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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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sabato 31 dicembre 2011

Un discorso di fine anno in tre sole parole.


di Carlo Felici

La lettera del Presidente Napolitano inviata ieri a Repubblica ci consente alcune riflessioni nel merito dei suoi contenuti e della loro aderenza a determinati principi ai quali si fa riferimento.

Prima osservazione, Napolitano scrive: “Particolarmente acuta è oggi per le forze riformiste l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di sistemi di Welfare State in Italia e in Europa. Ebbene, per comprendere e affrontare le sfide di un’economia di mercato globalizzata, rimuovendo incrostazioni corporative e assistenzialistiche rimaste ancora pesanti nel nostro paese, la lezione di Luigi Einaudi può suggerire riflessioni e stimoli fecondi. Ci si può, naturalmente, chiedere innanzitutto come e perché quel filone di pensiero liberale abbia incontrato sordità e suscitato contrapposizioni nell’area del riformismo e, più concretamente, nella sinistra legata al mondo del lavoro, quando prese corpo, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, una nuova dialettica politica democratica nell’Italia repubblicana. In effetti, i termini di quella dialettica furono drasticamente segnati da una conflittualità ideologica che discendeva in larga misura dal contesto internazionale presto precipitato nella guerra fredda.”

Tralasciando di considerare cosa dicesse in quegli stessi anni lo stesso Napolitano che prese le difese dell'URSS quando invadeva l'Ungheria, perché poi, in effetti, lui stesso se ne è pentito amaramente, (un fatto che comunque ci dà una certa idea della “sordità”) la questione effettiva è: davvero quel filone di pensiero nacque con intenti minimamente paragonabili a quelli che oggi Napolitano mette in risalto? Per cioè perseguire nuovi equilibri economici e sociali che avessero come finalità l'essere “maggiormente competitivi”? Per “rimuovere incrostazioni corporative e assistenzialistiche”, magari addebitabili sempre e comunque all' “impaccio sindacale”?
Cosa diceva Einaudi dei sindacati, ad esempio? Ebbene, i sindacati «non contraddicono lo schema della concorrenza, ma sono uno strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello schema» ( Einaudi: Liberismo e Comunismo, in “Nuovi Argomenti” – 1941)
Il liberismo einaudiano (ma sarebbe più appropriato parlare di liberalismo) consiste in un “metodo di libertà», che «riconosce sin dal principio il potere di versare nell’errore” questo vuol dire che «la libertà vive perché vuole la discussione fra la libertà e l’errore; sa che, solo attraverso l’errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla verità. (…) Trial and error; possibilità di tentare e di sbagliare; libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi».
Si può minimamente considerare di confrontare ciò con la pratica dell'adeguamento alle regole dei mercati ai quali non si riconosce alcuna possibilità di errore? Verso i quali nessuna regola “correttiva” si pone in vigore, in ambito nazionale ed internazionale?
E se i mercati agiscono secondo logiche monopolistiche e speculative, ci dobbiamo mettere necessariamente, come rileva Napolitano, nella situazione di adattarci ai “condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato”? Cambiato in base a cosa? Certamente in base al fatto che l'oligopolio capitalista, oggi, rispetto ai tempi di Einaudi, è molto più forte ed aggressivo e sicuramente più distruttivo in termini di impatto ambientale e di guerre ai danni di popoli poveri e destinati ad un ruolo sempre più marginale.
Einaudi era molto determinato nel contrastare tale monopolismo, anzi, potremmo dire che questo era uno dei presupposti cardine del suo pensiero. E proprio per spezzare tale eventualità sul nascere, Einaudi metteva in risalto la necessità che lo Stato si dovesse impegnare per rimuovere gli impedimenti politici, quindi le leggi, che minano il funzionamento della libera concorrenza e competizione; diventerebbe quindi necessario, per un pieno sviluppo in senso liberale della società, combattere «le forze economiche e politiche, le quali, se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne l’abrogazione».
Possiamo dire, parlando dei governi nazionali (anche quelli del centrosinistra), e considerando le loro politiche nel merito della possibilità di favorire la libera concorrenza e contrastare quel conflitto di interessi che è la base fondante di ogni politica monopolistica, che tale principio sia stato applicato? Persino parlando dell'ultimo governo di Monti e dell'asta sulle frequenze, la risposta appare lapalissiana, e Napolitano se non considera tale incongruenza, rischia di essere assai presbite, di guardare bene assai lontano soprattutto nel tempo, ma di non poter affatto leggere il presente, il suo così come il nostro. Ed il presente che è sotto i nostri occhi è rappresentato dal tragico destino in cui si trova il nostro Paese che vede imprenditori e operai accomunati nel "suicidio di classe" perché sono ridotti a "niente" dalla implacabile legge dettata dagli oligopoli, in particolare da quelli commerciali, la quale li costringe alla impossibilità di competere, alla marginalizzazione e alla perdita del lavoro e della loro identità.
Ciò vale soprattutto in campo internazionale, in cui i colossi finanziari e bancari ormai la fanno da padroni, con le loro straripanti mire speculative e monopoliste su ogni elementare criterio di libera concorrenza, e senza che alcuna politica efficacemente transnazionale possa porre loro seriamente dei limiti, determinando così dei veri e propri fenomeni sismici altamente distruttivi nei confronti delle economie locali e di ogni loro singola iniziativa imprenditoriale.
Napolitano conclude la sua lettera con le seguenti osservazioni che, a ben guardare, sembrano quasi una sponda per le recenti posizioni della segreteria del PSI: “Il recupero di simili approcci e contributi di pensiero ai fini di una revisione, di un adeguamento al nuovo contesto generale, della piattaforma programmatica e di governo delle forze riformiste, non può apparire né improprio né arduo: se è vero che, come è stato osservato, la fecondità della ricerca del liberale Einaudi resta testimoniata dalla varia collocazione di uomini usciti dalla sua scuola, tra i quali eminenti liberalsocialisti e socialisti liberali.”
Ma siamo veramente sicuri che Napolitano e l'attuale segretario del PSI interpretino correttamente la lezione del libralsocialismo su cui vorrebbero impostare una nuova politica di rapporti nell'ambito del riformismo e del centrosinistra?
Leo Valiani ci spiega che, rispetto ai seguaci del Socialismo Liberale di Rosselli, nato e cresciuto nel solco del socialismo salveminiano e con presupposti rivoluzionari antifascisti, “I liberalsocialisti italiani appartenevano invece alla generazione cresciuta dopo la soppressione in Italia dei partiti socialisti. Essa non li conosceva che assai vagamente e non ne conosceva molto di più neppure la dottrina. Era tuttavia convinta che gli uni e l'altra fossero superati.
Questo le veniva detto sia dalla cultura politica fascista o fascistizzata, sia dalla cultura liberale che, con gli scritti di Benedetto Croce, ma anche con quelli di Adolfo Omodeo - il maggior collaboratore, e poi quasi il solo, in quel periodo di Croce - e di Guido De Ruggiero, o di Luigi Einaudi, continuava invece ad operare legalmente, malgrado il suo antifascismo, in Italia.”
Eppure anche il liberalsocialismo elaborò un manifesto perfettamente in linea con quelle che, da sempre, sono state le istanze del socialismo internazionalista, specialmente considerando l'ambito economico e sociale.
Basta solo leggere i paragrafi 7-8-9 per rendersi conto di quanta e quale distanza ci sia tra quelle tesi e la cosiddetta politica “riformista” di stampo blairiano che la lettera di Napolitano sembra voler rievocare per l'ennesima volta in Italia come elemento fondante di un necessario riformismo, dopo per altro essere stata ripudiata nei suoi stessi paesi di origine. Eccoli:
7. Una delle prime mete di tali riforme sociali dev'essere il raggiungimento della massima proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone. Questa non è che una prima tappa sulla via del socialismo (ed è già superata, tutte le volte che con la ricchezza comune si soccorrono i deboli e gl'infermi, incapaci di lavorare). Comunque, è quella che si deve intanto cercar di percorrere. Di qui la fondamentale istanza anticapitalistica, che il liberalsocialismo fa propria: bisogna portare sempre più oltre la battaglia contro il godimento sedentario dell'accumulato e dell'ereditato.
8. I mezzi tecnici e giuridici atti a realizzare progressivamente questo intento dovranno essere commisurati, caso per caso, alle possibilità della situazione. Quanto più i contadini, gli operai, i tecnici, i dirigenti saranno capaci di agire come imprenditori e amministratori, tanto meno dovrà esistere la figura del proprietario puro. Quanto più si svilupperà lo spirito della solidarietà e dell'uguaglianza, tanto più sarà possibile ravvicinare le distanze fra i compensi delle varie forme di lavoro, senza inaridire il gusto dell'operosità e l'iniziativa creatrice. Di qui la fondamentale importanza dell'educazione delle persone, e quindi, tra l'altro, del problema della scuola.
9. Sul piano internazionale, il liberalsocialismo difende gli stessi principi di libertà e di giustizia per tutti. Niente nazionalismo, niente razzismo, niente imperialismo: niente distinzione di principio fra politica ed etica. Le assise fondamentali della civiltà debbono essere le stesse tra gli uomini e tra le nazioni: il dovere dell'onestà ed il riconoscimento che l'altrui diritto, non è soltanto una faccenda privata. Di conseguenza: difesa di ogni organismo che possa favorire la realizzazione di questi principi nel mondo; internazionalizzazione, almeno dal punto di vista economico.
Abbiamo forse inteso mai parlare di “istanze anticapitalistiche” da Napolitano o dall'attuale segretario del PSI? Di politiche compartecipative dei lavoratori alla gestione delle imprese, di cooperativismo, o di partecipazioni statali?
Quanti e quali tagli alla scuola sono stati contrastati dai governi di centrodestra e di centrosinistra?
Sul piano internazionale abbiamo forse notato Napolitano impegnarsi fortemente per contrastare quel subdolo imperialismo che ha originato guerre sempre più distruttive verso popolazioni inermi e che, mascherandosi da alfiere della democrazia, ha spianato a suon di bombe proprio quelle infrastrutture sociali ed economiche senza le quali la stessa democrazia è solo una parola vuota e priva di significato?
Se è vero che “il dovere dell'onestà ed il riconoscimento che l'altrui diritto, non è soltanto una faccenda privata” ma che riguarda da vicino i rapporti tra gli organismi internazionali e gli Stati, siamo davvero sicuri di essere stati “onesti” e di avere “riconosciuto” i diritti delle popolazioni più povere aggredite e massacrate durante le perduranti guerre di questo inizio di secolo, a non moltissimi chilometri da noi..dal Kosovo, all'Iraq, all'Afghanistan..alla Libia?
Allora, caro Presidente Napolitano, di cosa stiamo parlando?
Di quale “liberalsocialismo” vogliamo essere autentici interpreti?
Vogliamo forse coniare un'altra “moneta” liberalsocialista buona per tutte le stagioni e per tutte le occasioni, magari anche quelle di “riciclaggio” economico e politico, sostituendola a quella originaria? Non c'è il rischio anche in questo caso di sprofondare in un debito incolmabile di cultura?
O forse quello più realistico di mettere in circolo solo una moneta falsa non spendibile, da nessuna parte? Capisco che tutte queste rischiano di essere domande retoriche, ma considerando il senso stesso della responsabilità (dal latino responsum) tanto evocato in questi giorni di crisi, che cosa è essa stessa, a ben guardare,  se non proprio la capacità di dare risposte credibili alle domande poste, in questo caso dalla nostra contingenza storica, sociale e politica?
Quest'anno crediamo che il miglior discorso possibile da fare a tanti italiani lobotomizzati dalla TV sarebbe facilmente condensabile in sole tre parole: “studiare, capire, agire”, soprattutto per non farsi “dare a bere” frottole su questioni cruciali, per non confondere l'ombra dei valori con il loro autentico significato.
Stasera (ma non solo) dunque, spegniamo la TV e accendiamo la mente.

C.F.

BUON ANNO A TUTTI DI FELICE CONSAPEVOLEZZA E DI CORAGGIOSO IMPEGNO.

