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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 30 gennaio 2013

Dispense per la formazione sulla teoria marxista, di Riccardo Achilli






Al fine di fornire supporto didattico ad esigenze di formazione in materia di teoria marxista di base, ho preparato un breve corso diviso in cinque dispense, che, mi auguro, possa restituire, nel modo più semplice e comprensibile possibile,  gli elementi di base dell’elaborazione teorica “classica” del marxismo.
La ripresa dello studio dei fondamenti teorici del pensiero marxista è, a mio avviso, un elemento fondamentale, anche per chi non si reputa marxista, per comprendere ed analizzare la fase attuale di crisi strutturale del capitalismo, e quindi rappresenta una delle basi culturali irrinunciabili per la rinascita di una sinistra radicale in grado di proporre un pensiero anticapitalista.

martedì 29 gennaio 2013

LA BRUTTA POLITICA di Norberto Fragiacomo




LA BRUTTA POLITICA
di
Norberto Fragiacomo

Al PD del Friuli Venezia Giulia, o perlomeno a molti suoi esponenti di spicco, d’inverno piacciono i Monti. Dal Partito Democratico è in corso un fuggi fuggi: dopo il senatore Pertoldi e l’onorevole Maran anche Gianfranco Moretton, capogruppo in Consiglio regionale, impacchetta i bagagli e prenota una suite in Scelta Civica, il movimento centrista del premier.
Quali le ragioni di un simile esodo di massa, proprio alla vigilia di due tornate elettorali (le politiche di febbraio e le regionali di aprile) che potrebbero consegnare al partito di Bersani, per la prima volta nella sua storia, un’ambita maggioranza relativa in Friuli Venezia Giulia?

lunedì 28 gennaio 2013

BENICOMUNISMO: IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO di Stefano Santarelli





BENICOMUNISMO:
IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO
di Stefano Santarelli


Sono usciti recentemente, editi dalla Massari Editore, due libri estremamente interessanti per la riflessione di tutta la Sinistra radicale. Si tratta del libro di Michele Nobile “Capitalismo e postdemocrazia” e di quello di Piero Bernocchi “Benicomunismo”.
In questo breve articolo tratteremo soltanto di alcuni aspetti del testo di Bernocchi vista la complessità degli argomenti esposti che non possono essere sintetizzati facilmente in questa sede.
In “Benicomunismo” ( un termine che nasce dal concetto della rivendicazione dei beni comuni dell’Umanità come possibile socialismo del XXI secolo) lo storico leader dei COBAS esprime delle tesi molto interessanti  sul marxismo e sui miti che ha costruito e che hanno permesso tra l’altro la nascita del totalitarismo stalinista il quale non aveva nulla da invidiare a quello hitleriano oltre che offrire una interessante analisi sulla situazione italiana e una profonda riflessione sul futuro stesso dell’umanità.

sabato 26 gennaio 2013

APPUNTI SU SABATTINI - 4) La fine del sindacato




di Lorenzo Mortara
Rsu Fiom Rete28Aprile


Pubblichiamo la quarta parte (delle cinque previste) degli Appunti su Sabattini. Qua per comodità del lettore, segnaliamo a mo' di indice le cinque parti con il relativo link di quelle già pubblicate: 





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APPUNTI SU SABATTINI: QUARTA PARTE

giovedì 24 gennaio 2013

DITTATURA DEL PROLETARIATO E SOCIALISMO: NON SOLO TEORIA di Norberto Fragiacomo


DITTATURA DEL PROLETARIATO E SOCIALISMO: NON SOLO TEORIA
di
Norberto Fragiacomo


In questo scritto tratteremo – ovviamente senza nessuna pretesa di completezza – una questione in apparenza astratta e teorica, che però, come si proverà a dimostrare, ha avuto una notevolissima ricaduta pratica sulla storia del ‘900: ci riferiamo al passaggio da una società caratterizzata dal modo di produzione capitalistico al comunismo.

