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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 20 dicembre 2011

Sinistra radicale in Italia: a che punto siamo? di Riccardo Achilli



Condizioni oggettive e soggettive

A che punto siamo nello sviluppo di una sinistra radicale nel nostro Paese? Bella domanda, cui personalmente non ho una risposta convincente da dare. Certamente al crescere delle condizioni oggettive di una situazione rivoluzionaria, che procede con l'impoverimento progressivo di strati sempre più ampi del proletariato, persiste una perniciosa assenza della condizione soggettiva, poiché non solo manca un partito unitario e forte, ma sembra mancare anche un vertice sufficientemente coeso, carismatico e in grado di condividere fosse anche un programma di transizione sufficientemente articolato, figuriamoci un programma rivoluzionario. In assenza di una situazione ragionevolmente pronta ad un salto rivoluzionario immediato e diretto, il lavoro che sembra attendere prioritariamente la sinistra antagonista è quello di costruire, se non una coscienza di classe, quantomeno una maggiore consapevolezza degli obiettivi di una lotta.
Il problema, quindi, è oggi quello di iniettare una consapevolezza di base in un proletariato caratterizzato da condizioni strutturali di modestissima capacità combattiva di fronte alla svolta esasperatamente liberista che il capitalismo in crisi sta imprimendo. Dovrebbe far riflettere il sondaggio, pubblicato ieri, in cui il 58% degli intervistati ha ancora fiducia in Monti e nella Fornero, anche dopo la pubblicazione della manovra finanziaria, mentre per un terzo dell'elettorato la colpa della situazione attuale, e delle manovre finanziarie di Monti, è da addebitarsi a Berlusconi ed al suo Governo. Non serve a niente liquidare con sufficienza i sondaggi, mentre è molto più utile esaminarne il significato, che più o meno riflette il successo di un'operazione mediatica, condotta dalla borghesia che ha scaricato il suo ex-campione Berlusconi, oramai imbolsito da una gestione "tiberiana" del potere, per mettersi nelle più energiche mani del tecnico Monti. Tale operazione tende, da un lato, a recuperare consenso dai settori riformisti dell'elettorato, facendo passare un normalissimo avvicendamento fra gli scudieri politici della borghesia come la tanto sospirata rivoluzione antiberlusconiana, che nella crisi di idee e valori del riformismo della fase successiva alla disfatta del keynesianesimo, è praticamente l'unico obiettivo politico su cui tale area politica e sociale fonda una presunta (ed illusoria) identità. D'altro canto, si radica nelle menti l'idea del "sacrificio necessario", dopo l'orgia di tanti anni in cui "si è vissuto al di sopra dei nostri mezzi" (spiegatelo all'operaio che fa sopravvivere una famiglia con 1.200 euro al mese, ditelo al pensionato al minimo, a quell'8% di famiglie italiane in povertà relativa, che in questi ultimi anni avrebbero vissuto in un'irragionevole orgia di benessere consumistico, e che ora devono stringere la cinghia).