GRAMSCI IL MARXISTA, BORDIGA L'ESTREMISTA di L. Mortara



di Lorenzo Mortara


Usato dagli stalinisti come spot pubblicitario per la loro politica controrivoluzionaria, non miglior fortuna Gramsci ha trovato presso gli estremisti per i quali resta a tutt’oggi un idealista più o meno crociano. Se i primi l’hanno fatto sempre in malafede, l’averlo fatto in buona, non scagiona i secondi da un altro uso improprio.
A differenza di Bordiga che si vantava, non senza una nostra sardonica approvazione, di non averlo mai letto, Gramsci in effetti per formazione proveniva dal Croce, ma per nostra fortuna non si fermò al neohegelismo. Arrivò al marxismo tra tanti errori come la maggior parte dei compagni, ma ci arrivò senz’altro e se la sua vita non fosse stata bruscamente interrotta dal fascismo, certamente l’avrebbe anche perfezionato, costringendo forse gli estremisti a rimangiarsi le accuse.
L’accusa di idealismo viene da una fantomatica sinistra comunista che crede evidentemente che basti etichettarsi tale per aver diritto alla patente di sacerdotessa del materialismo dialettico. Per sua disgrazia non esiste una sinistra comunista, essendo quest’espressione nient’altro che un sinonimo di marxismo, che ai tempi della sedicente sinistra comunista prende il nome di bolscevismo e poi al massimo di trotskismo, mai di sinistra comunista. La sinistra comunista è solo l’estremismo di sinistra, altro nome non è scientificamente corretto, quand’anche possa avere un significato storico, documentario, e quindi insignificante più o meno come tutto il resto. Almeno per noi marxisti. Perché? Perché per il marxismo non siamo noi a decidere cosa siamo, ma la Storia. E la Storia si avvicinò agli estremisti quando qualcuno fece anche per loro la rivoluzione, ma quando sopravvenne la controrivoluzione ed essa cominciò ad allontanarsi da noi, gli estremisti non furono più in grado di avvicinarla manco di un centimetro. Ed è per questo che son passati alla Storia per quello che sono: inguaribili settari. Il settario è un marxista scentrato, che vede tutto sfocato a sinistra. Con questa lente sbagliata, un marxista in formazione diventa un idealista, un estremista testone un marxista, e un riformista rischia di passare addirittura per fascista.
C’è sempre qualcosa di vero nelle sentenze di un settario, ma sono sempre connotazioni esagerate, caricaturali. Quelle su Gramsci, come vedremo, non fanno eccezione.



GRAMSCI CON LA RIVOLUZIONE
ESTREMISTI CONTRO GRAMSCI

Per mostrare l’idealismo di Gramsci, viene quasi sempre citato a sproposito il suo famoso articolo La rivoluzione contro il «Capitale». Pubblicato il 24 Dicembre del 1917 sull’Avanti!, questo articolo arrivava tre anni dopo l’ambigua presa di posizione di Gramsci per l’intervento in guerra dell’Italia, espressa nell’articolo Neutralità attiva ed operante (Il Grido del Popolo, 31 Ottobre 1914). Se nel 1914, chiedendo in pratica alla borghesia italiana di entrare in guerra e fare il suo dovere, senza il quale a suo dire il proletariato non avrebbe potuto assolvere il proprio, Gramsci peccava indubbiamente di meccanicismo e probabilmente anche di idealismo, già nel 1917 la sua posizione va considerata in maniera diversa, in base alla sua lenta maturazione. Infatti, quella che per gli estremisti è l’ennesima prova del suo idealismo, è all’opposto una delle sue prime testimonianze di conversione al marxismo. Secondo Gramsci, Lenin e i suoi si erano liberati delle incrostazioni positivistiche della dottrina marxista, tenendo buono lo spirito vivificatore che aveva loro permesso, in Russia, di fregarsene del suo schematismo. Ora è indubbio che in Marx non vi sia nulla di meccanico, ma è anche vero che presa qua e là qualche frase dall’intero corpo dottrinario, si può cadere nell’errore di vedere in Marx un positivista. Lo stile perentorio con cui Marx afferma le sue tesi, unitariamente alla frammentarietà di molti suoi scritti, può trarre in inganno il lettore. E in effetti la critica di meccanicismo finalistico è una delle più ricorrenti tra quelle fatte a Marx. Rosselli, tanto per fare un esempio, sprecò almeno metà del suo Socialismo liberale per inchiodare Marx alla sua perdita di tempo. Chi ha letto Marx con lo spirito giusto, sa che nelle sue sentenze, il filosofo indica una tendenza di fondo più che una necessità assoluta. E così a ben guardare l’hanno sempre giustamente interpretato i suoi migliori discepoli. Basterebbe prendere l’esempio di questi seguaci per chiudere definitivamente la questione. E così in effetti fece Gramsci. Infatti, mentre i settari controllano col microscopio ogni sillaba scritta e pronunciata da Gramsci, dimenticano di controllare ciò che più va controllato per un marxista, e cioè le azioni. In quell’articolo sulla rivoluzione bolscevica, Gramsci non esista a schierarsi a favore del partito di Lenin nonostante sia convinto della contrarietà di Marx. È ovvio che su quest’ultimo punto si sia sbagliato, e anche di tanto, ma nei fatti ciò significa che mentre la testa di Gramsci si perdeva ancora tra le righe delle sue letture idealistiche, il corpo vivo di Antonio stava già tutto interamente dalla parte giusta. Lo spirito di Gramsci è ancora tutto incrostato di positivismo, ma la sua materia grezza è già plasmata a sufficienza dal marxismo. Pronta per abbracciarlo. Questo le teste di legno settarie non lo capiscono. Non vedendo in questo articolo un passo avanti di Gramsci, capiscono ancor meno che sia il preludio per quelle tesi Per un rinnovamento del Partito Socialista, con cui tre anni dopo, l’8 Maggio 1920, sull’Ordine Nuovo, Gramsci corrisponderà integralmente ai «principi fondamentali – sono parole di Lenin – della Terza Internazionale». Non così Bordiga che corrisponderà integralmente ai principi dell’estremismo, cioè ai principi sbagliati del marxismo dai quali non si schioderà più, restando fondamentalmente un settario più che un materialista.
Si può in linea di massima datare da qui il passaggio integrale di Gramsci al marxismo. Avendo appreso i principi fondamentali, gli errori che ancora farà, e pure gravi, saranno secondari rispetto alla sua formazione intellettuale, sempre più avviata al materialismo e meno propensa all’idealismo. Nel 1920, Gramsci, rinnovato nel marxismo, è più avanti di Bordiga invariato nell’estremismo, con buon pace degli estremisti. E più avanti lo sarà fino alla morte.



BORDIGA DEGRADATO

Avendo già bocciato il Gramsci del 1917 come il prosecutore di quello idealista del 1914, impossibilitati quindi a vedere lo splendido materialista del 1920, i settari, per l’invarianza dell’estremismo, non riescono a vedere nemmeno nella giusta luce gli errori che ancora commise il nostro secondo grande capo. Dall’Aventino fino all’estromissione di Bordiga dalla Direzione è tutto un susseguirsi di errori e ripensamenti, sempre però fatti sul piano del marxismo non dell’idealismo, esattamente come gli analoghi errori dei bordighisti sono fatti nello stesso periodo sul piano dell’estremismo. Gli errori di Gramsci sono gli errori di un dirigente che deve ancora farsi le ossa, quelli di Bordiga sono l’ossatura irriducibile di uno schematismo incorreggibile. Si spiega almeno in parte così il tentativo di Gramsci, appoggiato dai bolscevichi, di escludere con metodi burocratici il dirigente napoletano dalla Direzione. È strano che a non capirlo sia proprio la corrente bordighista, quella in teoria più sprezzante dei metodi democratici, definiti, come sempre esagerando, puri metodi borghesi. In realtà il proletariato come il suo partito non potrà mai fare a meno del tutto dei metodi democratici, perché il centralismo organico con cui i bordighisti vorrebbero sostituirli non è altro che una metafora, un punto di riferimento al quale sempre dovremo cercare di avvicinarci, ben sapendo però che quella perfezione in cui ogni compagno si muove come un elemento di un unico organismo non sarà mai raggiunta. Perché ogni uomo anche se si relaziona agli altri è pur sempre un individuo, e come tale ha le sue peculiarità. Quando si arriva a non firmare i propri scritti per via del carattere sociale anche della produzione intellettuale, si è come al solito sconfinato nel parossismo del marxismo. Se si annulla però l’individuo nel collettivo, si dovrebbe almeno essere più pronti a cogliere nella giusta luce gli errori antidemocratici che qualcuno ha commesso contro di noi.
L’estremismo vede nell’estromissione burocratica di Bordiga, il trionfo dell’idealismo gramsciano e la naturale conseguenza di un processo involutivo già avviato nella Russia rivoluzionaria. Non è facile districare la matassa, perché uno stesso fenomeno può avere valenze diverse a seconda del valore che esprime negli alterni momenti in cui si presenta. Senza forzare la mano, indubbiamente Bordiga avrebbe mantenuto la direzione del Partito, perché la maggior parte dei dirigenti non mostrava segni di guarigione dall’estremismo. Gramsci, uno dei pochi che aveva perso la febbre settaria, accettò di brigare per accelerare i tempi. I bolscevichi giudicarono che la rivoluzione veniva prima della questione democratica. Di conseguenza, forzare l’esclusione di Bordiga dalla direzione, fu visto come l’unico modo per avere qualche speranza di acciuffare in extremis il treno della rivoluzione. Se questo in generale è giusto – la rivoluzione viene sempre prima di tutto! – va detto che alla luce dei fatti, il rischio si è rivelato troppo grande, perciò in futuro sarà meglio perdere il treno di qualche rivoluzione ben sapendo che tanto ripasserà, piuttosto che contribuire con metodi loschi al deragliamento di tutto il movimento operaio nello stalinismo. Probabilmente se avessero avuto la sfera di cristallo e avessero visto le conseguenze delle loro manovre, i bolscevichi e Gramsci si sarebbero fermati, aspettando che le cose maturassero da sole, questo però non deve abbagliare al punto da giudicare al contrario il loro errore. La forzatura con cui Gramsci venne messo alla testa del Partito in sostituzione di Bordiga, è l’espressione della forza con cui la rivoluzione ordina in maniera giusta i compagni, mettendo in seconda linea, dietro i bolscevichi, gli estremisti e tutti gli altri. È cioè un progresso anche se ottenuto in maniera non del tutto ortodossa. Il metodo stalinista che eredita alcuni tratti e difetti di quello bolscevico moltiplicandoli esponenzialmente, è un regresso, perché anziché ordinare il partito in maniera giusta, lo disorganizza, estromettendo la testa a favore dei piedi dei caproni che mette al posto di comando.



SPLENDORE E MISERIE DEI NOSTRI CAPI

Se il movimento che porta Gramsci alla direzione del partito, fosse già una spia della degenerazione togliattiana, non si capisce per quale motivo lo stesso Gramsci finirà escluso ed emarginato in carcere, di fatto estromesso dal partito. L’estremismo, retrodatando la degenerazione del bolscevismo al II Congresso della III Internazionale anziché al IV, anticipa i tempi e capovolge come suo solito il corso storico. In realtà, l’avvento di Gramsci alla guida del partito avviene grosso modo in contemporanea al passaggio da una fase rivoluzionaria ad una reazionaria. Gramsci interviene proprio sul crinale, un momento prima di essere travolto come noi tutti dalla situazione. È per questo, tra le altre cose, che i rapporti con Bordiga rimasero buoni, perché erano tutto sommato i rapporti di due compagni che, per quanto diversi, erano rimasti sempre dalla stessa parte della barricata.
Bordiga e Gramsci, pur nelle enormi differenze, sono il più grande patrimonio del nostro partito, quello passato e quello futuro, che o rinascerà dalle loro ceneri o non avrà motivo alcuno di rinascere. Perciò è un bene che dopo tanti anni anche Bordiga venga pian piano ristampato. Anzi, a dirla tutta, è una vergogna che a quasi un secolo dalla nascita del nostro partito ancora non esista un’edizione delle opere complete del nostro fondatore. Sostenere la sua fondazione è quindi un dovere per ogni compagno coscienzioso. Bordiga è stato la più grande penna del movimento operaio italiano. La sua scrittura non ha eguali. È lui il più grande artista del marxismo. Più di Gramsci, la cui vena polemica non attinge al più classico stile marxista come quella di Bordiga. Bordiga, inoltre, fu compagno esemplare che non scese mai alle bassezze cui invece ricorse Gramsci. Tuttavia, nonostante alcune miserie non toccarono mai Bordiga, lo splendore di Gramsci è superiore. La mancanza di bassezze di Bordiga, infatti, oltre che alla sua grandezza, va attribuita anche ai suoi difetti. L’estremismo, evitando di sporcarsi le mani, è fatto apposta per uscire immacolato da ogni situazione. Non così il marxismo che mettendo in gioco tutto sé stesso, può uscire vincitore dalle situazioni, come lacero e contuso e a volte persino meschino. Gramsci commise ancora parecchi errori, molti dei quali in carcere, ma avrebbe sempre potuto correggerli. Non così l’estremismo che è incorreggibile per la sua invarianza. L’appoggio a Mussolini o a Stalin, se vengono corretti in tempo, possono assolvere ampiamente Gramsci davanti allo storico bilancio della rivoluzione. Ma l’astensionismo, la preferenza della dittatura di Hitler alle democrazie borghesi, il capitalismo di Stato in Russia, la bocciatura del ’68 e altri errori del bordighismo, se non possono essere corretti perché si ripresentano a scadenze puntuali, rappresentano il bilancio fallimentare del settarismo davanti al tribunale della rivoluzione. E se questo è vero – ed è vero – allora meglio il presunto idealismo di Gramsci che può essere rivoluzionario, che il materialismo di Bordiga che può essere solo settario.
Per l’estremismo un tratto può bastare per bocciare tutto un programma, un partito o addirittura un uomo. Per noi la cosa è più complessa. Non ha molta importanza sapere quanti tratti idealistici Gramsci avesse ancora al momento dell’arresto, quel che conta è sapere a che punto era il suo impianto generale. Al momento dell’arresto Gramsci era già un marxista. La perdita per noi fu enorme, perché i marxisti possono abbassarsi anche al livello delle galline, ma solo loro possono fare la rivoluzione. Non gli estremisti che corrono paralleli alla lotta di classe e sono l’ala metafisica del marxismo, un’ala pregiata e magnifica fin che si vuole, ma che non sa volare, perché per quanto si creda materialistica, proprio per la sua incapacità di avere un qualunque punto di contatto col movimento reale, finisce lei per essere molto più idealistica di tutti quelli che accusa di essere tali.