mercoledì 23 gennaio 2013

COM'ERI BELLA MARCIA DELLA PACE di Stefano Macera





COM'ERI BELLA MARCIA DELLA PACE
di Stefano Macera


Chi conosce Glauco Pellegrini? Temo che il suo nome – al di fuori della cerchia degli studiosi della settima arte – sia pressoché ignoto. Eppure non è stato un regista irrilevante. Certo, le sue incursioni nel cinema di finzione (come la realizzazione, assieme ad altri autori, del film Amori di mezzo secolo, nel 1954), non hanno lasciato una traccia profonda. Ma la sua trentennale attività di documentarista – iniziata nel 1942 con Giotto e la cappella degli Scrovegni e Arquà Petrarca – si distingue tanto per la varietà dei temi trattati che per la ricercatezza delle soluzioni espressive adottate.
Ne è una prova La marcia della pace (1962), un documentario in bianco e nero,  dedicato alla prima marcia Perugia-Assisi, svoltasi il 24 settembre 1961, che in soli 12 minuti riesce sorprendentemente a restituire un momento e le energie che lo hanno attraversato. Un piccolo miracolo, dovuto ad uno sforzo produttivo non disprezzabile ed alla cura minuziosa di ogni aspetto di questo prodotto audiovisivo: dal commento che, porta l’illustre firma di Gianni Rodari, alle immagini, frutto del lavoro di tre operatori, fino alla musica, appositamente scritta dal maestro Fausto Ferri.

martedì 22 gennaio 2013

IL RIMPIANTO DEL SILENZIO di Carlo Felici




IL RIMPIANTO DEL SILENZIO
di Carlo Felici



Sulla morte di Prospero Gallinari ne ho sentite di cotte e di crude, tanti sproloqui apologetici, tante infime denigrazioni, ma poche analisi serie, anche da parte di direttori di giornali dalle grandi tirature, che oggi fanno la morale ad una sinistra che non esiste.
Già, perché la sinistra ha evidentemente deciso di darsi l'ultima letale randellata in testa andando a braccetto con personaggi che di sinistra non sono mai stati, e anzi, si sono messi in lista, pur avendo avuto un passato in formazioni di destra. Quella destra che ai tempi di Gallinari, menava e ammazzava ragazzi di sinistra.
Quindi, più che altro verrebbe da chiedersi: ma di che cosa stiamo parlando?
Stiamo parlando di un uomo? Stiamo parlando di un tempo, che sembra più che mai remoto? O stiamo parlando di un presente di pietosa desertificazione di autentici valori e di rappresentanze di sinistra?

lunedì 21 gennaio 2013

BISOGNI FONDAMENTALI di Leonardo Boff



BISOGNI FONDAMENTALI 
di Leonardo Boff 

 L'essere umano è, per sua natura un essere carente sotto molti aspetti. Ha bisogno di un grande impegno per soddisfarle e poter vivere, non una vita miserabile ma una vita di qualità. Dietro ogni bisogno, si nasconde un desiderio e un timore: desiderio di poter soddisfarlo nella forma più conveniente possibile e il timore di non riuscirci e quindi dover soffrire.
Chi possiede, teme di perdere: chi non ha, desidera avere. Questa è la dialettica dell'esistenza. Maestri delle più grandi tradizioni dell'umanità e delle scienze dell'umano, convengono più o meno sui seguenti bisogni fondamentali: abbiamo bisogni biologici: in una parola dobbiamo mangiare, bere, abitare, vestirci e avere sicurezza. Gran parte del tempo è impegnato nel soddisfare tali bisogni. Le grandi maggioranze dell'umanità li soddisfano in forma precaria o per mancanza di lavoro o perché la solidarietà e la compassione sono beni scarsi.

domenica 20 gennaio 2013

APPUNTI SU SABATTINI - 3) Innovazione rivoluzionaria e innovazione socialdemocratica




di Lorenzo Mortara
Rsu Fiom Rete28Aprile


Pubblichiamo la terza parte (delle cinque previste) degli Appunti su Sabattini. Qua per comodità del lettore, segnaliamo a mo' di indice le cinque parti con il relativo link di quelle già pubblicate: 





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APPUNTI SU SABATTINI: TERZA PARTE

venerdì 18 gennaio 2013

APPUNTI SU SABATTINI - 2) La FLM e i Consigli di Fabbrica



di Lorenzo Mortara
Rsu Fiom Rete28Aprile


Pubblichiamo la seconda parte (delle cinque previste) degli Appunti su Sabattini. Qua per comodità del lettore, segnaliamo a mo' di indice le cinque parti con il relativo link di quelle già pubblicate: 