Nuovo proletariato

Questa miserevole condizione della consapevolezza, della necessità di una svolta combattiva è difficile da spiegare in modo semplice. Certamente 20 anni di berlusconismo hanno lavorato a fondo sulla sovrastruttura culturale del proletariato, innestandovi valori di individualismo e competizione consumistica che hanno profondamente inciso sui meccanismi di cooperazione e mutuo aiuto, quindi sulla stessa consapevolezza di appartenere ad una stessa classe. La persistenza di un'area a sviluppo ritardato come il Mezzogiorno ha provocato una incorporazione di ampi strati del proletariato meridionale all'interno di meccanismi consociativi, nei quali il posto di lavoro, o piccoli ma vitali sussidi economici, vengono barattati con il voto, dato a formazioni politiche rappresentative della borghesia, e quindi in realtà ostili agli interessi degli operai e dei sottoproletari urbani che li votano. Gli stessi interessi di classe del proletariato settentrionale e di quello meridionale sono stati artificiosamente contrapposti, facendo credere all'operaio lombardo (che non di rado vota per la Lega) che il suo compagno siciliano gli stesse rubando quote di benessere, e così creando addirittura una inedita spaccatura geografica nel proletariato italiano.
I cambiamenti stessi di un capitalismo sempre più terziarizzato hanno però contribuito ancor di più nel senso di un indebolimento della capacità combattiva della classe. Oggi l'80% del valore aggiunto delle economie capitaliste mature è generato dai servizi. E per sua natura, il processo produttivo di un servizio ha caratteristiche peculiari (specie per i servizi a più alto valore aggiunto, quelli la cui materia prima è costituita dal sapere e dall'elaborazione intellettuale di questo - servizi finanziari, consulenziali, di comunicazione, culturali, logistici, ecc.). Il servizio ad alto contenuto di informazione ed elaborazione intellettuale è unico, irripetibile, non può essere prodotto in serie, richiede interazioni orizzontali e non gerarchizzate. tutto ciò richiede una organizzazione del lavoro flessibile fino al precariato, gerarchie di tipo lean ed orizzontali, basate sul concetto del lavoro di gruppo e del brainstorming. Tutto il contrario rispetto ai criteri del fordismo delle vecchie economie industriali. Tale mutamento influisce negativamente sulla coscienza di classe ed aggrava le condizioni di sfruttamento di questo "nuovo" proletario. Spieghiamo meglio questo aspetto.
In sostanza, il proletariato di oggi è sempre più incentrato su figure professionali flessibili, con scarso attaccamento al ciclo produttivo della loro azienda, e che quindi si sentono estranei alle lotte di classe che vi si potrebbero sviluppare.
Si tratta inoltre di lavoratori abituati a lavorare su cicli produttivi sempre più individualizzati, o per piccoli team, e quindi isolati e frazionati dai loro colleghi e compagni, dotati di autonomia funzionale ed organizzativa, tale da configurarli come dei collaboratori del padronato, più che come dipendenti in senso tradizionale (e non è raro che alcuni precari, la cui attività consiste nel fornire servizi consulenziali o di staff al capitalista, vedano sé stessi più come “collaboratori” della proprietà dell'impresa che come sono in realtà, ovvero dei proletari). Naturalmente, tale visione è falsa. Questi precari rimangono dei proletari nel senso marxiano del termine, perché nei rapporti sociali di produzione non hanno da offrire nient'altro che la loro forza-lavoro, e quindi operano in condizioni di alienazione rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione e di sfruttamento anche peggiore rispetto al passato.
In una logica marxista, il tempo di lavoro è la chiave per analizzare le condizioni di sfruttamento. Ebbene, il proletario che la terziarizzazione dell'economia ha precarizzato è ancor più sfruttato rispetto al vecchio proletario fordista. Infatti, il suo tempo di lavoro diviene sempre più destrutturato (e lungo). Questo nuovo precario intellettuale terziarizzato, in pratica, non "stacca" mai. Può essere chiamato a lavorare negli orari più imprevedibili. Anche quando è fuori ufficio, le attività di autoformazione, di apprendimento, di rielaborazione, lo assorbono., ecc., rimane tale, ed anzi la sua condizione oggettiva peggiora, per certi versi, rispetto al lavoratore di 30 ani fa. Inoltre cambia, ed in peggio, è la sua coscienza di classe, ovvero la sua percezione del suo posizionamento in dinamiche di classe.
