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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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sabato 31 dicembre 2011

Un discorso di fine anno in tre sole parole.


di Carlo Felici

La lettera del Presidente Napolitano inviata ieri a Repubblica ci consente alcune riflessioni nel merito dei suoi contenuti e della loro aderenza a determinati principi ai quali si fa riferimento.

Prima osservazione, Napolitano scrive: “Particolarmente acuta è oggi per le forze riformiste l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di sistemi di Welfare State in Italia e in Europa. Ebbene, per comprendere e affrontare le sfide di un’economia di mercato globalizzata, rimuovendo incrostazioni corporative e assistenzialistiche rimaste ancora pesanti nel nostro paese, la lezione di Luigi Einaudi può suggerire riflessioni e stimoli fecondi. Ci si può, naturalmente, chiedere innanzitutto come e perché quel filone di pensiero liberale abbia incontrato sordità e suscitato contrapposizioni nell’area del riformismo e, più concretamente, nella sinistra legata al mondo del lavoro, quando prese corpo, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, una nuova dialettica politica democratica nell’Italia repubblicana. In effetti, i termini di quella dialettica furono drasticamente segnati da una conflittualità ideologica che discendeva in larga misura dal contesto internazionale presto precipitato nella guerra fredda.”

Tralasciando di considerare cosa dicesse in quegli stessi anni lo stesso Napolitano che prese le difese dell'URSS quando invadeva l'Ungheria, perché poi, in effetti, lui stesso se ne è pentito amaramente, (un fatto che comunque ci dà una certa idea della “sordità”) la questione effettiva è: davvero quel filone di pensiero nacque con intenti minimamente paragonabili a quelli che oggi Napolitano mette in risalto? Per cioè perseguire nuovi equilibri economici e sociali che avessero come finalità l'essere “maggiormente competitivi”? Per “rimuovere incrostazioni corporative e assistenzialistiche”, magari addebitabili sempre e comunque all' “impaccio sindacale”?
Cosa diceva Einaudi dei sindacati, ad esempio? Ebbene, i sindacati «non contraddicono lo schema della concorrenza, ma sono uno strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello schema» ( Einaudi: Liberismo e Comunismo, in “Nuovi Argomenti” – 1941)
Il liberismo einaudiano (ma sarebbe più appropriato parlare di liberalismo) consiste in un “metodo di libertà», che «riconosce sin dal principio il potere di versare nell’errore” questo vuol dire che «la libertà vive perché vuole la discussione fra la libertà e l’errore; sa che, solo attraverso l’errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla verità. (…) Trial and error; possibilità di tentare e di sbagliare; libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi».
Si può minimamente considerare di confrontare ciò con la pratica dell'adeguamento alle regole dei mercati ai quali non si riconosce alcuna possibilità di errore? Verso i quali nessuna regola “correttiva” si pone in vigore, in ambito nazionale ed internazionale?
E se i mercati agiscono secondo logiche monopolistiche e speculative, ci dobbiamo mettere necessariamente, come rileva Napolitano, nella situazione di adattarci ai “condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato”? Cambiato in base a cosa? Certamente in base al fatto che l'oligopolio capitalista, oggi, rispetto ai tempi di Einaudi, è molto più forte ed aggressivo e sicuramente più distruttivo in termini di impatto ambientale e di guerre ai danni di popoli poveri e destinati ad un ruolo sempre più marginale.
Einaudi era molto determinato nel contrastare tale monopolismo, anzi, potremmo dire che questo era uno dei presupposti cardine del suo pensiero. E proprio per spezzare tale eventualità sul nascere, Einaudi metteva in risalto la necessità che lo Stato si dovesse impegnare per rimuovere gli impedimenti politici, quindi le leggi, che minano il funzionamento della libera concorrenza e competizione; diventerebbe quindi necessario, per un pieno sviluppo in senso liberale della società, combattere «le forze economiche e politiche, le quali, se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne l’abrogazione».