Coi migliori auguri
per un 2012 rivoluzionario

Lorenzo Mortara
Stazione dei Celti
31 Dicembre 2011

giovedì 29 dicembre 2011

Monti e la "fase due", di Riccardo Achilli


Dopo aver bloccato una parte del centro storico di Roma per una parte della giornata, provocando danni economici alle attività comerciali e turistiche ivi ubicate, ed anche una spesa a carico del pubblico erario, Monti delude ogni aspettativa sull'illustrazione della "fase 2", mettendo in scena una delle conferenze stampa di fine anno più soporifere ed inutili della storia della Repubblica, almeno dai tempi in cui a farle erano i vari Fanfani, Andreotti, ecc. Non illustra alcuno dei provvedimenti materialmente in via di elaborazione, passando due ore e mezza a chiacchierare vagamente di massimi sistemi. E questo non è certo un comportamento da tecnico, avvezzo a parlare solo quando ha elementi tecnici da illustrare, quanto piuttosto da politicante demagogico. E non basta la ridicola esibizione di un foglietto con il grafico della serie storica dello spread, mostrato ai giornalisti in preda all'ilarità con fare da sapientino, per darsi arie da tecnico. Persino le riforme istituzionali vengono demandate alla responsabilità dei partiti, ben sapendo che sono assolutamente incapaci di trovare l'accordo per farle, e rinunciando all'unica possibilità di rinnovare un assetto istituzionale dello Stato in piena agonia.

Al vero e proprio "horror vacui" che suscita la conferenza stampa contribuisce persino la stampa (peraltro tutta quanta rappresentante della borghesia che sostiene il Governo Monti) che evita di fare domande scomode (del tipo "perché avete speso quasi tutto l'importo della manovra in acquisti di cacciabombardieri francamente inutili stante la situazione internazionale?" oppure "perché non avete ripristinato il prelievo dell'IMU sui beni ecclesiastici, perlomeno nella versione, comunque limitata, del 2006?", o ancora "perché non avete imposto un prelievo straordinario, anche solo simbolico, sull'1% delle famiglie più ricche del Paese?" "Perché non fate un'asta per assegnare le frequenze televisive?") Le domande dei giornalisti, dovutamente ammaestrati, si orientano invece su temi innocui ed ininteressanti, da pettegolezzo ("pensa di continuare a fare politica anche dopo il 2013?" ma scusate, a voi ve ne frega qualcosa di conoscere i destini futuri di Monti?) Oppure su domande che tradiscono l'inquietudine della borghesia di fronte a possibili derive antagoniste "ci saranno scenari simili a quelli delle contestazioni in Grecia?" Al solo fine di sentirsi rassicurare da Monti ("faremo di tutto per evitare tensioni sociali") e quindi a loro volta rassicurare i loro editori e padroni della borghesia. In questa pietosa scenetta da avanspettacolo, fra un premier che non vuole dire niente di significativo ad un Paese impaurito, e giornalisti ammaestrati a non insistere per cavargli fuori qualcosa, si scambiano le parti, e Monti, allegramente, si improvvisa giornalista, suggerendo ai "colleghi" lo slogan mediatico con cui battezzare la fase 2 "chiamatela Cresci Italia, non ho obiezioni".

Nel vuoto pneumatico di chiacchiere sembrano emergere obiettivi puramente politici, non mirati quindi a quello che dovrebbe essere il destinatario naturale di un simile discorso, ovvero il popolo martoriato, ma ai corridoi dei partiti ed ai sottoscala della politica: si inanellano inviti all'Idv a rientrare nei ranghi (a quanto pare anche con un certo successo, vista la risposta possibilista di Di Pietro, "valuteremo gli specifici provvedimenti", come se ci fosse la possibilità di qualche sorpresa favorevole da parte del Governo nelle prossime settimane, che possa essere condivisa da un partito che si dice di sinistra), elogi ai partiti che sostengono il Governo in Parlamento (gli stessi che hanno portato le finanze pubbliche, ed in generale l'economia italiana, all'attuale situazione di dissesto, e che, incapaci di proporre una soluzione, hanno abdicato in favore dei "tecnici"), sviolinate per Napolitano (che del resto è il regista, nemmeno tanto occulto, di tutta l'operazione-Monti). Si dispensano vere e proprie bugie, in puro stile berlusconiano, come quella secondo cui "le ultime aste dei titoli pubblici sono andate bene", quando invece ad andare benino è stata solo l'asta dei Bot semestrali di martedì, atteso che i mercati, ovviamente, non si aspettano il tracollo definitivo dell'economia italiana nel giro di soli 6 mesi, ora che al suo capezzale c'è un infermiere pronto a teneral in coma farmacologico anche per più di un anno, come Monti). L'asta odierna dei Btp, ovvero dei titoli a scadenza pluriennale, è invece andata maluccio, scontando la persistente sfiducia dei mercati nelel prospettive di medio termine dell'economia italiana: sono stati piazzati solo 7 degli 8,5 miliardi preventivati, il tasso di rendimento è rimasto alto, sfiorando il 7%. Il mercato interbancario è catatonico, le banche preferiscono depositare la loro liquidità in eccesso presso la Bce, con un rendimento prossimo allo zero, piuttosto che prestarselo fra loro, la Borsa continua a registrare tendenze al calo, il clima di fiducia di imprese e consumatori è agonizzante. Monti mente spudoratamente anche quando afferma che "non ci saranno altre manovre". Bugia evidente: per legge ne dovrà fare comunque un'altra entro il mese di Giugno, perché è a Giugno che si presenta la legge di stabilità per l'anno successivo, anche solo di tipo tabellare (che poi tabellare non è mai, c'è sempre una componente di aggiustamento, in questo caso anche cospicua, atteso che la recessione, iniziata già nel terzo trimestre del 2011, abbasserà gli obiettivi di gettito, richiedendo un supplemento di manovra i nestate). L'unico barlume di sincerità emerge forse da uno dei lapsus che caratterizzano il prode Monti di quando in quando: afferma infatti di essere stato scelto anche per "rassicurare l'opinione pubblica tedesca". Questo non è molto lontano dalla realtà, in effetti, visto che l'operazione-Monti, così come quella Papandreou/Papademos in Grecia, è stata cucinata dalla premiata coppia Merkel/Sarkozy.

Per il resto, il poco di concreto che emerge dal fumo delle chiacchiere del professore rivelano quanto già si sa, ovvero un'impostazione puramente neo liberista, in cui lo sviluppo non si fa utilizzando il volano della spesa pubblica, ma anzi riducendo lo Stato all'osso, e limitandone il ruolo alla predisposizione di un ambiente normativo favorevole al business ed all'allargamento della concorrenza. Tutto ciò, di per sè stesso, ancora una volta in una logica puramente neoclassica, contribuisce anche all'equità ed alla felicità sociale, poiché per un liberista il mercato in condizioni di concorrenza perfetta raggiunge di per sè, in automatico e senza necessità di interventi correttivi pubblici, le condizioni di equità distributiva ideali. Al rettore di economia Monti non importa che circa 80-100 anni di elaborazione della teoria economica abbiano dimostrato, in forma matematica oltre che con riscontri empirici innumerevoli, il fatto che i mercati concorrenziali garantiscono l'equità distributiva solo in particolari condizioni, completamente irrealistiche (rendimenti costanti dei fattori, così come modellati da funzioni della produzione, di tipo Cobb-Douglas, che nelle realtà produttive non esistono, perfetta informazione ed assenza di asimmetrie informative, perfetta razionalità nelle scelte di investimento, produzione e consumo, assenza di esternalità, assenza di posizioni oligopolistiche sui mercati, ecc.). In tali condizioni del tutto astratte ed irreali, praticamente da film di fantascienza, infatti, i rendimenti di scala costanti dei fattori consentirebbero, in base al teorema di Eulero, una remunerazione esattamente pari alla loro produttività, e non vi sarebbe extra-profitto, quindi non vi sarebbe sfruttamento, e si realizzerebbe l'equità.

Un modo semplice di spiegare l'illusione che vi possa essere "equità tramite i mercati in concorrenza" può essere il seguente: supponiamo che in condizioni di concorrenza perfetta, informazione perfetta e simmetrica, totale razionalità, assenza di frizioni in fase distributiva, la funzione di produzione sia una Cobb-Douglas del tipo Y=(l.k)^1/2, dove Y è il volume di produzione, l la quantità di lavoro e k di capitale, e supponiamo che si parta da una situazione in cui si produce con una unità di lavoro ed una di capitale, quindi con un valore di Y pari ad 1. Poiché la produttività e la quantità assoluta dei due fattori è identica, lavoro e capitale riceveranno lo stesso valore del prodotto complessivo come remunerazione (pari a 0.5 ciascuno). Se si aumenta della stessa misura la produttività di entrambi i fattori, in modo che ogni unità produca come se fossero due, si avrà quindi y=2, ed ancora una volta lavoro e capitale, avendo partecipato alla produzione con la stessa produttività e la stessa quantità, riceveranno lo stesso importo come remunerazione (pari a 1 ciascuno), importo che peraltro è pari all'incremento di produttività conseguito da ciascun fattore (da 1, nel periodo precedente, a 2). In altri termini, in queste condizioni del tutto teoriche e irrealizzabili nel mondo reale, la remunerazione dei fattori dipende eclusivamente dal loro apporto effettivo alla produzione (dato dalla loro produttività e dalla quantità assoluta di ciascun fattore immessa nel ciclo produttivo), senza extraprofitto. In pratica, a ciascuno verrebbe dato secondo il suo apporto al ciclo produttivo, per un importo pari alla variazione della sua produttività fra un periodo all'altro, senza qundi che vi sia sfruttamento. Se si verificasse uno squilibrio fra remunerazione ed apporto produttivo di un fattore, la razionalità degli agenti, e la possibilità di cambiare datore di lavoro in base alle condizioni di lavoro e di retribuzione che ciascuna azienda liberamente (e concorrenzialmente) offre, comporterebbero un rapido riaggiustamento verso l'equilibrio "equo". Nel caso dell'esempio, se un lavoratore, che abbia incrementato la sua produttività per un valore pari ad 1, ricevesse dal suo datore di lavoro una remunerazione inferiore all'incremento di produttività (poniamo, ad esempio, 0.8) in una condizione teorica di perfetta informazione e razionalità assoluta, di concorrenza perfetta sul mercato del lavoro e di assenza di vincoli esterni alla mobilità professionale, troverebbe sicuramente un altro datore di lavoro pronto ad offrirgli una remunerazione pari ad 1, per accaparrarsi un lavoratore a produttività elevata. Il datore di lavoro originario, per non perdere tale lavoratore (il che comporterebbe un declino delle sue capacità produttive, dunque del fatturato, ed il rischio di fallire) dovrebbe quindi riaggiustare verso l'alto, da 0.8 ad 1, la remunerazione offerta. Ed il sistema troverebbe dunque l'equlibrio ad un valore di remunerazione del fattore-lavoro pari alla sua incrementata produttività.

Peccato che tutto ciò dipenda da condizioni che nella realtà non si verificano mai: la presenza di una tecnologia produttiva che garantisca rendimenti di scala costanti di tutti i fattori, la perfetta informazione e totale razionalità degli agenti e l'assenza di esternalità in fase distributiva, la condizione di concorrenza perfetta, ovvero l'assenza di qualsiasi posizione di vantaggio, in termini di maggior potere di mercato, di un operatore sugli altri (senza la quale non è possible avere rendimenti costanti). Cioè la "giustizia dei mercati" dipende da un mondo teorico che non esiste. Tuttavia è bene comprendere che un liberale come Monti, nella sua mente, ha esattamente tale schema irrealistico, ed è sulla base di tale schema che ragiona, quando discetta di "equità".