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APPUNTI SU SABATTINI: SECONDA PARTE

giovedì 17 gennaio 2013

UN VOTO UTILE A SCAVARSI LA FOSSA di Norberto Fragiacomo




UN VOTO UTILE A SCAVARSI LA FOSSA
di
Norberto Fragiacomo

  Alla vigilia delle elezioni, puntuale come cinque anni or sono, il fantasma del “voto utile” di sinistra batte alla porta dei disorientati elettori italiani. Nel 2008 l’escamotage veltroniano ebbe parziale successo, perché permise ad un Partito democratico ancora nell’incubatrice di raccattare una sconfitta onorevole, e tolse di mezzo l’inciampo (per i marxisti-liberisti sposatisi con le margheritine) della Sinistra Arcobaleno di Bertinotti. 

mercoledì 16 gennaio 2013

APPUNTI SU SABATTINI - 1) Autonomia indipendenza e cinghia di trasmissione


di Lorenzo Mortara

Rsu Fiom Rete28Aprile





Lo confesso, conosco poco la figura di Claudio Sabattini e mi riprometto per il 2013 di colmare questa mia lacuna, a cominciare dal libro che le edizioni Ediesse, la volenterosa casa editrice della Cgil, gli hanno dedicato: Operai e sindacato a Bologna – l’esperienza di Claudio Sabattini (1968-1974). Nel frattempo, però, chi come me volesse saperne di più su di lui può leggersi alcuni suoi testi recentemente pubblicati dalla Fondazione che porta il suo nome, e ripresi dal sito della Fiom Nazionale in vista di una serie di iniziative che cominceranno a Roma il 25 Gennaio per celebrare i dieci anni dalla sua scomparsa.

martedì 15 gennaio 2013

STEFANO FASSINA, CONSERVATORE DOC




di
Norberto Fragiacomo


L’accusa, mossagli da Mario Monti, di essere un “conservatore” deve aver punto Fassina nel vivo, costringendolo ad un doloroso esame di coscienza: ce lo figuriamo mentre affretta il passo, a capo chino, il viso corrucciato, su un ponte divorato dalla nebbia, inconsapevolmente già alla ricerca di un Porfiri Petrovic dinanzi al quale ammettere le proprie colpe. 

Lega dei Socialisti: 2 lettere di dimissioni




Al segretario della LdS
Franco Bartolomei

CONSIDERANDO il fatto che non hai risposto al documento “MOZIONE PER UN PARTITO DEL LAVORO” che ti ho presentato insieme ai compagni Riccardo Achilli, Antonio di Pasquale e Norberto Fragiacomo il 7 ottobre del 2012.
CONSIDERANDO il fatto che non hai risposto, come evidentemente è tuo costume, al documento “LETTERA APERTA ALLA LEGA DEI SOCIALISTI” del 28 novembre 2012  che chiamava alla costituzione di una Frazione dentro la LdS a firma dei compagni Riccardo Achilli, Giuseppe Angiuli, Antonio di Pasquale e Norberto Fragiacomo.

lunedì 14 gennaio 2013

NIENTE CORRIDA, SOLO UNA SCENEGGIATA di Norberto Fragiacomo






NIENTE CORRIDA, SOLO UNA SCENEGGIATA
di
Norberto Fragiacomo



Teatrale come sempre, Michele Santoro l’aveva promesso: qui non siamo a Granada (e neppure a Vienna), non assisterete a nessuna corrida. E’ stato di parola: è andata in scena una tauromachia alla cretese, tutta finte, salti e capriole. Niente sangue, misto a fondotinta, a insozzare l’arena – stoccate poche e indolori, perché la spada del presunto torero era di plastica.

domenica 13 gennaio 2013

BILANCIO ANNUALE DEI SISTEMI MACROECONOMICI: STIAMO ANDANDO DI MALE IN PEGGIO



di Leonardo Boff
Teologo/Filosofo


La realtà mondiale è complessa. È impossibile fare un bilancio unitario. Proverò a farne uno che riguarda la macroeconomia del nostro tipo di civilizzazione, organizzata nella realtà e un altro che riguarda la microeconomia.