Possiamo dire, parlando dei governi nazionali (anche quelli del centrosinistra), e considerando le loro politiche nel merito della possibilità di favorire la libera concorrenza e contrastare quel conflitto di interessi che è la base fondante di ogni politica monopolistica, che tale principio sia stato applicato? Persino parlando dell'ultimo governo di Monti e dell'asta sulle frequenze, la risposta appare lapalissiana, e Napolitano se non considera tale incongruenza, rischia di essere assai presbite, di guardare bene assai lontano soprattutto nel tempo, ma di non poter affatto leggere il presente, il suo così come il nostro. Ed il presente che è sotto i nostri occhi è rappresentato dal tragico destino in cui si trova il nostro Paese che vede imprenditori e operai accomunati nel "suicidio di classe" perché sono ridotti a "niente" dalla implacabile legge dettata dagli oligopoli, in particolare da quelli commerciali, la quale li costringe alla impossibilità di competere, alla marginalizzazione e alla perdita del lavoro e della loro identità.
Ciò vale soprattutto in campo internazionale, in cui i colossi finanziari e bancari ormai la fanno da padroni, con le loro straripanti mire speculative e monopoliste su ogni elementare criterio di libera concorrenza, e senza che alcuna politica efficacemente transnazionale possa porre loro seriamente dei limiti, determinando così dei veri e propri fenomeni sismici altamente distruttivi nei confronti delle economie locali e di ogni loro singola iniziativa imprenditoriale.
Napolitano conclude la sua lettera con le seguenti osservazioni che, a ben guardare, sembrano quasi una sponda per le recenti posizioni della segreteria del PSI: “Il recupero di simili approcci e contributi di pensiero ai fini di una revisione, di un adeguamento al nuovo contesto generale, della piattaforma programmatica e di governo delle forze riformiste, non può apparire né improprio né arduo: se è vero che, come è stato osservato, la fecondità della ricerca del liberale Einaudi resta testimoniata dalla varia collocazione di uomini usciti dalla sua scuola, tra i quali eminenti liberalsocialisti e socialisti liberali.”
Ma siamo veramente sicuri che Napolitano e l'attuale segretario del PSI interpretino correttamente la lezione del libralsocialismo su cui vorrebbero impostare una nuova politica di rapporti nell'ambito del riformismo e del centrosinistra?
Leo Valiani ci spiega che, rispetto ai seguaci del Socialismo Liberale di Rosselli, nato e cresciuto nel solco del socialismo salveminiano e con presupposti rivoluzionari antifascisti, “I liberalsocialisti italiani appartenevano invece alla generazione cresciuta dopo la soppressione in Italia dei partiti socialisti. Essa non li conosceva che assai vagamente e non ne conosceva molto di più neppure la dottrina. Era tuttavia convinta che gli uni e l'altra fossero superati.
Questo le veniva detto sia dalla cultura politica fascista o fascistizzata, sia dalla cultura liberale che, con gli scritti di Benedetto Croce, ma anche con quelli di Adolfo Omodeo - il maggior collaboratore, e poi quasi il solo, in quel periodo di Croce - e di Guido De Ruggiero, o di Luigi Einaudi, continuava invece ad operare legalmente, malgrado il suo antifascismo, in Italia.”
Eppure anche il liberalsocialismo elaborò un manifesto perfettamente in linea con quelle che, da sempre, sono state le istanze del socialismo internazionalista, specialmente considerando l'ambito economico e sociale.
Basta solo leggere i paragrafi 7-8-9 per rendersi conto di quanta e quale distanza ci sia tra quelle tesi e la cosiddetta politica “riformista” di stampo blairiano che la lettera di Napolitano sembra voler rievocare per l'ennesima volta in Italia come elemento fondante di un necessario riformismo, dopo per altro essere stata ripudiata nei suoi stessi paesi di origine. Eccoli:
7. Una delle prime mete di tali riforme sociali dev'essere il raggiungimento della massima proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone. Questa non è che una prima tappa sulla via del socialismo (ed è già superata, tutte le volte che con la ricchezza comune si soccorrono i deboli e gl'infermi, incapaci di lavorare). Comunque, è quella che si deve intanto cercar di percorrere. Di qui la fondamentale istanza anticapitalistica, che il liberalsocialismo fa propria: bisogna portare sempre più oltre la battaglia contro il godimento sedentario dell'accumulato e dell'ereditato.