Pertanto, nel mondo ingenuo e delirante di un liberista come Monti, per raggiungere una maggiore equità distributiva e felicità sociale è sufficiente creare condizioni più vicine al modello teorico di concorrenza perfetta, aumentando il grado di concorrenzialità sui mercati, magari abolendo le tariffe minime dei commercialisti e liberalizzando i taxi (come se nelle scelte di consumo di una famiglia di operai i viaggi in taxi o i consulti con il commercialista occupassero un peso rilevante).

Esattamente con lo stesso criterio di ampliamento della concorrenza sui mercati, per Monti il superamento del drammatico dualismo che affligge il mercato del lavoro italiano si ottiene non innalzando il livello delle tutele dei non garantiti (che ridurrebbe la concorrenza dal lato dell'offerta di lavoro, creando lavoratori maggiormente "protetti", e quindi con posizioni di vantaggio in termini di potere di mercato, in sede di contrattazione), ma eliminando quelle dei garantiti (in modo da creare condizioni di maggior concorrenza fra i lavoratori, senza più vincoli legislativi che li tutelino nel gioco competitivo con i datori di lavoro). D'altra parte, pensa il Monti, adottando il vecchio detto "mal comune mezzo gaudio" non vi saranno più precari infelici perché paragonano sè stessi ad un modello ideale di lavoratori a tempo indeterminato, ma solo precari e basta, e poi chi è più competitivo, o per meglio dire, poiché il modello teorico di concorrenza perfetta è irreale, chi è più privilegiato (per ragioni di famiglia, di estrazione sociale, di condizioni economiche di partenza) o chi è più aggressivo potrà camminare. Gli altri che muoiano. D'altra parte, "competition is competition". In cambio, per i tanti che finiranno dalla parte perdente della gara per la sopravvivenza vengono garantiti, se tutto andrà bene, 700 euro al mese per 6 mesi, in cambio dell'impegno ad accettare qualsiasi lavoro venga loro offerto, in qualsiasi luogo del Paese (quindi magari l'ingegnere di Milano dovrà andare a fare il netturbino a Pantelleria, abbandonando famiglia e legittime ambizioni profesisonali). Ecco che il contratto unico di inserimento di ichiniana genesi diviene utile: un contratto che prevede la libertà assoluta di licenziamento, dietro pagamento di una compensazione monetaria, crescente al crescere dell'anzianità (e quindi basta licenziare la gente dopo pochissimi anni di servizio, adottando modelli di gestione del personale caratterizzati da un continuo turnover di disgraziati, per ritrovarsi a dover pagare una compensazione monetaria insignificante, a tutto danno del poveraccio che verrà messo in mezzo ad una strada con quattro soldi).

Per comprendere quanta "felicità" porti questo modello sociale, basta vedere quello che succede negli USA, che di tale modello sono l'applicazione pratica più completa: forse pochi sanno che tale Paese è ai primi posti nelle classifiche mondiali (mondiali...) per tasso di suicidio, omicidi e indici di criminalità violenta, indice di povertà assoluta. Se questa è la felicità, professor Monti, preferiamo rimanercene all'inferno.

Poiché la controfaccia del liberismo economico è quasi sempre l'autoritarismo politico, l'ineffabile Monti si abbandona ad affermazioni che fanno venire i brividi: assicura che "non ci saranno tensioni sociali come in Grecia". E come pensa di fare, magari avvalendosi dei servizi di un ministro della difesa che, per la prima volta nella storia della Repubblica, è un militare (oltretutto esperto in operazioni antisommossa, avendo partecipato a misisoni di peacekeeping in Paesi dove ci sono guerre civili) anziché un politico civile che, in teoria, potrebbe fare da filtro all'animus pugnandi tipico dei militari? Ancora: dice una cosa spaventosa riguardo al finanziamento del fondo nazionale per l'editoria. La riporto tale e quale, affinché non si dica che la sto manipolando: "i contributi all'editoria verranno mantenuti ma stiamo lavorando a criteri obiettivi per scegliere e selezionare ciò che da un punto di vista generale ci parrà più meritevole del contributo". Stiamo scherzando? Un Governo che decide quali siano i criteri per finanziare alcuni giornali piuttosto che altri? Criteri stabiliti unilateralmente e non decisi né con i diretti interessati né con l'opinione pubblica? Questa è l'anticamera della censura! Naturalmente, poiché una piccola guerra ci starebbe a fagiolo per distruggere un pò di capitale produttivo in eccesso, e per far girare l'industria bellica ed il suo indotto, ecco che il pacifico professore varesotto si mette in testa il képi da ascaro e afferma che un eventuale blocco dello stretto di Hormuz da parte dell'Iran sarà trattato con la massima severità. Magari se scoppia una guerra e gli iraniani affondano un paio di fregate della Marina, sarà possibile evitare la chiusura dei cantieri di Sestri e Castellammare, poiché gli si potranno commisisonare le navi destinate a sostituire le perdite, facendo macinare buoni utili a migliaia di imprese private dell'enorme indotto della cantieristica militare.

Monti però, nonostante questa oscene dichiarazioni, che scivolano via come il burro senza che nemmeno un giornalista in sala si alzi per dirgli "ma lei è matto?" si riempie continuamente la bocca della parola "equità", sfruttando quella che Costanzo Preve ha efficamente definito "la demenza generalizzata del popolo italiano".

Caro Monti, se veramente il Suo riferimento fosse l'equità, perché non ha pronunciato una volta, una sola volta, la parola "Mezzogiorno" in tutta la conferenza stampa? E' o non è il Mezzogiorno l'area del Paese che ha più bisogno di equità nelle opportunità di sviluppo? Eppure Lei non ha bisogno dei voti della Lega per galleggiare nella melma parlamentare. Perché non ha pronunciato una sola volta la parola "immigrati", l'espressione "disoccupati di lungo periodo e di età ultraquarantenne", oppure "disabili", o ancora "ex detenuti da reinserire in società"? Eppure queste sono alcune fra le categorie sociali più affette da problemi di iniquità nella nostra società. Non basta darsi il patentino di equità citando la questionedei giovani o quella delle donne, perché si tratta di categorie trasversali. Se è vero che a livello aggregato giovani e donne hanno difficoltà particolari ad inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro, è anche vero che c'è giovane e giovane, e donna e donna. Il figlio di Berlusconi è giovane, ma non è certo uno svantaggiato. La Marcegaglia è una donna, ma non è certo una sventurata. Quindi, per fare politiche sociali e di equità, occorre capire "a quali giovani" sono rivolte, "a quali donne" sono rivolte (di quale età, di quale area geografica di residenza, a quale classe di reddito appartengono le relative famiglie, in quale condizione educativa e lavorativa di partenza, ecc.), e se tali categorie micro (non più quindi tutti i giovani e le donne indistintamente) esauriscano da sole l'intero panorama del disagio sociale, o se invece ve ne siano altre. In altri termini, affidarsi a macro-categorie trasversali e definite in modo generico e vago (i giovani, le donne) anziché analizzare specificamente l'assetto di classe della società , o quantomeno, se proprio non si vuole adottare l'approccio marxista (che rimane però il migliore per analizzare l'esclusione sociale) analizzare le condizioni di accesso alle opportunità di ascesa sociale dei diversi strati socio-anagrafici, socio-etnici o socio-lavorativi, riviene a fare esattamente il contrario di ciò che occorrerebbe fare per implementare meccanismi di equità. Perché per introdurre meccanismi di equità all'interno di un corpo sociale occorre prima averlo analizzato, dissezionato.

Caro Monti, se lo lasci dire da uno che, per età, ma non certo per censo, avrebbe potuto essere un Suo allievo: dismetta i panni del professore, riponga i foglietti di carta con gli istogrammi sull'andamento dello spread. Abbia perlomeno l'onestà, di fronte a sè stesso, di dire quello che Lei è: non un professore, non un intellettuale, non un tecnico (in questi panni Lei sta dando veramente una prova pessima, a dire il vero), ma un esecutore delle volontà della borghesia finanziaria. Si sentirà sicuramente meglio anche con sè stesso, farà meno gaffe, si renderà meno ridicolo.

IL DECRETO SALVA ITALIA NON SALVA GLI ITALIANI



Pubblichiamo in un'unica parte questo articolo che l'autore aveva all'origine diviso in due parti, la prima delle quali risale al 5 Dicembre 2011 e la seconda al 23.

di Gioacchino De Candia


PRIMA PARTE

Una delle cose più aberranti che la “civiltà occidentale” ha saputo produrre, soprattutto negli ultimi tempi, è il florilegio di notiziole, falsità, amenità, quisquilie e pinzellacchere che, in una parola, vanno sotto il nome di “gossip” e che inficiano sistematicamente tutti i mezzi di informazione di massa: dalla carta stampata alle TV per finire al web.

All’interno di tutte queste voci “fuori controllo” è davvero difficile, anche per chi sa distinguere l’informazione buona da quella cattiva, riuscire a barcamenarsi in questi mare magnum di insulsaggini. Molti ci sguazzano, molti ci speculano, tantissimi s’incavolano (dovrei usare un’espressione più colorita, ma sono un signore e quindi evito).

Inevitabilmente, anche il recentissimo decreto Monti (ribattezzato frettolosamente salva-Italia) finisce per cadere nella rete del gossip mass-mediatico, fornendo ulteriore elemento di distorsione alla manovra dell’attuale Governo tecnico italico, che il buon prof. Monti dimostra comunque di saper ben condurre, con il tipico piglio di capitano di lungo corso, che ne ha viste di cotte e di crude e che riesce agevolmente ed anche abilmente a sfiorare e scansare scogli, morene ed iceberg di turno (nonostante sia alla guida della nave Italia, tutt’altro che inaffondabile).

Infatti, sul web già da un paio di giorni sono recuperabili sedicenti bozze del decreto, che Monti stesso ha illustrato a grandi linee or ora coronato dallo stuolo di Ministri tecnici di cui si circonda, che non solo sono in palese contrasto tra loro, ma che vengono anche sbugiardate proprio oggi dal sito di libero, che pubblica un nuovo testo con altri ritagli e relative frattaglie.

Rifacendomi, quindi, a quanto declamato col suo stile impeccabile dal buon Super Mario nella II di avvento, devo purtroppo rimarcare il titolo del presente articolo: il decreto Monti salva (forse) l’Italia, ma non gli italiani.

Tante, troppe, sono le cose della nuova manovra da 24-25 miliardi (anche in questo la stampa non si trova perfettamente d’accordo) che non convincono, perchè non solo non rispecchiano criteri di equità, ma fanno anche da base per un ulteriore inasprimento dell’attuale fase di stagnazione dell’economia italiana, che potrà tradursi in vera e propria recessione da qui al 2015 (se non oltre).

In questo contesto mi soffermo sulle ricadute più immediate per ciò che riguarda, in primis, l’operatore famiglie: ritorno dell’ICI (con un nuovo nome) e nodo pensioni.

Riguardo la nuova ICI (ribattezzata IMU) le famiglie italiane pagheranno nuovamente la vecchia imposta comunale sugli immobili, ma con un inasprimento delle rendite catastali e, quindi, pagheranno di più un’imposta che la stessa Corte Costituzionale (ormai quindici anni fa) dichiarò chiaramente incostituzionale e perciò illegittima. Soffermandomi alle sole abitazioni (cat. A) le rendite dovrebbero essere rivalutate del 60% per tutte queste tipologie di immobili, eccettuata la cat. A10 (ossia tra le abitazioni definite di lusso e per le quali è prevista una rivalutazione molto più bassa): un salasso non da poco per le già striminzite casse delle famiglie italiche. Inoltre, questa imposta in tale nuova veste dovrebbe essere “sperimentale” (?) fino al 2014 ed entrare a regime nel 2015; cosa ulteriormente strana, dato che Monti ed i suoi Ministri hanno già una scadenza massima, ossia tra la primavera e l’estate del 2013.

Passando all’articolo “pensioni”, come da copione chi avrà voglia di smettere di lavorare non potrà farlo prima dei 66 anni (in media) per il maschietti e prima dei 62 anni (in media) per le femminucce. Tutti vedranno la loro futura pensione (se la vedranno) calcolata esclusivamente con il metodo contributivo, ma viene anche spontaneo da chiedersi chi mai, tra operai ed impiegati, sarà in grado, da qui ai prossimi 30 anni, di riuscire a raggiungere una pensione che non sia “da fame” o quasi. Altro aspetto peculiare del nodo gordiano pensionistico: la possibilità di non procedere a rivalutazione “inflattiva” pensioni sopra i 936 Euro per i prossimi due anni. Francamente, si tratta di un doppio insulto: da una parte si restringe ulteriormente il potere di acquisto di chi si trova di poco al di spora di tale soglia (con ulteriore restrizione dei consumi e quindi declino delle attività commerciali) e dall’altro si dà un ulteriore potere a tutti i “superpensionati”, nonché titolari di assegni vitalizi a cinque zeri, il cui valore nominale non dovrebbe subire variazioni, contro un evidente aumento del reale potere di acquisto.