sabato 12 gennaio 2013

LA SPAGNA TRA AUSTERITY E RETI DI ASSISTENZA di Olga Tamburini




di Olga Tamburini


A Valencia case in affitto per sfrattati a 50 euro al mese. È la Spagna delle cifre disastrose e dei tagli, il teatro della macelleria sociale operata dalle scelte della troika, ma è anche la Spagna dei fabbri di Pamplona che hanno deciso di non cambiare più le serrature alle case degli sfrattati, delle “maree bianche” che si mobilitano contro l’austerity trasformatasi in incubo quotidiano per migliaia di persone. Ed è la Spagna in cui si risponde alla crisi attivando circuiti di compensazione affidati a reti di solidarietà privatistica o legata ad enti ed associazioni di volontari. Un quadro di riferimento di forme di assistenza che tentano quotidianamente di arginare i danni causati da modelli sociali e politici spietati che hanno portato il Paese in un de profundis sociale ed economico, in linea con il famigerato “memorandum” sottoposto dalla troika al governo spagnolo.

mercoledì 9 gennaio 2013

La Repubblica Centrafricana sull'orlo di una nuova tragedia, di R. Achilli





di Riccardo Achilli




Il contesto: lo scenario neoimperialista nell’Africa moderna

I fari dell’informazione giornalistica e politica sono sempre lontanissimi dalla tragedia africana, nonostante il fatto che in tale gigantesco continente siano intrappolati oltre 1 miliardo di esseri umani, alle prese con tragedie endemiche: povertà, malattie, fame, guerre civili e tribali, imperialismo esterno.
La stessa lontananza dai riflettori dei media internazionali è l’elemento più evidente che dimostra una visione dell’Africa, all’interno del capitalismo mondiale, che non è mutata di un millimetro rispetto alle prime conquiste coloniali: un territorio privato della sua dignità, in un mondo in cui è la presenza sul grande network dell’informazione a conferire identità, collocato all’ultimo anello della filiera della produzione di valore nel capitalismo globale, quello dei fornitori di materia prima, i cui prezzi vengono fissati su mercati delle commodity pesantemente influenzati dalla speculazione, sui quali l’elevata omogeneità del prodotto consente di azzerare il potere negoziale dell’offerente, tramite le grandi multinazionali che raccolgono e portano sul mercato il lavoro di milioni di micro-produttori locali, fissando un prezzo di ingresso che è per oltre il 90% scollegato dalla prima fase di lavorazione agricola, essendo influenzato dal gioco speculativo dei futures e dei contratti a termine. Speculazioni peraltro sostenute proprio dalle multinazionali che organizzano l’offerta, talché questi mercati si configurano come veri e propri casinò, nei quali le dinamiche di domanda, offerta e fissazione del prezzo sono quasi completamente svincolate dalle esigenze di remunerazione dei produttori e anche in buona misura dalla domanda. Con il risultato che le terre più fertili vengono distolte dalle esigenze di autoconsumo alimentare delle popolazioni che le coltivano, per fare spazio a coltivazioni industriali (cotone, caffè, cacao, frutta tropicale, ma in modo crescente anche coltivazioni per biocarburanti, assolutamente inadeguate al consumo umano) ed i produttori locali, cui non di rado rimane il 5-6% del valore del prodotto (come nel caso del mercato del cacao), non hanno nemmeno i mezzi economici per acquistare alimenti in misura sufficiente ad evitare la fame. La progressiva estensione delle coltivazioni Ogm in Africa, operata dalla statunitense Monsanto, con il beneplacito di Governi compiacenti, acuisce la dipendenza schiavistica del piccolo produttore rispetto alla multinazionale, poiché egli si trova costretto ad acquistare le sementi Ogm esclusivamente presso l’azienda fornitrice, per lavorare terreni che non possono più essere diversificati verso altri tipi di coltivazione, poiché la semina di Ogm li ha resi permanentemente inadatti ad ospitare altre colture.
Di fatto, interi popoli, interi continenti dipendono dai prezzi imposti in modo oligopolistico da non più di una dozzina di trading houses con sede legale prevalentemente in Svizzera, negli Usa, ad Hong Kong e Singapore, ma che in realtà sono veri e propri player globali, apolidi (la sede legale viene scelta esclusivamente per motivi fiscali) con solide radici nell’economia reale (poiché controllano piantagioni, o intere aree territoriali grandi quanto una nazione, organizzandone la produzione a carico di contadini locali, e poi curando la fase della prima trasformazione del prodotto grezzo, del packaging, della logistica e della distribuzione)  e fortissime ramificazioni nel mondo della finanza. Tali multinazionali, assolutamente opache rispetto alle loro modalità operative ed agli intrecci societari e finanziari che intrattengono (molte di loro, pur fatturando quasi 200 miliardi di dollari all’anno, non si quotano ai mercati borsistici per non fornire informazioni sulle loro catene di controllo e sulla composizione societaria) hanno una posizione assolutamente dominante sui mercati, e lo stesso gioco speculativo sui futures da esse alimentato rende il prezzo delle commodity estremamente variabile, impedendo quindi persino quel minimo di stabilità del già gramo fatturato, tale da consentire agli agricoltori africani una sia pur piccola programmazione economica e finanziaria delle loro attività. Tali multinazionali si stanno anche concentrando, accrescendo la loro posizione dominante: a novembre 2012, la Glencor (l’azienda che ha chiuso l’ALCOA in Sardegna) che da sola controllava già il 55% della produzione di zinco nel mondo, ed il 36% di quella del rame, ha acquisito la Xstrata, che è fra i primi cinque produttori mondiali di rame, carbone, ferrocromo, nichel, argento, piombo, platino, oro, ecc.