A tal punto che la destra liberale può avanzare l'ipotesi (erronea) che le classi non esistono più, affogate come sono in un enorme ed indistinto "ceto medio" (che però dal punto di vista storico ed economico non ha una sua definizione, quindi non ha un ruolo unitario come classe). Si è giunti al punto che le teorie manageriali più attuali tendono, ovviamente in modo falsificato e strumentale, a considerare morto il conflitto di classe sul posto di lavoro, pretendendo di trasformare l'operaio in un alleato del padrone, anche per il tramite dell'introduzione di sistemi di compartecipazione all'utile d'impresa, che ovviamente sottraggono agli operai la lotta per la posta più importante, ovvero per la proprietà dell'intera impresa, e non di una misera ed eventuale quota degli utili, e sistemi di cogestione, che ovviamente convengono esclusivamente alle burocrazie sindacali che siedono nei consigli di sorveglianza, non certo ai lavoratori. Tali lavoratori sono inoltre abituati a considerarsi dei “piccoli capitalisti”, più evoluti e tutelati rispetto agli operai industriali o agricoli, casomai in grado, tramite i loro risparmi, di fare investimenti immobiliari e finanziari, quindi di scimmiottare in piccolo la borghesia, sentendosi quindi non i proletari che in realtà sono, ma quasi dei piccoli imprenditori.
Rispetto alla succitata evoluzione, il toyotismo ed i sistemi di qualità totale sono stati devastanti, introducendo concetti di lean organization che hanno frammentato l'unitarietà dei lavoratori, anche a livello di singola fabbrica, rendendo meno intuitiva l'identificazione del nemico di classe. Il resto lo ha fatto la de-verticalizzazione dei processi produttivi avviatasi dagli anni Ottanta, in cui l'originaria unitarietà dei lavoratori nelle grandi fabbriche è stata spezzata lungo le filiere, frantumandosi in un pulviscolo di piccole e medie imprese operanti in diversi segmenti della catena del valore, caratterizzate da sistemi di governance che, nei confronti dei lavoratori, sono intrisi di paternalismo e familismo, indubbiamente atti ad annacquare la lotta di classe.
Infine, il sorgere di un nuovo dualismo interno nel mercato del lavoro ha contribuito a frammentare ulteriormente il fronte di lotta del proletariato. I vecchi modelli “insider-outsider” utilizzati per descrivere la competizione interna fra lavoratori (insiders) e disoccupati (outsiders) sono adesso applicabili anche fra i vecchi insiders stessi, poiché si crea un ulteriore frammentazione (che va a sovrapporsi con quella fra chi lavora e chi non lo fa) fra lavoratore a tempo indeterminato e precario. Quest'ultimo viene utilizzato dalla borghesia come “benchmark” sul quale parametrare l'abbassamento dei diritti dei lavoratori stabili, chiedendo loro un aumento di produttività (e quindi un aumento del saggio di sfruttamento) in cambio della loro condizione “privilegiata”, mentre il precario viene spremuto sempre di più agitandogli sotto il naso l'illusione di una futura “stabilizzazione”, in cambio della quale, oggi, viene chiamato a lavorare a ritmi sempre più forsennati, e con salari da miseria. Non è nemmeno infrequente la situazione in cui si vengano a creare veri e propri conflitti fra lavoratori precari e lavoratori stabili: questi ultimi imputano al precario l'abbassamento dei loro diritti e l'aumento del carico di lavoro, mentre i precari sono portati a pensare che la mancata stabilizzazione dipende da un ostracismo da parte dei colleghi a tempo indeterminato, o semplicemente dal fatto che costoro occupano gli unici posti di lavoro stabili che l'azienda può offrire. Ovviamente la radice di tale situazione non risiede nei lavoratori, ma nei capitalisti che hanno creato artatamente tali conflitti in nome del “divide et impera”, ma questo non traspare facilmente.