Cacio sui maccheroni, la lacrimuccia del Ministro del Welfare, che proprio non ce l’ha fatta a non sentirsi partecipe dell’enorme dolore che sente di condividere con l’esercito dei pensionati e relative famiglie, il cui urlo di disperazione si eleva da ogni parte dello stivale (tipico di un autentico dramma pirandelliano).

Dulcis in fundo, Mario Monti, che con un autentico colpo da maestro ha deciso di sospendersi lo stipendio da Primo Ministro (sforzo enorme, dato che non solo percepisce il vitalizio da senatore a vita, ma anche altri emolumenti di varia natura sotto forma di pensioni maturate e non meglio specificate nel corso della sua ultradecennale carriera di professionista di “altissimo livello”).

Tutte le misure previste nel decreto attendono, ora, di passare al vaglio delle due Camere per l’approvazione e la promulgazione definitiva, per cui è lecito aspettarsi emendamenti e relativi mugugni da parte delle varie forze politiche, la cui influenza sul decreto medesimo sarà tutta da verificare. Prima, però, dovrà passare al vaglio di Porta a Porta.

Concludendo (per ora) anche la Santa Sede si è espressa sul decreto Monti… e non l’ha fatto in maniera positiva.



SECONDA PARTE

Nella giornata del 22 dicembre si è consumato il secondo atto della manovra finanziaria che, sempre secondo le intenzioni del Governo, dovrebbe “salvare” l’Italia.

Prima dell’approvazione definitiva del testo da parte del Senato della Repubblica, che diventerà Legge dopo la firma automatica del Presidente della Repubblica, come già preannunciato nella parte prima le invettive, minacce, insulti e dileggi si sono sprecati.

Infatti, nelle ultime due settimane prima i sindacati, poi le varie forze politiche si sono lanciate in pericolose e pericolanti “dissertazioni” sull’argomento, finendo soltanto per aggiungere danno al danno e beffa alla beffa.

Andiamo per ordine: all’indomani della presentazione del decreto (alla vigilia di San Nicola) i sindacati si sono affrettati a subire l’onta della disfatta sia sul piano sociale, sia politico. La reazione è stata unanime: “il momento è grave”, “dobbiamo fare sacrifici”, “attendiamoci ulteriore incremento della disoccupazione nei prossimi anni” (con Angeletti che quasi se la rideva sopra e sotto i baffi).

Insomma, i sindacati si adeguavano al decreto ed alla visione tecnicistica della cosa pubblica di Super Mario.

Per contro, la politica di palazzo reagiva in maniera contrastante: la Lega si dichiarava totalmente contraria non solo al decreto, ma all’intera compagine governativa, che cercava di contrastare in tutti i modi sia all’interno dei due rami del Parlamento, sia mediaticamente; l’Idv di Di Pietro dava inizialmente la sua fiducia al Governo, ma tra mille mugugni e con un “occhio sempre attento” all’evolvere della situazione; Pd e Pdl si prostavano di fronte al Mario Monti, ammettendo di fatto il fallimento delle rispettive politiche (con il buon Enrico che arrivava persino a pregare il neoeletto Presidente del Consiglio affinchè diventasse il suo fido e zelante scudiero, con tanto di lettera autografa scritta frettolosamente e puntualmente ed impietosamente inquadrata dalle telecamere di turno).

Di lì a presso si consumava il consueto rito davanti alle telecamere del “terzo ramo del Parlamento”, dove il conduttore quasi vestiva i panni del “professore”, davanti allo “scolaro” Monti (che rispondeva speditamente e compiutamente e quasi senza tentennamenti).

Nei giorni seguenti la bozza del decreto veniva via via digerita e cominciavano i mal di pancia prima dei sindacati, poi delle varie forze politiche (con autentiche gastriti croniche da parte di taluni).

Il decreto “salva Italia” piaceva sempre meno, tanto che si è dovuto persino scomodare lo “zio di Bonanni” per dare più forza alle invettive sindacali nei confronti del Governo. Le lacrime del Ministro del Welfare sono state utilizzate con dileggio nei confronti della medesima (e solo da persone appartenenti allo stesso genere, è bene ricordarlo).

La Lega ha rincarato la dose di critiche e l’Idv ha cominciato a paventare il proprio voto contrario nel momento dell’approvazione del decreto; lo stesso Berlusconi ha fatto sentire la sua voce, ma senza particolare convinzione, mentre il Pd ribadiva la sua fiducia incondizionata e quasi religiosa a Monti ed ai suoi Ministri.

La replica del Presidente del Consiglio non tardava ad arrivare: “Se non foste in questa situazione non avreste avuto bisogno di chiamare Noi”, “queste azioni dovevano essere fatte prima, perché non le avete fatte?”.

Ancora una volta, la colpa è degli italiani e dei politici che li rappresentano (come dargli torto?).

Tuttavia, Monti deve cedere ad alcune critiche che provengono da più parti e ricalibrare il decreto, ma senza grossi ripensamenti.

Così, si è arrivati all’approvazione definitiva del testo che, come consuetudine costituzionale, ha prima incassato la fiducia della Camera (402 voti a favore e 75 voti contrari) e poi del Senato (257 voti a favore e 40 contrari). Una larga maggioranza comunque prevista in partenza.

Entriamo ora nel dettaglio del decreto, seguendo da presso il commento già iniziato nella parte prima sulle ricadute immediate verso l’operatore famiglie: ritorno dell’ICI (con un nuovo nome) e nodo pensioni.

Sostanzialmente, il decreto nella sua veste finale conferma l’IMU (Imposta Municipale Propria) e quindi si tornerà a pagare la vecchia ICI su tutti gli immobili di proprietà secondo i termini previsti già nella bozza primigenia: rivalutazione del 5 per cento ai sensi dell’articolo 3, comma 48, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, secondo i seguenti moltiplicatori: 160 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale A e nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, con esclusione della categoria catastale A/10; 140 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale B e nelle categorie catastali C/3, C/4 e C/5; 80 per i fabbricati classificati nella categoria catastale A/10; 60 per i fabbricati classificati nel gruppo catastale D; 55 per i fabbricati classificati nella categoria catastale C/1.

Si aggiungono anche i terreni agricoli, tassati dopo una rivalutazione del 25% e con un moltiplicatore pari a 120. Vi è traccia anche di riduzioni dell’imposizione per i fabbricati rurali, ma si tratta di poca cosa e davvero circoscritta (l’aliquota è ridotta allo 0,2% per i fabbricati rurali ad uso esclusivamente strumentale).

Perciò, si conferma la potente volontà da parte del Governo di continuare a spremere “sangue dalle rape”, alleviando i rincari per le categorie catastali più elevate (e quindi i più ricchi); infatti, il moltiplicatore per la categoria A/10 è esattamente la metà della restante categoria A.

Passando all’articolo “pensioni”, il decreto conferma il definitivo abbandono del sistema “retributivo” e “misto” per tutte le categorie di lavoratori, a favore del sistema “contributivo” (ovviamente a partire dal 1° gennaio 2012, ribadendo la necessità di mantenere i vecchi “privilegi” pensionistici per chi appartiene ai vecchi sistemi), confermando la soglia di 66 anni per il recepimento della pensione, con l’incremento di 1 anno a decorrere dal 1° gennaio 2018. Ci si potrà ritirare dal lavoro prima di questa soglia di età, ma solo a patto di aver maturato contributi per 42 anni ed 1 mese per i maschietti e 41 e 1 mese per le signore.

Anche in questo caso ci sono talune eccezioni, ma sono al momento trascurabili, anche perché la maggior parte del lavoratori italiani sono oggi molto lontani dal percepimento della pensione (sempre più lontana ed insicura con gli attuali parametri) senza contare altre leggi e decreti vari che potranno modificare la materia in futuro.

Unica nota “positiva”, il tetto dell’indicizzazione delle pensioni, che passa a 1.400 €, per cui al di sotto di tale soglia i pensionati continueranno a vedere adeguati i loro assegni rivalutati in base all’indice ISTAT relativo sia per il 2012, sia per il 2013, mentre chi percepisce pensioni di importo superiore non usufruirà di questo adeguamento.

Così come per l’IMU, anche la “riforma” del sistema pensionistico porta con sé lacrime sudore e sangue, ma solo per i soliti noti.

Questo il quadro delle ricadute immediate per l’operatore famiglie, che non è certo solitario nel quadro del sistema economico nazionale.

Alla prossima puntata le conseguenze per l’operatore imprese. Continuate a seguirci e… Buon Natale?



mercoledì 28 dicembre 2011

Nichi, la "generosità"..e le mutande viola



di Carlo Felici




In una sua recente nota Nichi Vendola ci spiega che “'Il Pd ha dimostrato una grande generosita' sostenendo il governo Monti nonostante i sondaggi riconoscessero la vittoria alla coalizione del patto di Vasto'' e ne trae la conseguenza che “non romperemo con Bersani per questo atto di generosita', perche' la cosa piu' importante e' mantenere la prospettiva”
Se non fosse che la situazione italiana appare alquanto tragica per le prospettive recessive dell'economia, per altro incrementate da una manovra infarcita di tasse che si abbattono come una mannaia sempre sulle solite categorie di persone, da sempre tartassate fino all'inverosimile, ci sarebbe da ridere a crepapelle.

Basta infatti porsi la semplice domanda: “generosità verso chi?” Forse verso i giovani nei confronti dei quali non si fa nulla per offrire loro maggiori sicurezze nell'ambito del lavoro o per evitare la precarietà endemica a cui sono destinati da una sorta di meccanismo di “prescindenza generazionale”? O si parla forse della “generosità” verso i lavoratori ai quali è stato bloccato lo stipendio negando ogni rinnovo contrattuale, è stata posticipata la pensione, e che si pensa di colpire ulteriormente nelle fondamenta dei loro diritti eliminando anche l'articolo 18?  Si tratta per caso di quella verso i pensionati ai quali è stata bloccata l'indicizzazione del proprio assegno pensionistico?

Quella verso i giornali e i giornalisti liberi e non asserviti al potere che si vedono ridotto drasticamente il fondo sull'editoria fino a dover chiudere i battenti delle loro testate, che tra infinite difficoltà sono pur riuscite a sopravvivere per decenni? “Generosità” verso gli enti locali, che con questa manovra dovranno ridurre i servizi e far pagare più tasse?
No, anche un bambino è capace di riconoscere a chi è rivolta tale “generosità” espressa con il voto di fiducia a questo governo: agli stessi privilegiati di sempre, alla casta, che come al solito vota per il mantenimento dei suoi privilegi e fa pagare il conto di tutto il resto ai servi di una democrazia inesistente.
La generosità è stata rivolta a chi si vede regalate le frequenze televisive senza alcuna asta che possa far pagare un costo della crisi ai soliti plutocrati monopolisti.
La prodigalità è verso le lobby bancarie e finanziarie, che non avranno le tasse sugli enormi guadagni derivati dalle transazioni fiscali.
Si è stati largamente generosi verso la casta dei politici che non vedranno sostanzialmente intaccati in alcun modo i loro privilegi, continuando a marcare una distanza abissale con le loro prebende, i loro stipendi e loro pensioni d'oro rispetto al cittadino comune a cui invece vengono drasticamente ridotti.
La generosità di chi ha votato la fiducia a questo governo che sta proseguendo imperterrito, anche aggravandola, l'opera definita dallo stesso Nichi di “macelleria sociale” messa in atto da Tremonti, è verso i corrotti e i corruttori, nulla si è progettato di fare per potenziare l'opera della DIA il cui bilancio è già stato falcidiato di svariati milioni, nulla per rendere più efficiente la macchina amministrativa e giudiziaria, necessaria a prevenire e colpire il legame perverso tra politici e mafie.
E che dire poi della generosità verso i produttori di armi, di quella con cui imperterriti continuiamo a sperperare denaro per comprare superbombardieri con i quali non verrà curato né istruito nessuno?
O di quella verso i grandi costruttori di “cattedrali nel deserto”, di opere faraoniche dal costo destinato a crescere con gli anni in maniera esponenziale?
Ecco, questa, in maniera più concreta è la “generosità” e la “prospettiva” di cui parla Vendola riferendosi al PD come a chiunque abbia votato la fiducia a tale manovra infame.
Se il PD avesse voluto davvero essere "generoso" (ma tale termine è da considerarsi alquanto improprio se usato da partiti che spesso e volentieri hanno avuto come obiettivo primario il loro autopotenziamento) avrebbe davvero cercato di vincere le elezioni, e avrebbe poi governato chiedendo la fiducia per il bene del paese e non attribuendola invece a ciò che esso definisce il "male minore" ma che, per la stragrande maggioranza degli italiani, è il male maggiore che potesse loro capitare, se non altro perché li vede del tutto esautorati ed impotenti
Lui non vuole “rompere” ma gli italiani, in realtà, sono già belli che “rotti”, anzi, potremmo dire “massacrati”, però il “buon Nichi” probabilmente resta perfettamente speculare allo “strabismo” strombazzato da altri addirittura come programma politico. Da una parte guarda ai suoi elettori ed iscritti, e dall'altra guarda al suo destino politico, sempre più aggiogato al carro del PD, defininendo sempre più apertamente “sinistra radicale” quello schieramento che è l'unico ad opporsi oggi, sul piano politico a tali provvedimenti vessatori, e rifiutando per di più a priori ogni possibilità di creare un fronte largo di opposizione.
Ebbene, considerando che oggi tale carro, con la “grande e grassa ammucchiata ed abbuffata” che lo riempie, e che fa impallidire anche solo lontanamente la parola “compromesso storico”, appare di più come un vero e proprio carrozzone, dobbiamo riconoscere che il povero Nichi, rincorrendolo affannosamente sempre più da vicino, sembra in concreto destinato al ruolo di “carriola di scorta”. In particolare considerando che, appunto, anche un bambino, di fronte a tali riferimenti alla “generosità”, non avrebbe difficoltà a rispondere: “Sì, mio nonno in carriola!”
Gli risparmiamo le “mutande viola” (del tutto appropriato il colore considerando la inconsistenza politica del movimento omocromo) , ma di certo da quando parlava di sparigliare la sinistra, di rifondare il "vocabolario" della politica (e perché non partiamo dal vocabolo "generosità"?) e di assurgere al ruolo di grande nuovo leader di un centrosinistra rimesso completamente in discussione con le primarie di programma, pare proprio che egli si sia ridotto in “canotta e mutande”..il cui elastico per altro vediamo piuttosto sbrindellato, e ci auguriamo che almeno i socialisti di SEL non siano indaffarati a fornirgli troppo “spago”. Il rischio è infatti che, di questo passo, la sinistra "generosamente" sparisca del tutto e non ricompaia più.


