poliziotti – sono invece
i blue bloc, la novità del giorno, che assediano il ministero del lavoro. Volgo
lo sguardo a destra, al di là dell’Hotel Bristol – che, se non mi sbaglio, ha
spesso ospitato Renzi – e ciò che vedo mi inquieta: su in alto l’imboccatura di
via S. Basilio è ermeticamente chiusa da un fittissimo cordone di carabinieri
in tenuta antisommossa. Sono in troppi per presidiare semplicemente una via
d’accesso, e sono pronti a scattare. Cosa aspettano? Che i ritardatari guadagnino
la piazza, mi dico: a quel punto i dimostranti, ammassati nel budello
Barberini, saranno circondati da ogni lato, senza vie di fuga, e la mattanza
potrà avere inizio. Indico le uniformi ai miei compagni, che continuano a
bighellonare curiosi, e suggerisco una provvidenziale ritirata. Incrociamo
ancora una volta quelli del PCL: scandiscono slogan contro la borghesia da
bastonare, e Stefano – che nel frattempo mi ha insegnato cosa sia uno “stalin”
(senza baffi) – schiuma di rabbia: sono degli irresponsabili a gridare
sciocchezze del genere, degli autolesionisti! Non gli passa per la testa che la
principale vittima della crisi è proprio la piccola borghesia ridotta sul
lastrico da licenziamenti, chiusure di negozi e tagli al welfare? Io invece non
do troppo peso a quegli slogan, che derubrico a folklore: le dimostrazioni
sono, per i movimenti organizzati, occasioni ghiotte per mettersi in mostra,
per proclamare un sonoro “esistiamo”. Tra l’altro, il volantino del partito che
tengo ripiegato in tasca è pienamente condivisibile… non penso che un coro
(secondo me) ad uso interno possa fare gravi danni.
Quelli li causeranno i manganelli, sospiro mentre ci disimpegniamo, anche
se l’augurio è che tutto finisca bene. Non andrà così. Nel pub irlandese a poca
distanza da S. Maria Maggiore non si odono urla, se non quelle di tre o quattro
tedesche attempate che esultano per una vittoria del Borussia sul Bayern, ma le
notizie arrivano comunque, via smartphone: un uomo ha perso la mano per un
petardo, tra via del Tritone e la piazza-trappola ci sono state cariche
selvagge dei celerini, all’insegna del “Dio si prenderà i suoi”. Le immagini
della ragazza a terra, protetta dal (da un?) compagno e calpestata da un agente
non hanno ancora fatto il giro del web, ma quello che c’è da sapere è già noto.
Quando la polizia carica, non c’è legge che tenga: la Costituzione, il sacro
diritto di manifestare finiscono sotto gli anfibi. I “cattivi”, grazie ad un
minimo di addestramento, si destreggiano meglio, spesso riescono a dileguarsi;
per i pacifici dimostranti imbottigliati non c’è scampo. Offrono minor resistenza,
ma non è soltanto questo: ogni manganellata in testa o sulla schiena è una
lezione scientificamente impartita, una severa esortazione a non farsi più
vedere in strada, a chinare il capo dinanzi al Potere. Violenza gratuita,
brutale, ma nient’affatto insensata. Ricordo un pomeriggio di luglio di tredici
anni fa: studiavo per l’orale di avvocato, porgendo un orecchio distratto ai
lanci d’agenzia provenienti da Genova. Ero sul punto di condannare i
facinorosi, da bravo suddito italico, quando mi imbattei in una diretta di
Rai3, e vidi… vidi quattro poliziotti massicci e bardati che correvano dietro a
una ragazza, l’atterravano, infierivano su di lei. Fui preso dall’agitazione e
dall’angoscia: urlai, nel soggiorno di casa, che di fronte a quella vile ingiustizia
avrei reagito… che chiunque avrebbe dovuto reagire! Lo penso ancora, ma una
piazza non è un salotto: quando l’orda corre nella tua direzione ti smarrisci,
perdi il lume della ragione, vieni sopraffatto da emozioni primordiali che non
lasciano spazio al calcolo, alla riflessione. Ira spaventata e impotente... non
mi pento perciò di aver “disertato” stavolta, anche perché le mie tecniche di
autodifesa si riducono a un Osotogari e a un O goshi appresi (male) a sette
anni, e mai utilizzati. Questa onesta considerazione mi spinge ad ammirare il
gesto di quel giovane insanguinato che, anziché fuggire, ha difeso col suo
corpo un altro essere umano: nel Paese della retorica dei “tutti eroi”, costui
una dose di eroismo l’ha dimostrata. Solidarietà ed altruismo, possibili
antidoti al male che ci soverchia e schianta le nostre vite. Il capo della
polizia Pansa ha prontamente scomunicato l’agente che si è accanito sulla
ragazza urlante, additandolo come l’unica mela marcia in un lussureggiante
frutteto. Che squallida ipocrisia! Semplicemente è stata l’unica mela marcia ad
essere immortalata da un fotografo: pagherà per tutte le altre, che riempiono cesti
rimasti invisibili ai flash.
L’epilogo era comunque prevedibile, la manifestazione un fallimento
annunciato: obiettivi vaghi, babele di messaggi, totale assenza di
organizzazione e servizio d’ordine, un numero di partecipanti modesto (ben
lontano dai 15-20 mila dichiarati) che ha facilitato l’attuazione di un piano accuratamente
ideato. L’attacco a tenaglia è il prodotto di menti raffinate, l’assedio “né
carne né pesce” ai palazzi roba da dilettanti. Perché delle due l’una: o si è
capaci di radunare un’immensa folla in grado di circondare pacificamente i luoghi del potere oppure si opta per
l’insurrezione, per la presa del Palazzo d’Inverno (che, cent’anni fa, non
provocò spargimento di sangue, ma fu condotta con maestria e mezzi adeguati);
la terza via mena dritti al pestaggio di Piazza Barberini, ennesima replica di
una serie infinita. D’altro canto, disperazione a parte, per un moto
rivoluzionario sono necessari alcuni ingredienti, oggi indisponibili (forze
organizzate, capi, strategie e scopi precisi, consapevolezza diffusa… e i suoi
surrogati la CIA mica te li regala!), mentre episodiche adunate pacifiche – v.
Grecia, Portogallo, Spagna ecc. – non solo si prestano ad infiltrazioni, ma
vengono liquidate con un’alzata di spalle dai governi al soldo del
neoliberismo. Non siamo più nel 2002, rendiamocene conto.
Allora aveva probabilmente ragione Massari quando affermava, annorum fa,
che il format “corteo” è oramai superato, e servono risposte nuove. Sulla
freccia Roma-Venezia, preoccupato dalla raffica di cancellazioni di treni che
mi attendeva a Mestre, riflettevo che uno sciopero ferroviario è assai più
incisivo di una grande manifestazione pomeridiana, e che un pugno di persone
determinate (ricordate quanto avvenne lo scorso dicembre?) può bloccare, per
qualche giorno, un intero Paese. Iniziative di solidarietà diffusa con i
lavoratori delle tante fabbriche a rischio potrebbero sortire effetti, se
assumessero carattere di stabilità;
le mobilitazioni andrebbero affiancate da altre forme di lotta innovative e non violente, in maniera da
mettere in seria difficoltà il regime.
De profundis per i
variopinti, festosi cortei? Niente affatto: quello del Primo Maggio – occasione
per stare insieme e sentirsi parte di un tutto – non me lo perderei per nulla
al mondo… non sono evidentemente sporadiche marce, però, il grimaldello con cui
scassinare la cassaforte del capitale.
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