Questi processi si innestano su una decolonizzazione puramente di facciata, che ha creato artificiosamente Stati privi di qualsiasi radice nazionale reale, disegnati a tavolino dalla potenza coloniale in base ai propri interessi di “divide et impera”, mettendo insieme in un’unica entità statuale etnie e tribù tradizionalmente rivali, con il collante di borghesie autoctone assolutamente fragili sotto il profilo culturale ed economico, cresciute all’ombra del padrone coloniale con mere funzioni di amministrazione spicciola (e subordinata) della colonia, e di attività interstiziali di piccolo commercio/intermediazione. La natura della borghesia postcoloniale che viene installata al potere da parte delle potenze coloniali è ben illustrata da F. Fanon, nella sua opera “I Dannati della Terra”: “all’interno di questa borghesia nazionale non troviamo né industriali né finanzieri. La borghesia nazionale dei Paesi sottosviluppati non è orientata alla produzione, l’invenzione, la costruzione, il lavoro. E’ interamente canalizzata verso attività di intermediazione. Stare dentro il circuito, dentro la “combine”, questa sembra essere la sua vocazione profonda (…) I quadri universitari e commerciali (oltre che funzionariali, nda) che rappresentano la fazione più illuminata del nuovo Stato si caratterizzano per il loro piccolo numero, la loro concentrazione nella città capitale, il tipo di attività svolte: piccolo commercio, anche agricolo, libera professione (…) Nella prospettiva culturale limitata della borghesia nazionale, un’economia nazionale viene identificata con un’economia basata sui cosiddetti prodotti locali. Grandi discorsi saranno pronunciati a favore dell’artigianato (…) Questo culto dei prodotti locali, questa impossibilità di inventare nuove direzioni si manifesteranno anche nel vincolarsi, da parte di questa borghesia nazionale, alla produzione agricola tipica del periodo coloniale (…) si tratta sempre della raccolta di arachidi, di cacao, di olive. Nessuna modifica viene introdotta nel trattamento di questi prodotti di base. Nessuna industria viene installata nel Paese. Si continua a fare i piccoli contadini dell’Europa, gli specialisti dei prodotti grezzi (…) Poiché questa borghesia nazionale non ha né i mezzi tecnici né quelli intellettuali necessari (ingegneri, tecnici) essa limiterà le sue pretese alla ripresa degli uffici di intermediazione e delle case di commercio occupati, in precedenza, dai colonizzatori. La borghesia nazionale prende così il posto dei vecchi coloni europei: medici, avvocati, commercianti, rappresentanti, agenti generali, spedizionieri….La borghesia nazionale si assegna la missione storica di servire da intermediario…a servire da corridoio di trasmissione di un capitalismo che appare oggi con la maschera neo-colonialista.”
La classe dirigente dei Paesi neo-decolonializzati, incapace intellettualmente di promuovere uno sviluppo endogeno, e non desiderosa di spendersi in una simile direzione, diventa quindi la mera esecutrice, in logica compradora, delle politiche economiche neo-imperialiste condotte dalla metropoli. Concentrata nella capitale, spesso priva di conoscenza diretta della realtà sociale del ventre rurale e tribale del suo stesso Paese, essa lascerà che le terre più produttive o i siti minerari più ricchi finiscano in mano alle multinazionali straniere (originarie, nella prima fase, dalla stesa metropoli) oppure a grandi latifondisti che in un secondo momento, essendo incapaci di gestire tali ricchezze in forma imprenditoriale, le cederanno alle multinazionali stesse.
In ultima analisi, tale borghesia nazionale finisce per sperimentare derive nazionalistiche farsesche (costruendo una liturgia puramente esteriore di una Nazione che non esiste) che, nella piccola borghesia cittadina e nel proletariato agricolo, proprio in ragione dell’inesistenza di una cultura nazionale in Stati disegnati a tavolino dalla metropoli, tracimano in atteggiamenti di razzismo ed aggressività contro le etnie locali di volta in volta indicate dai vertici politici come “nemiche dello Stato”, oppure “al soldo degli europei” o degli altri Stati africani con i quali si è in competizione. Da tale substrato di nazionalismo etnico e razzismo emerge un modo di produzione basato, per utilizzare i termini dell'analisi di C. Moffa (1993)[1], sul conflitto interetnico per il controllo e lo sfruttamento delle risorse del territorio, in cui, all'interno dei rapporti fra clan, si riproducono forme di sfruttamento fra una aristocrazia dominante, definita su base etnica, ed i clan dominati e depredati (e dove quindi di fatto gli unici elementi produttivi di tipo capitalistico si riscontrano nelle piantagioni e nelle miniere controllate dalle multinazionali, dove si utilizzano metodi di sfruttamento spinti all’estremo).
La seconda deriva di questa borghesia nazionale, che spesso si verifica dopo un primissimo tentativo di scimmiottare una democrazia parlamentare di tipo occidentale palesemente inadeguata alla realtà sociale del loro Paese (che, come detto, gli è in buona parte sconosciuta), è di tipo autoritario, appoggiandosi in misura crescente sull’esercito, l’unica forza organizzata gerarchicamente nel Paese (in ciò aiutata dalla metropoli, che fornisce all’esercito nazionale l’armamento, l’equipaggiamento e la formazione ed inquadramento dei suoi ufficiali, e che quindi fa transitare dalle Forze Armate locali il suo controllo neocoloniale). Per mantenere il potere, la borghesia nazionale dovrà, infine, in misura crescente appoggiarsi ai clan ed alle etnie dalle quali fuoriesce il ceto dirigente, costruendo apparati politico/amministrativi tenuti insieme dal nepotismo, dalla corruzione, dalla cleptocrazia.
L’impasto vizioso che è la base del disastro umano, economico, civile, sociale dell’Africa è dunque presente dentro la sua struttura sociale nel momento della decolonizzazione. I suoi ingredienti sono una struttura economica mantenuta esattamente uguale a quella del periodo coloniale, anche e soprattutto in termini di localizzazione delle reali leve di controllo dell’economia, una cronica incapacità di promuovere una sia pur minima diversificazione produttiva rispetto ad una realtà di produttori esclusivamente di materie prime di base, un nazionalismo privo di nazione, che quindi tracima immediatamente nel ben più pericoloso nazionalismo tribale, un consociativismo etnico/clanico imbottito di corruzione e nepotismo, una crescente tendenza autocratica ed una militarizzazione della vita politica.