C.F.

martedì 27 dicembre 2011

José Gervasio Artigas, il federalista libertario, di Riccardo Achilli




Con libertád, no ofendo ni temo

Introduzione

José Gervasio Artigas, considerato il libertadór del Cono Sud del continente latinoamericano, è una figura storica sicuramente meno conosciuta rispetto a Simón Bolivar, ma altrettanto importante, e ben più importante di quanto gli stessi uruguaiani, che lo considerano l'eroe della loro indipendenza, pensino, proprio perché la sua opera politica andò ben oltre l'obiettivo di ottenere l'indipendenza per l'Uruguay (l'allora provincia della Banda Oriental del Viceregno spagnolo del Rio de la Plata).
L'obiettivo dell'articolo non è tanto quello di ripercorrere la biografia di Artigas, quanto quello di dimostrare che i suoi insegnamenti avrebbero potuto cambiare le sorti del Cono Sud del continente, ed anche dell'America Latina, se fossero stati seguiti fino in fondo, se Artigas non fosse stato, di fatto, sconfitto nella sua battaglia politica.

I primi anni

José Gervasio Artigas Arnal nasce a Montevideo il 19 giugno 1764, da una famiglia della borghesia coloniale spagnola. Suo padre era latifondista e alto funzionario del Viceregno del Rio de La Plata, essendo stato anche capitano delle guardie di Montevideo.
La situazione politica della Spagna e delle sue colonie americane era già critica nell'anno in cui nacque Artigas. La politica riformista di Carlo III stava certamente innescando una modernizzazione della Spagna, introducendo i primi germi di una possibile rivoluzione industriale, accompagnati da un processo di laicizzazione dello Stato e della cultura, sotto la spinta dell'illuminismo, ma la sua politica estera era disastrosa, e accelerò di fatto la disgregazione dell'impero coloniale spagnolo. La borghesia creola aspirava già da tempo ad una maggiore indipendenza dal Regno, ed in particolare quella del Rio de la Plata e delle pampas argentine ed uruguaiane, che si arricchiva con il commercio del bestiame e dei suoi prodotti, e che di fatto era penalizzata sia dalle politiche protezionistiche attuate dalla metropoli a tutela dell'agricoltura nazionale, sia dal permanente stato di conflitto fra Spagna e Portogallo, che si traduceva in un ostacolo al commercio di bestiame nel vicino Brasile. Le politiche di Carlo III aggravarono la situazione. Il forte legame fra Carlo III e la corona francese lo condusse ad un confronto frontale, e perdente, con la Gran Bretagna, che finì per indebolire molto la residua potenza militare e navale spagnola, aprendo la strada ad una crescita dei commerci diretti, ed illegali, fra colonie spagnole e Gran Bretagna, che proprio nelle piazze mercantili e portuali di Buenos Aires e di Montevideo trovava una proficua testa di ponte. La sconfitta di Carlo III nel tentativo di strappare le Isole Malvine ai britannici, nel 1770, ne minò gravemente il prestigio agli occhi della sempre più inquieta ed indipendentista borghesia rurale del Rio de La Plata.
La riorganizzazione dell'agricoltura spagnola, ed il suo forte sviluppo, grazie alle riforme rurali avviate da Carlo III e dal suo Ministro Campomanes, contribuirono a ridurre ulteriormente gli spazi di mercato per gli allevatori ed i commercianti di bestiame delle Pampas e dei porti di Buenos Aires e di Montevideo. La politica anticlericale perseguita da Carlo III in patria contribuì ulteriormente a saldare una alleanza anti spagnola fra borghesia rurale e commerciale e clero nelle colonie (specie i gesuiti, particolarmente attaccati da Carlo, e particolarmente presenti e radicati in America Latina). La liberalizzazione del commercio con le colonie decisa nel 1778 è, peraltro, insufficiente a contenere le ambizioni della borghesia coloniale, oramai inesorabilmente in contrasto con quelle della metropoli. Se il commercio proveniente dalle Americhe viene aperto a nuovi porti ed a nuove imbarcazioni, e se vengono fortemente ridotti i dazi doganali per le esportazioni dalle colonie verso la Spagna, viene confermato il divieto assoluto di commerciare con altre potenze coloniali diverse dalla Spagna, ostacolando così una importante fonte di introiti per i latifondisti del Rio de la Plata, e spingendoli ad utilizzare il contrabbando per vendere bestiame e carne ai portoghesi del Brasile ed agli inglesi. Inoltre, il divieto di importare nelle colonie beni non spagnoli ostacolò il tentativo di introdurre razze bovine di origine britannica, molto più produttive delle vacche di razza iberica sino a quel momento utilizzate. Inoltre, gli elevati, ed odiati, prelievi fiscali che la metropoli esigeva dalla borghesia creola rimasero pressoché immutati. L'incosciente appoggio che Carlo III fornì alla rivoluzione statunitense del 1779, nella vana speranza che ciò avrebbe indebolito i nemici britannici, non fece che incoraggiare ulteriormente le ambizioni indipendentiste dei creoli. Le idee illuministiche di libertà ed eguaglianza fra gli uomini, che avrebbero soffiato, di lì a poco, sulla Rivoluzione francese, andavano a cementare una solida base ideologica per la nascente borghesia, al di qua ed al di là dell'Atlantico.
In questo contesto di crescente inquietudine ed indebolimento del potere coloniale crebbe il giovane Artigas, che, dopo aver ricevuto una educazione religiosa di base in città, dai 12 anni si trasferì permanentemente nell'azienda agricola del padre. In odio alla corona spagnola, come molti suoi coetanei della stessa estrazione sociale, si diede attivamente al contrabbando di bestiame e pelli con i portoghesi, ma strinse anche relazioni di amicizia con le tribù di indios charrùa sempre più emarginate ed impoverite dall'espansione del latifondo, decimate dal vaiolo e dall'alcolismo, sempre più precarie nella loro stessa sopravvivenza etnica. Arrivò addirittura a vivere con loro, sposandone una donna, che gli darà un figlio, Manuel (soprannominato Caciquillo) nel 1786 e conquistandosi in tal modo la profonda disapprovazione dei genitori e l'espulsione “de facto” dalla società creola dell'epoca.
In questa fase pre-politica di ribellismo giovanile, Artigas avrà modo di entrare in contatto, stringendo legami profondi con gli strati sociali che saranno la base della sua successiva azione politica e militare: i gauchos, essenzialmente lavoratori della pastorizia nullatenenti, generalmente di sangue misto, addetti al lavoro faticoso, pericoloso e praticamente non pagato di sorvegliare e curare il bestiame dei latifondisti, e di condurlo nelle lunghe transumanze stagionali; i negri, addetti a lavori agricoli servili di bassa qualificazione, sia nel Brasile portoghese che nelle aree dell'Uruguay occupate e colonizzate, di volta in volta, dai portoghesi, nella loro infinita lotta con gli spagnoli per il controllo della strategica provincia della Banda Oriental (così si chiamava, in epoca coloniale, l'attuale territorio dell'Uruguay), ricca dal punto di vista agricolo, ma soprattutto importante per controllare la costa settentrionale del Rio de La Plata, il vero e proprio portale di ingresso per i commerci marittimi con le ricche aree minerarie della Bolivia, del Perù e del Cile settentrionale, i miserabili mezzadri al servizio dei ricchi latifondisti, gli indios charrúa, veri e propri paria dell'Uruguay coloniale, isolati in riserve sempre più ristrette, e sovente utilizzati per lavori servili o lavori agricoli pesanti. Tale fase giovanile di Artigas è quindi fondamentale, perché lo mette in contatto con le condizioni di miseria e sfruttamento delle campagne del suo paese, e perché tali categorie sociali ed etniche diverranno il riferimento della sua azione politica, e costituiranno la base del suo esercito.

L'ingresso in politica

L'ingresso in politica di Artigas avviene dopo una prima fase di imborghesimento: nel 1790 sposa una spagnola, Isabel, dalla quale avrà quattro figli (avendone avuto un altro da una relazione extraconiugale, che nonostante lo scandalo fu protetto ed educato dai genitori di Artigas stesso), nel 1797 entra come soldato nella milizia spagnola, con compiti di contrasto ai tentativi di avanzata portoghesi, e di polizia di confine, arrivando quindi a reprimere i contrabbandieri con i quali aveva fatto combriccola in gioventù. L'anno successivo si imbatte in un nero fatto prigioniero dai portoghesi e ridotto in schiavitù, Joaquin Lenzina, soprannominato “El Negro Ansina”, lo acquista per restituirgli la libertà, e ne farà il suo luogotenente e migliore amico. Quasi tutte le informazioni biografiche su Artigas vengono infatti dagli scritti del Negro Ansina.
La prima occasione di formarsi un nucleo di combattenti a lui fedeli arriverà nel 1806, quando i britannici, tentando di approfittare del continuo indebolimento del controllo coloniale della Spagna, ed in particolare degli effetti devastanti della sconfitta navale a Trafalgar, che aveva di fatto annullato il potere navale spagnolo, e quindi azzerato la possibilità, per la Spagna, di difendere le rotte marittime commerciali con le sue colonie, e finanche di proteggere le coste americane da aggressioni navali, attaccarono Buenos Aires, conquistandola. Il disegno britannico divenne quindi palese: dopo aver sostenuto gli sforzi indipendentisti della borghesia creola, l'obiettivo era quello di sostituire il colonialismo spagnolo con un nuovo padrone. Artigas, a capo di un piccolo esercito di 300 uomini mal armati, diede man forte a Pueyrredòn nella sua riconquista della città. Venne quindi promosso a primo capitano della milizia reale di Montevideo. Alla morte di Isabel, contrae matrimonio con una sua cugina, Rafaela Rosalia, da cui avrà tre figli.
Ma la politica stava reclamando Artigas. Nel 1808, Napoleone, approfittando della lotta per il trono fra Carlo IV e suo figlio (il futuro Fernando VII) e della presenza di truppe francesi in terra spagnola, garantita dal trattato di Fontainebleau, occupò di fatto il Paese, imponendo al trono suo fratello Giuseppe Bonaparte, e facendo prigionieri Carlo IV e Fernando VII. Tale atto di forza precipitò nel caos il Paese, già inquieto per una gravissima crisi dell'agricoltura, innescando una guerra di liberazione nazionale contro i francesi. Il caos in cui precipitò la metropoli si tradusse in una opportunità eccezionale per le mire indipendentiste delle borghesie coloniali americane. Il 25 Maggio 1809 si produsse la prima insurrezione nella città boliviana di Chuquisaca, l'attuale Sucre (la Bolivia, come la Banda Oriental, l'Argentina, il Paraguay, il Perù ed il Cile, faceva parte dello sterminato territorio del Viceregno del Rio de La Plata, con capitale Buenos Aires). Da tale episodio si fa nascere la guerra di indipendenza ispanoamericana. Esattamente un anno dopo, il 25 Maggio 1810, il vicerè Cisneros viene deposto a Buenos Aires, e sostituito da una Giunta cittadina. Il potere spagnolo, quindi, si trasferì da Buenos Aires a Montevideo, nominando come nuovo vicerè Francisco de Elío.
Artigas, nel frattempo, era ancora ufficiale delle truppe reali, ed in tale qualifica venne sconfitto in una campagna militare nella quale cercò di recuperare alla corona spagnola l'attuale provincia argentina di Entre Rios. Tuttavia, l'esigenza dei ribelli di disporre di comandanti militari abili, anche se con un passato da lealisti, fece sì che la Giunta di Buenos Aires, capeggiata da Mariano Moreno, gli chiedesse esplicitamente di passare dalla parte degli insorti ad agosto del 1810. Artigas rispose a tale invito nel febbraio del 1811, disertando dalla guarnigione spagnola di Colonia, e raggiungendo Buenos Aires, per mettersi al servizio degli insorti, che gli diedero il grado di tenente colonnello, 150 uomini e 200 pesos per avviare la difficile impresa di liberare la Banda Oriental dal controllo spagnolo. L'11 Aprile, con il Proclama di Mercedes, Artigas assume il comando della rivoluzione nella Banda Oriental, ancora in nome e per conto della Giunta di Buenos Aires, e nel successivo mese di maggio sconfigge gli spagnoli a Las Piedras, avviando l'assedio di Montevideo. Nel 1812, convoca un congresso a Maroñas, in cui proclama l'autonomia della Banda Oriental dal governo di Buenos Aires, da garantire tramite un assetto federalista, che avrebbe dovuto estendersi a tutte le Province Unite del Rio de La Plata.
Tale atto è particolarmente significativo: da un lato evidenzia come non sia corretto limitare il ruolo di Artigas a quello di liberatore del solo Uruguay, dato che i suoi obiettivi politici riguardavano l'intero Viceregno, dall'altro la richiesta artiguista di autonomia federale della Banda Oriental da Buenos Aires costituisce un atto di sfida alla Giunta, dalla quale si verificherà un processo di distacco sempre più forte. Con il collasso del potere spagnolo, infatti, si iniziavano a delineare due fronti contrapposti all'interno degli insorti. Da un lato, la borghesia mercantile di Buenos Aires, legata ai traffici portuali di esportazione di prodotti agricoli, carni e pelli, e sostenuta dalla Gran Bretagna, impaziente di sostituirsi alla Spagna nel controllo del Rio de La Plata, spingeva per un assetto costituzionale fortemente centralista per le neonate Province Unite del Rio de La Plata, al fine di disporre degli strumenti di politica economica atti a spostare a proprio favore il valore aggiunto della ricchezza agricola e zootecnica del Paese; dall'altro, la borghesia rurale e latifondista, che spingeva per un assetto fortemente federalista, che le garantisse i margini di autonomia per negoziare a proprio vantaggio i prezzi di vendita dei suoi prodotti agli esportatori “porteños”.