Che fare?

Quale che sia la spiegazione, non vi è dubbio che occorra lavorare sulla ricostituzione di una consapevolezza minimale della necessità di reagire in modo radicale. Non ho ricette magiche da dare (altrimenti sarei un dirigente politico primario, cosa che non sono né sarò mai, occupandomi di altre cose). Certamente va ridefinito il sindacalismo. La progressiva incorporazione dei grandi sindacati confederali nei meccanismi di controllo del capitalismo probabilmente porta a riconsiderare l'esigenza di far ripartire la lotta sindacale dal basso, mediante sindacati di base, di fabbrica e di unità produttiva, autonomamente creati e gestiti direttamente dai lavoratori, e dotati di una struttura minima di coordinamento fra loro, per condurre lotte in comune.
Molto però dipende anche da ciascuno di noi, dalla capacità di dare segnali giusti, di fornire indicazioni utili, il che presuppone una capacità di analisi politica che spesso latita. Alcuni esempi in tal senso: vedo serpeggiare nella sinistra una crescente e pericolosa simpatia per le posizioni leghiste, solo perché, per questioni meramente tattiche, la Lega osteggia il Governo Monti adoperando, nella sua retorica politica, argomenti simili a quelli che utilizzerebbe un partito comunista. Tale simpatia è stata addirittura portata ad estreme conseguenze, proponendo alleanze tattiche con la Lega, anche da menti molto brillanti, provocando in me non poco sconforto e molta delusione. Attenzione: la posizione della Lega nei confronti di Monti indebolisce, anziché rafforzare, gli interessi di classe. Tale posizione è infatti strumentale esclusivamente all'egoistica pretesa della piccola borghesia settentrionale (che rappresenta la base dell'elettorato leghista, e ne ha conformato la linea politica e i richiami identitari) di non pagare il costo della macelleria sociale di Monti (che poi se a pagare tale costo è il proletario, specie se meridionale, all'elettore medio della Lega va benissimo). La posizione leghista, condita da continui appelli secessionistici, in realtà rafforza la posizione di Monti e della borghesia, anche se formalmente la critica. La paura della secessione agitata, con la bava alla bocca ed il dito medio alzato, da esagitati che indossano elmi celtici, spinge ancor di più il resto dell'elettorato a stringersi attorno a Monti, per "salvare la Patria", minacciata dal secessionismo leghista (che sembra, apparentemente, rafforzarsi con l'indebolimento progressivo dell'economia e della governance politica del Paese, e quindi con il governo dei tecnici, e con le ricette economicamente disastrose che tale governo propone, anche se in larga misura tale rafforzamento delle posizioni secessionistiche è frutto di una illusione ottica e mediatica). Quindi l'amaro calice dei sacrifici propalati da Monti diviene ancora più facile da ammannire, in nome della difesa dell'unità della Patria! Che servizio sopraffino i leghisti stanno rendendo all'italica borghesia! Occorrerebbe sempre tornare agli insegnamenti marxisti di base, secondo i quali non ci si può alleare con la piccola borghesia, che ha sempre un atteggiamento opportunista di fronte alla rivoluzione, ma tutt'al più la si deve trascinare a rimorchio di un'iniziativa politica che rimanga in mano al proletariato.
Altro esempio di errore frequente: fare crescere la consapevolezza significa insegnare al proletariato quali sono le cause e le radici dell'attuale crisi, e delle dolorose manovre finanziarie che lo stanno indebolendo, in nome di un risanamento delle finanze pubbliche che conviene soltanto ai grandi operatori finanziari globali, che dei governi sono i principali creditori. Ciò significa che la lotta di classe deve essere orientata alla radice del problema, ovvero contro i meccanismi di funzionamento dei mercati finanziari, e quindi occorre rivendicare la fuoriuscita immediata dall'euro, lo smantellamento dell'Unione Europea, che di fatto è solamente un meccanismo di liberalizzazione dei mercati delle merci e dei fattori produttivi, che, aumentando la competizione fra questi (ed in particolare fra i lavoratori dei diversi Paesi membri) si risolve in una soluzione liberista a favore della borghesia. E che occorre collettivizzare (non soltanto meramente nazionalizzare) le banche. E abolire i fondi pensionistici, tornando ad una gestione esclusivamente pubblica della previdenza e sotto il controllo dei lavoratori. E proibire per legge l'utilizzo di strumenti finanziari derivati di qualsiasi genere. Viceversa, l'idea di combattere a livello nazionale le manovre finanziarie che di volta in volta, nei Paesi PIIGS (come l'Italia) vengono ammannite per far pagare ai lavoratori il costo del risanamento delle finanze pubbliche e della difesa dell'euro (peraltro una difesa di breve periodo, perché è chiaro anche ai mercati finanziari ed ai loro scherani politici e tecnocratici che l'area-euro è in realtà divenuta insostenibile e quindi sarà smantellata, non prima di aver recuperato il recuperabile dai crediti vantati nei confronti dei Governi dei Paesi iper-indebitati). Educare il proletariato nazionale ad una lotta diretta contro il governo Monti e le sue manovre, senza invece educarlo ad una lotta contro le radici strutturali da cui il governo Monti e le sue ricette economiche scaturiscono, è come confondere i sintomi con le cause di una malattia, ed è profondamente diseducativo.
Terzo esempio, di cui ho parlato in un articolo riferito alla nuova economia del benessere: concetti anche corretti e condivisibili come la sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo possono essere utilizzati dalla borghesia per sviare la visione del proletariato dalle condizioni strutturali dei rapporti sociali di produzione, da cui i problemi di sostenibilità ambientale e sociale derivano, verso un terreno molto più innocuo per la borghesia stessa, ovvero quello sovrastrutturale della qualità della vita, dell'amenità dell'ambiente e del paesaggio, ecc. Tali tentativi sono sostenuti da economisti e pensatori che si autodefiniscono "progressisti", ma che in realtà, spostando la lotta di classe dal terreno strutturale a quello sovrastrutturale, la neutralizzano, difendendo di fatto l'ordine capitalista. Occorre tenersi lontani da tali elaborazioni concettuali, e recuperare il senso della centralità della crescita economica, e quindi dei rapporti sociali di produzione che ne sono alla base. Lottando per un cambiamento dei rapporti di produzione che favorisca la crescita sotto precisi vincoli di compatibilità sociale ed ambientale, non espungere la centralità dei problemi del benessere materiale.
Una maggiore attenzione a tali aspetti è forse il miglior contributo che possiamo dare. Tutto ciò va fatto, e forse è anche la cosa più importante di tutte, recuperando la capacità di ascolto e dialogo fra compagni. Non rinchiudiamoci nel dogmatismo e nel settarismo. Evitiamo atteggiamenti autoreferenziali o dettati esclusivamente da orgoglio personale. Recuperiamo la capacità di ascoltare chi ci critica con spirito costruttivo. Come ben dice l'anarchico spagnolo Guti, "hay que discutir, discutir, discutir. De la discusiòn sale la luz, y no de las votaciones". Come dire...nessuno nasce saputo e nessuno nasce infallibile. Un gruppo dirigente si forgia nella discussione critica e nel coraggio di adottare posizioni aperte e non dogmatiche.

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