Il caso della Repubblica Centrafricana: un po’ di storia

La catastrofe della Repubblica Centrafricana è uno dei tanti paradigmi dello scellerato scenario sopra descritto. Conosciuto come Oubangui-Chari durante la colonizzazione francese, tale Paese ottiene l’indipendenza nel 1960, alla fine di un processo piuttosto lungo di emancipazione, sotto l’impulso politico di Barthélemy Boganda, prete sconsacrato e leader del MESAN, un movimento a metà fra il religioso ed il politico, basato sul nazionalismo africano, l’antirazzismo, la lotta non violenta per i diritti civili e l’idea di cooperazione economica e politica fra neri e bianchi. Benché Boganda non fosse affatto un nemico degli interessi economici e politici francesi in Centrafrica, ed anzi considerasse che la cooperazione economica della metropoli fosse indispensabile per il neonato Stato, il suo sia pur moderato nazionalismo e la sua pacifica e democratica lotta per i diritti civili dei neri furono sufficienti (nonostante l’amicizia personale con De Gaulle) a creargli inimicizia fra le imprese francesi operanti nel Paese (allarmate dalla crescente conflittualità della forza-lavoro locale, infiammata dai discorsi sulla parificazione dei diritti dei lavoratori africani e di quelli francesi) e fra la borghesia nazionale centrafricana, concentrata nella capitale Bangui, che aspirava al controllo del Paese (Boganda, infatti, aveva la sua base di consenso nei villaggi agricoli e fra i lavoratori delle piantagioni di cotone e caffè e delle miniere di diamanti, e aveva l’abitudine di chiamare i borghesi della capitale con lo sprezzante epiteto di “Mboundjou-Boko”, ovvero “neri-bianchi”). Egli verrà quindi ucciso in un attentato aereo i cui mandanti più probabili sono le imprese francesi della Camera di Commercio di Bangui, la borghesia nera di Bangui, i servizi segreti francesi e la moglie dello stesso Boganda (Titley, 1997)[2].