Il contrasto con i centralisti di Buenos Aires

Con la sua presa di posizione, Artigas diede alla Giunta di Buenos Aires l'impressione di schierarsi dalla parte dei suoi avversari federalisti, anche se la realtà era molto più complessa, e in ciò risiede l'interesse storico di questo personaggio: egli, infatti, non era né dalla parte dei centralisti né da quella dei latifondisti federalisti, in quanto il suo progetto di riforma agraria, come meglio si vedrà nel prosieguo, era mirato proprio a frantumare il latifondo, mediante un ampio processo di redistribuzione della terra ai contadini più poveri e bisognosi. Ma la Giunta non era in vena di fare sottigliezze politiche, ed interpretò la richiesta federalista di Artigas come un atto di inimicizia. Tramò allora con il vicerè Elío, asserragliato dentro la Montevideo assediata, e negoziò un cessate il fuoco ed il riconoscimento dell'indipendenza, in cambio del ritiro delle truppe porteñe dalla Banda Oriental. Artigas, che a quel punto diveniva scomodo, venne nominato governatore in una piccola località della remota provincia di Misiones.
Indignato da questo tradimento delle istanze indipendentiste degli orientales, Artigas diede una impressionante prova del suo carisma fra gli abitanti del futuro Uruguay. Organizzò infatti un esodo di massa di circa 16.000 persone (praticamente quasi tutta la popolazione creola che abitava la Banda Oriental dell'epoca) attraversando con il suo popolo il fiume Uruguay ed impiantandosi vicino all'attuale città argentina di Concordia, dove di fatto creò dal nulla una repubblica indipendente, il cui territorio abbracciava, oltre che la Banda Oriental, anche l'attuale provincia argentina di Entre Rios, che i suoi seguaci occuparono rapidamente. Tale episodio è noto, nella storia, con il nome di “Redota”. Iniziò inoltre a crearsi una rete di alleanze con i cacicchi rurali e federalisti di altre province, in particolare di quella di Corrientes, facendo causa comune contro il nemico, identificato nella Giunta di Buenos Aires. Artigas fu nominato “protettore dei popoli liberi” dai suoi seguaci, e dai cacicchi rurali che ne accettarono l'autorità, ed il suo esercito era composto da gauchos, indios, negri liberati dalle piantagioni portoghesi dell'Uruguay settentrionale, braccianti agricoli senza terra. Gente che vedeva in Artigas una occasione di riscatto sociale.
La Giunta fu costretta a riconoscere Artigas come interlocutore, e nel 1813, all'atto di nominare i rappresentanti della Banda Oriental che avrebbero partecipato all'Assemblea costituente convocata a Buenos Aires, Artigas dettò le sue condizioni, che, chiaramente influenzate dalla rivoluzione americana e da quella francese, prevedevano, per l'organizzazione del nuovo Stato delle Province Unite del Rio de La Plata:
a) la garanzia della più totale indipendenza dalla Spagna, e la cessazione di ogni patto con i suoi residui rappresentanti;
b) un patto di confederazione fra le province, con un vincolo di mutua assistenza ed aiuto e la garanzia di amplissime autonomie a livello provinciale;
c) la più completa libertà civile e religiosa;
d) l'assoluta eguaglianza di diritti e doveri fra cittadini;
e) il diritto alla libertà ed alla sicurezza dei cittadini;
f) l'organizzazione in forma repubblicana della confederazione;
g) l'ubicazione della capitale federale fuori da Buenos Aires.
E' quindi già chiaro il disegno federalista, e per certi versi libertario, del pensiero politico di Artigas. Una impostazione simile verrà successivamente, come si vedrà, arricchita da elementi redistributivi e di giustizia sociale, fino a comporre un quadro di un pensiero libertario, avverso agli interessi della nascente borghesia latinoamericana, che si sarebbe presto convertita in borghesia compradora, nonché a quelli di chi, in una logica neocoloniale (come la Gran Bretagna, e successivamente gli USA) mise le mani sull'indipendenza latinoamericana, di fatto cancellandola per molto tempo, talché solo negli ultimi vent'anni si può parlare di un vero recupero di indipendenza e sovranità da parte dell'America Latina.
Ad ogni modo, la borghesia porteña non poteva accettare simili richieste, così come gli stessi latifondisti orientali iniziavano a comprendere che le idee di quest'uomo, e la sua base popolare di consenso, ne avrebbero minato gli interessi. Con un pretesto legale, si negò legittimità ai rappresentanti di Artigas, e si tramò con il latifondista orientale José Rondeau per inviare nuovi rappresentanti della Banda Oriental, tutti avversi ad Artigas e favorevoli agli interessi della borghesia rurale orientale. In risposta, Artigas abbandonò, a gennaio del 1814, l'assedio di Montevideo, che conduceva insieme alle truppe di Buenos Aires, e lanciò una serie di campagne militari, fra le province della Banda Oriental, di Misiones e di Entre Rios, per allargare la porzione di territorio che controllava con la sua repubblica “de facto”. La spedizione di truppe inviata da Buenos Aires per fermarlo venne distrutta nella battaglia di Entre Rios, dal suo luogotenente, Eusebio Hereñú.
Di conseguenza, il Direttore Supremo delle Provincie Unite del Rio de La Plata, Gervasio Posadas, emise, l'11 febbraio 1814, un decreto che definiva Artigas “traditore della Patria”, “infame”, “fuorilegge”, mettendo sulla sua persona una taglia di 6.000 pesos, se fosse stato catturato “vivo o morto”.

Il pensiero politico di Artigas e la sua innovatività

Nel frattempo, Artigas andava avanti nella costruzione della sua repubblica de facto, incurante delle minacce di morte provenienti da Buenos Aires. Ampliò il territorio sotto il suo controllo anche alla città di Montevideo, liberata nel 1815 dal suo generale, Fructuoso Rivera. Il successore di Posadas, Alvear, cercò di limitare la crescente influenza di Artigas su tutta l'Argentina, offrendogli l'indipendenza della Banda Oriental in cambio dell'abbandono delle restanti province sotto influenza artiguista, ma questi rifiutò, ed anzi aiutò i cacicchi delle province di Corrientes e di Santa Fe a liberarsi definitivamente dall'influenza di Buenos Aires. A maggio del 1815, Artigas stabilì il suo accampamento, e la capitale della sua repubblica de facto, a Purificación, vicino all'attuale città uruguaiana di Paysandú. E' utile riprodurre la descrizione che ne fece il commerciante di pelli scozzese John Robertson, per comprendere quale fosse il clima che si respirava: “aveva circa 1.500 seguaci straccioni, che operavano sia come fanti che come cavalieri. Erano indios tirati fuori, soprattutto, dai decadenti siti dei gesuiti, cavalieri ammirevoli e induriti da ogni tipo di privazione e fatica. Le fertili pianure di Entre Rios e della Banda Oriental fornivano sufficiente erba per i suoi cavalli, e abbondante bestiame per nutrirsi. Non avevano bisogno di nient'altro. Giacchetta e un poncho stretto alla cintura a mò di kilt, mentre un altro pendeva dalle spalle, completavano, con il berretto di paglia e gli stivali, i grandi speroni, la spada, lo schioppo ed il coltello, l'abbigliamento artiguista. Il suo accampamento era formato da file di tende di pelle e di casette di fango. E queste, insieme ad una mezza dozzine di casupole di aspetto migliore, costituivano l'accampamento di Villa de Purificación”.