8. I mezzi tecnici e giuridici atti a realizzare progressivamente questo intento dovranno essere commisurati, caso per caso, alle possibilità della situazione. Quanto più i contadini, gli operai, i tecnici, i dirigenti saranno capaci di agire come imprenditori e amministratori, tanto meno dovrà esistere la figura del proprietario puro. Quanto più si svilupperà lo spirito della solidarietà e dell'uguaglianza, tanto più sarà possibile ravvicinare le distanze fra i compensi delle varie forme di lavoro, senza inaridire il gusto dell'operosità e l'iniziativa creatrice. Di qui la fondamentale importanza dell'educazione delle persone, e quindi, tra l'altro, del problema della scuola.
9. Sul piano internazionale, il liberalsocialismo difende gli stessi principi di libertà e di giustizia per tutti. Niente nazionalismo, niente razzismo, niente imperialismo: niente distinzione di principio fra politica ed etica. Le assise fondamentali della civiltà debbono essere le stesse tra gli uomini e tra le nazioni: il dovere dell'onestà ed il riconoscimento che l'altrui diritto, non è soltanto una faccenda privata. Di conseguenza: difesa di ogni organismo che possa favorire la realizzazione di questi principi nel mondo; internazionalizzazione, almeno dal punto di vista economico.
Abbiamo forse inteso mai parlare di “istanze anticapitalistiche” da Napolitano o dall'attuale segretario del PSI? Di politiche compartecipative dei lavoratori alla gestione delle imprese, di cooperativismo, o di partecipazioni statali?
Quanti e quali tagli alla scuola sono stati contrastati dai governi di centrodestra e di centrosinistra?
Sul piano internazionale abbiamo forse notato Napolitano impegnarsi fortemente per contrastare quel subdolo imperialismo che ha originato guerre sempre più distruttive verso popolazioni inermi e che, mascherandosi da alfiere della democrazia, ha spianato a suon di bombe proprio quelle infrastrutture sociali ed economiche senza le quali la stessa democrazia è solo una parola vuota e priva di significato?
Se è vero che “il dovere dell'onestà ed il riconoscimento che l'altrui diritto, non è soltanto una faccenda privata” ma che riguarda da vicino i rapporti tra gli organismi internazionali e gli Stati, siamo davvero sicuri di essere stati “onesti” e di avere “riconosciuto” i diritti delle popolazioni più povere aggredite e massacrate durante le perduranti guerre di questo inizio di secolo, a non moltissimi chilometri da noi..dal Kosovo, all'Iraq, all'Afghanistan..alla Libia?
Allora, caro Presidente Napolitano, di cosa stiamo parlando?
Di quale “liberalsocialismo” vogliamo essere autentici interpreti?
Vogliamo forse coniare un'altra “moneta” liberalsocialista buona per tutte le stagioni e per tutte le occasioni, magari anche quelle di “riciclaggio” economico e politico, sostituendola a quella originaria? Non c'è il rischio anche in questo caso di sprofondare in un debito incolmabile di cultura?
O forse quello più realistico di mettere in circolo solo una moneta falsa non spendibile, da nessuna parte? Capisco che tutte queste rischiano di essere domande retoriche, ma considerando il senso stesso della responsabilità (dal latino responsum) tanto evocato in questi giorni di crisi, che cosa è essa stessa, a ben guardare,  se non proprio la capacità di dare risposte credibili alle domande poste, in questo caso dalla nostra contingenza storica, sociale e politica?
Quest'anno crediamo che il miglior discorso possibile da fare a tanti italiani lobotomizzati dalla TV sarebbe facilmente condensabile in sole tre parole: “studiare, capire, agire”, soprattutto per non farsi “dare a bere” frottole su questioni cruciali, per non confondere l'ombra dei valori con il loro autentico significato.
Stasera (ma non solo) dunque, spegniamo la TV e accendiamo la mente.

C.F.

BUON ANNO A TUTTI DI FELICE CONSAPEVOLEZZA E DI CORAGGIOSO IMPEGNO.

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