Barthélémy Boganda, con il suo amico De Gaulle


Come da scenario sopra tratteggiato, quindi, la fase democratica e parlamentare della neonata Repubblica Centrafricana durerà pochissimo, così come esploderà, insieme al suo fautore Boganda, l’idea di unità di azione e fraternità fra le diverse etnie che compongono il Paese (oggi in Centrafrica vivono circa 80 gruppi etnici diversi, anche se i due gruppi principali, i Banda ed i Baya, rappresentano la metà della popolazione). L’evoluzione politica del Paese, saldamente nelle mani della borghesia compradora e filofrancese urbana, degraderà quindi immediatamente verso l’autoritarismo, il consociativismo tribale, la militarizzazione, mentre il controllo neocoloniale dell’economia ha provocato fame e tragedie.  La storia della Repubblica Centrafricana non sarà altro che una infinita sequela di guerre civili e tribali, putsch militari, rivolte autonomiste, una infinita galleria di dittatori ed autocrati collocati al potere dalla Francia, che continuerà a tessere le fila della politica di quel Paese, ed a reggerne le sorti economiche, non rinunciando a mantenere anche una presenza militare diretta (ancora oggi, la Francia ha circa 300 militari stanziati in una base nei pressi della capitale, immediatamente aumentabili tramite ponti aerei sempre operativi dalle basi militari francesi nei Paesi circostanti, nonché un numero imprecisato di istruttori e consulenti dell’esercito governativo). La presenza militare francese è stata sistematicamente utilizzata anche direttamente per sostenere dittatori alleati contro le varie guerriglie, sotto la falsa egida di missioni internazionali formalmente di “peacekeeping”, in realtà di intervento diretto contro i nemici degli interessi geostrategici francesi (missioni FOMUC e successivamente MICOPAX, non a caso supportate da Paesi notoriamente allineati alla Francia, come il Camerun o il Gabon).
Fra i vari pagliacci messi in piedi dalla Francia figura, per notorietà internazionale, Jean-Bédel Bokassa, ex colonnello dell’esercito, che prende il potere con un colpo di Stato sostenuto dalla Francia nel 1965. Formatosi militarmente in Francia, combatte nell’esercito della Francia libera durante la seconda guerra mondiale, con il grado di sergente maggiore, distinguendosi per coraggio e combattività, e viene poi inviato a combattere in Indocina contro il Viet Minh, raggiungendo il grado di capitano dell’esercito francese. Per i servigi resi alla metropoli, dopo essere stato congedato nel 1962, viene rispedito nella madre Patria, alle prese con un vero e proprio caos politico ed economico, per fare l’uomo di paglia degli interessi francesi. Amicissimo di tutti i Presidenti della Francia, ma soprattutto di quelli di destra (si dice che Giscard d’Estaing nutrisse una vera ammirazione per lui) viene costantemente finanziato e supportato militarmente dalla Francia, che lo aiuta a sconfiggere ben tre tentativi di colpo di Stato contro di lui. La Francia lo supporta completamente, anche di fronte alle sanguinose repressioni politiche che organizza sistematicamente (si dice anche mangiando alcuni degli oppositori politici uccisi[3]) e persino di fronte al totale dissesto finanziario del Paese, causato dalla sua politica cleptocratica, dalla costosissima propaganda orchestrata attorno ad un pesante culto della personalità e da faraonici programmi di opere pubbliche totalmente inutili, mentre la maggior parte dei villaggi dell’interno non ha nemmeno un pozzo per attingere l’acqua.
La Francia arriva a supportarlo persino quando, oramai completamente impazzito, nel 1977 si autoproclama imperatore e sperpera 20 milioni di dollari in una festa di incoronamento che voleva imitare la cerimonia di ascesa al trono di Napoleone (con tanto di richiesta inoltrata al Papa per venire ad incoronarlo), in un Paese che muore letteralmente di fame. Tutto gli viene perdonato, purché continui ad assicurare regolarmente, a prezzi stracciati, le forniture di uranio, indispensabili per il programma nucleare francese. Ma non gli vengono perdonate, da un’opinione pubblica francese fortunatamente più intelligente dei suoi governanti, le notizie di regali di diamanti sporcati dal sangue dei minatori centrafricani fatti direttamente a Monsieur Giscard d’Estaing, né i safari di caccia grossa condotti dal Presidente francese assieme ad un mostro che ad aprile 1979 fece uccidere un centinaio di studenti “rei” solamente di aver protestato contro l’obbligo di acquistare uniformi scolastiche molto costose per il budget di una famiglia centrafricana media. Resosi inaffidabile per aver iniziato a stringere legami sospetti con Gheddafi ed aver iniziato a mettere in piedi qualche goffa imitazione delle istituzioni della Jamahiriyah, viene fatto cadere da un colpo di Stato, il 20 settembre 1979, appoggiato direttamente da truppe francesi ed orchestrato dal diplomatico d’Oltralpe Jacques Foccart, per mettere al potere un’altra marionetta, meno imbarazzante per l’immagine pubblica di Giscard d’Estaing e di sperimentata lealtà rispetto agli interessi della metropoli, ovvero David Dacko, il precedente dittatore filofrancese esautorato proprio da Bokassa nel 1965. Nonostante tutto, e malgrado una condanna a morte emessa da un tribunale nazionale centrafricano, nel 1985 Bokassa venne accolto come ospite in Francia, con il beneplacito del nuovo governo socialista.  Non mancherà, però, l’anno seguente, di farsi paracadutare in Centrafrica nel tentativo di guidare un nuovo colpo di Stato, che fallisce miseramente per assenza di appoggio francese, finendo agli arresti in un carcere di Bangui, dal quale sarà liberato soltanto nel 1993, per intercessione dell’eterno amico d’Oltralpe, troppo ammanicato con lui per lasciarlo troppo tempo in gattabuia. 