L'estensione territoriale
della Lega dei Popoli Liberi



Il 29 Giugno 1815 Artigas convoca a Concepción del Uruguay il primo congresso dei popoli liberi, per dare una forma più organizzata al suo Stato, con rappresentanti eletti a suffragio universale e scrutinio segreto da tutti i cittadini delle diverse province aderenti. L'obiettivo era quello di “definire l'organizzazione politica dei popoli liberi, il commercio interprovinciale ed estero, il ruolo delle comunità indigene nell'economia, la politica agraria e la possibilità di estendere la confederazione dei popoli liberi al resto dell'ex Viceregno del Rio de La Plata”. In tale congresso, Artigas precisò una volta per tutte che il suo obiettivo non era quello di una limitata indipendenza della sola Banda Oriental, ma si estendeva all'intero territorio dell'ex Viceregno del Rio de La Plata, da riconfigurare su basi confederali (“nemmeno per sogno mi faccio portatore di una idea di indipendenza nazionale”, ebbe a dire). Le province che formavano già la confederazione dei popoli liberi sotto il controllo artiguista (ovvero la Banda Oriental, e le attuali province argentine di Entre Rios, Misiones, Cordoba, Corrientes e Santa Fe) si proclamarono indipendenti da ogni forma di controllo esterno, ed invitarono le rimanenti province argentine ad aggregarsi a loro in un sistema confederato. Artigas inviò quattro delegati a Buenos Aires con la seguente dichiarazione “la sovranità specifica dei popoli sarà dichiarata ed ostentata, come unico oggetto della nostra rivoluzione; l'unità confederale dei popoli e l'indipendenza non solo dalla Spagna ma da qualsiasi altro potere esterno...” Per tutta risposta, il Direttorato di Buenos Aires arrestò i delegati ed inviò truppe per invadere Santa Fe.
Nel medesimo congresso, si realizzò la prima riforma agraria di tutta la storia latinoamericana, mediante il “Regolamento Provvisorio per lo Sviluppo delle Campagne”, il cui motto era “que los más infelices sean los más privilegiados”. Si conferisce ai sindaci il potere di requisire le terre dei latifondi, per redistribuirle fra i contadini più poveri, con priorità di accesso ai nullatenenti ed ai più bisognosi, in particolare “i negri liberi, i “zambos” (persone di ascendenza mista nera ed india) della stessa condizione, gli indios ed i creoli in condizioni di povertà, diverranno assegnatari di terre, se con il loro lavoro e la loro onestà propendono alla loro felicità personale, e a quella dell'intera provincia. Si assegneranno terreni altresì alle vedove povere e con prole. Chi ha famiglia a carico avrà priorità sugli scapoli”. Viene stabilita la superficie massima di terreno assegnabile, al fine di evitare diseguaglianze.
Per assicurarsi che le assegnazioni di terre siano effettuate a favore di gente laboriosa e non a parassiti, si stabilisce che “entro due mesi dall'assegnazione, gli assegnatari dovranno aver costruito un rancho e due recinti. In caso di negligenza, i medesimi terreni saranno riassegnati ad altri vicini più laboriosi e benefici per la provincia”.
I terreni requisiti sono quelli di proprietà dei “cattivi europei” (ovvero degli spagnoli, o dei creoli che riconoscano ancora l'autorità della corona spagnola) e “degli ancor più cattivi americani” (ovvero i latifondisti) facendo però parziale eccezione per chi ha famiglia a carico, cui sarà comunque garantita una porzione di terreno sufficiente a sopravvivere. Al fine di evitare violenze inutili, si proibisce ai beneficiari di ripartirsi da soli terre e bestiame dei latifondi smembrati, prevedendo l'obbligo della presenza di un magistrato in tali occasioni. Si proibisce in modo severo qualsiasi atto vandalico contro i latifondisti espropriati, per la parte di beni che rimangono di loro proprietà, e si stabilisce un vero e proprio regime repressivo nei confronti di “vagabondi, malfattori – non nel senso di criminali, ma di persone pigre o non laboriose - e disertori che vagano per le campagne”, per i quali è previsto non il carcere, ma l'arruolamento obbligatorio nell'Esercito.
Al fine di eliminare l'endemico fenomeno di furto di bestiame, e le violenze, anche molto feroci, che si accompagnano a tale atto, viene inoltre previsto l'obbligo di marchiatura del bestiame di proprietà, istituendo un registro provinciale dei marchi, e si proibisce nella forma più assoluta qualsiasi atto di appropriazione, o di uccisione, di bestiame non marchiato. Nel “Far West” delle pampas di quell'epoca, si tratta di un progresso di civiltà di grande importanza.
Accanto alla riforma agraria, si delinearono i lineamenti del futuro sistema scolastico, che avrebbe dovuto essere “universale, senza distinzione di classe né di etnia”. Si forma anche un abbozzo di Stato sociale, con la previsione di erogazione di pensioni agli ex combattenti ed alle vedove o ai figli di combattenti caduti, qualora versassero in condizioni di povertà.
Infine si delinearono i tratti essenziali dell'architettura istituzionale del nuovo Stato, che avrebbe dovuto essere una confederazione di province libere, ciascuna delle quali amministrata da un alcalde de provincia e da alcaldes locali. Ogni provincia avrebbe dovuto avere la sua propria costituzione ed un proprio esercito, ed un governo locale competente per gli affari interni. Tuttavia, l'ordinamento politico era appena abbozzato. I lineamenti generali erano i seguenti:
a) l'obbligo di mutua assistenza e mutua difesa da aggressioni esterne da parte delle province che liberamente aderivano al patto;
b) l'obbligo per i governi provinciali e per quello nazionale di rispettare la tripartizione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario);
c) l'obbligo della forma repubblicana e il divieto di forme di “dispotismo militare” (ciò è praticamente una dichiarazione di principio, atteso che i caudillos provinciali che aderivano alla Lega erano di fatto capi militari, e che si consentiva a ciascuna provincia di dotarsi del proprio esercito);
d) il ricorso ad elezioni a suffragio universale per nominare i rappresentanti delle istituzioni;
e) il diritto per ogni provincia di avere il suo governo, la sua milizia e la sua costituzione, oltre che il diritto di proporre modifiche alla costituzione nazionale, e di disporre di ogni potere per auto-amministrarsi, rimanendo al governo confederale soltanto il disbrigo delle faccende di comune interesse (essenzialmente la politica monetaria e quella doganale, atteso che la difesa e la politica estera erano largamente delegate alle competenze di ogni provincia);
f) l'obbligo per i governi provinciali di rispettare la libertà, l'uguaglianza e la sicurezza dei cittadini;
g) il divieto di imposizione di tasse per commerci interprovinciali, e l'istituzione di un regime doganale unico, nell'ovvio tentativo di creare in tal modo un mercato unico, analogo alla futura CEE;
h) la possibilità (mai realizzatasi) di riconoscere riserve di territori ai popoli indios, che avrebbero dovuto essere auto- amministrate dagli stessi.
In buona sostanza, la combinazione di federalismo estremo, democrazia (anche in forme dirette, come quelle in teoria previste per le comunità di indios autogestite), giustizia sociale, egualitarismo nei diritti e nei doveri, sia di classe che di etnia, rappresentavano, in un'epoca in cui i principi del marxismo, dell'anarchismo e del libertarismo non erano ancora stati formulati, ed in cui l'influenza culturale dominante era quella dell'illuminismo, quanto di più rivoluzionario ci si potesse attendere. Di fatto l'idea di Artigas combinava i principi del contratto sociale di Rousseau con quelli repubblicani e di separazione fra i poteri di Montesquieu e con i principi federalisti sorti dalla Rivoluzione statunitense. Questa combinazione era quanto di più “rivoluzionario” ci potesse essere in quell'epoca, perché moderava la spinta potenzialmente autoritaria e robespierrista del concetto rousseauiano di “volontà generale” con le garanzie democratiche e liberali date, da un lato dall'assetto repubblicano e dalla separazione fra i poteri, e dall'altro dal disegno federalista (il federalismo di Artigas è anche più estremo di quello statunitense, e di conseguenza di quello della futura Repubblica Argentina, che scopiazzerà in larga misura la Costituzione degli USA).
Il tutto poi è accompagnato da un forte spirito redistributivo e sociale, e da una chiara ostilità nei confronti del razzismo e dello sfruttamento contro neri, zambos ed indios, che in qualche modo fa di Artigas un vero e proprio innovatore del pensiero della sua epoca. Egli infatti supera la mera denuncia dello schiavismo fatta da Montesquieu e Condorcet, perché arriva ad equiparare in modo esatto i diritti (ad es. il diritto alla terra o all'educazione) di tutte le etnie. Un concetto cui l'illuminismo non arrivò in modo definitivo ed esplicito (trovando in Voltaire, ad esempio, un convinto razzista), e che faticò ad imporsi, nel successivo secolo e mezzo, nell'Europa dedita al colonialismo e negli stessi Stati Uniti. Un concetto che superò anche quanto fece Simon Bolivar, che durante la sua fase di dittatore del Perù ripristinò il tributo indigeno, e promuovette un processo di liberazione dalla schiavitù piuttosto limitato (anche se gli va ascritta l'abolizione della mita, sorta di odiosa servitù delle gleba a carico delle popolazioni indie).


La bandiera della Confederazione dei Popoli Liberi


Il declino e la fine




Il pensiero di Artigas era talmente rivoluzionario, che riuscì a creare un blocco unito di oppositori, dai centralisti di Buenos Aires ai latifondisti rurali, passando per i caudillos, inizialmente suoi alleati, ed ora gelosi del suo carisma e potere. Nel 1816, un grosso esercito luso-brasiliano, alleato degli interessi britannici nell'area (interessi ovviamente opposti a chi predicava l'indipendenza da qualsiasi potere esterno, in nome della libertà dei popoli, come Artigas), invase la Banda Oriental, con il tacito consenso degli avversari interni di Artigas. Quest'ultimo lottò come un leone con i suoi luogotenenti (fra i quali un indio guaranì, Andrés Guazurary, soprannominato “el indio Andresito”) mentre Fructuoso Rivera, personaggio vile ed infame, dalle mani grondanti di sangue indio, tradì Artigas, ed arrivò a cospirare contro la vita stessa del libertadór, insieme alla élite latifondista della Banda Oriental, nel famigerato “club Barón”, creato dai luso-brasiliani e largamente infiltrato dalla massoneria. Nonostante una superiorità militare schiacciante, i luso-brasiliani ed i traditori orientali furono costretti a combattere contro le forze artiguiste, almeno fino al 1820, quando con la definitiva sconfitta di Tacuarembó, Artigas ed i suoi superstiti fuggirono in esilio, per non tornare mai più.


Il traditore Fructuoso Rivera


Nel frattempo, i caudillos delle altre province della confederazione artiguista, sfruttando la debolezza di Artigas, si resero indipendenti, chiudendo di fatto l'esperimento della Lega dei Popoli Liberi, scendendo a patti con Buenos Aires. Francisco Ramirez, il caudillo di Entre Rios, arrivò addirittura a combattere contro le residue forze artiguiste. Artigas si rifugiò in Paraguay, protetto dal dittatore Rodriguez de Francia, senza più né famiglia né seguaci, accompagnato solo dal fedele amico Negro Ansina, senza più avere alcun ruolo politico di alcun tipo. Nel 1825 conosce la paraguayana Clara Gómez Alonso, che sarà la sua compagna fino alla fine, e che gli darà il suo ultimo figlio nel 1827.
Nemmeno nel 1828, quando l'Uruguay divenne finalmente indipendente, sotto gli auspici della Gran Bretagna, che voleva fortemente un piccolo Stato-cuscinetto fra Brasile ed Argentina, per meglio condurre la sua politica neocolonialista del “divide et impera”, gli fu consentito di tornare nella sua madre-patria. Il primo presidente, José Rondeau, era infatti esponente dei latifondisti, e suo acerrimo nemico. Il secondo presidente fu Fructuoso Rivera, il traditore, fondatore del partido colorado, la cui presidenza è conosciuta soprattutto per l'orrendo genocidio degli indios charrúa, che Artigas aveva protetto e difeso, e che furono letteralmente fatti sparire dalla faccia della terra da questo infame traditore ed assassino, non degno nemmeno di essere paragonato ad Adolf Hitler, e che ancora oggi, purtroppo, viene considerato, non si sa a quale titolo, eroe nazionale in un Paese, come l'Uruguay, che ha memoria corta e anche molta coda di paglia.
Nel 1840, pur senza aver commesso alcunché, essendosi limitato a fare il semplice contadino, e senza tener conto della sua età oramai avanzata, Artigas fu incarcerato per qualche settimana dal nuovo dittatore paraguayano, Carlos Antonio López. Solo nel 1841, quando oramai Artigas era troppo vecchio per nuocere, in un evidente tentativo di ripulirsi l'immagine, Fructuoso Rivera gli offrì di tornare in Uruguay, ma il generale rifiutò sdegnosamente la proposta ipocrita (si dice che restituì la busta con l'offerta di Rivera senza nemmeno averla aperta) sia per non contribuire a riabilitare un traditore, sia per non fornire supporto ad un progetto politico, quello di una pseudo-indipendenza dell'Uruguay sotto protettorato britannico e governata da una borghesia di massoni, che non era mai stato il suo progetto politico, e che anzi aveva contrastato con tutte le sue forze. Morì ad Asunción il 23 settembre 1850, circondato dall'affetto dei paraguayani. Gli indios guaraní del Paraguay, che lo conobbero da sconfitto in esilio, lo chiamarono “Karay Guazù” (Grande Signore) ed Oberavà Karay (Signore che Risplende). Un albero di Ibirapitá verrà piantato nel 1911 ad Asunción, in ricordo di Artigas. Solo nel 1856 il suo Paese gli rese i dovuti onori, con la sepoltura ufficiale nel Panteon nazionale.
Un visitatore, Larrañaga, lo descrisse così, all'apice del suo successo: “ci ricevette senza alcuna etichetta. Non somigliava in niente ad un generale: il suo abito era da contadino, e molto semplice; pantaloni e giacchetta azzurri senza alcun fregio, scarpe e calzini bianchi di cotone; cappello rotondo con imbottitura bianca e un cappotto erano i suoi unici ornamenti, ed il tutto era povero e logoro. La sua conversazione è attraente, parla piano e in modo posato; non è facile sorprenderlo in larghi ragionamenti, poiché riduce le difficoltà a poche parole, e con la sua esperienza possiede uno straordinario dono di fare previsioni. Conosce profondamente il cuore umano, ed in particolare quello dei nostri contadini. Tutti lo circondano e lo seguono con amore, nonostante il fatto che, accanto a lui, vivano nudi e pieni di miseria, non perché privi di risorse, ma per non opprimere le popolazioni con tributi, e preferendo abbandonare i propri incarichi, piuttosto che vedere non rispettati i suoi ordini”.
La storia non si fa con i “se”, e non è facile dire cosa sarebbe avvenuto “se” l'esperimento artiguista di Confederazione di Popoli Liberi fosse sopravvissuto ai suoi nemici interni ed esterni. E' però possibile affermare che, probabilmente, quel modello, basato sulla rivendicazione di una assoluta autonomia da qualsiasi potere esterno, avrebbe contribuito a formare una coscienza latinoamericana più forte, quindi a resistere meglio alle aggressioni imperialistiche esterne, prima britanniche e poi statunitensi, e probabilmente, grazie al suo forte contenuto sociale, avrebbe contribuito a formare un esempio di coesistenza pacifica ed egualitaria fra diverse etnie, e di giustizia sociale, in un continente che avrebbe invece continuato, ed in parte tuttora continua, ad essere martoriato da profonde ingiustizie e discriminazioni di etnia e di estrazione sociale.

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