Bokassa imperatore del Centrafrica

 In qualche misura, quindi, la vicenda di Bokassa è altamente istruttiva, poiché egli rappresenta, insieme ad altri (Mobutu, Idi Amin, Nguema) il paradigma stesso di dittatore neocoloniale africano: privo di preparazione politica ed identità ideologica, profondamente asservito agli interessi della ex metropoli ma al tempo stesso tentato da un potere che gli dà alla testa, e che lo porta a pericolose avventure o derive (che generalmente gli costano il posto), affascinato da una retorica nazionalistica completamente priva di riferimenti alla realtà storica del suo Paese (l’impero centroafricano di cui Bokassa si autoproclama continuatore non è mai esistito) ed utilizzata essenzialmente come strumento di propaganda politica presso una piccola borghesia autoctona facilmente reclutabile con simili parole d’ordine, corrotto fino alla cleptocrazia e dedito a creare legami di consenso di tipo clanico e tribale, per consolidare il suo potere, anche con il ricorso al nepotismo più sfrenato. Un simile personaggio non consentirà alcun progresso economico e sociale al suo Paese, mantenendolo avvinto, dall’esterno, ai suoi vincoli neocoloniali, ed all’interno ad un modo di produzione pre-capitalistico.


Gli eventi attuali in Centrafrica

L’attualità del Centrafrica non presenta alcun elemento di miglioramento. Un tentativo di introdurre forme di democratizzazione del Paese, a partire dal 1993, porta soltanto ad una cronica instabilità politica, al lungo dominio di Ange Félix Patassé (ex fedelissimo collaboratore di Bokassa), caratterizzato da un ulteriore peggioramento della corruzione e del ladrocinio di risorse pubbliche, da tensioni etniche sempre più forti (Patassé procederà infatti ad una ampia epurazione di personale di etnia Yakoma dall’amministrazione pubblica e dalla guardia presidenziale, a beneficio della sua etnia di appartenenza e di altri gruppi a lui alleati), dalla prosecuzione del declino economico (nonostante in una prima fase del Governo di Patassé gli aiuti internazionali fluissero  generosamente) e da una politica estera erratica (prima fedelissimo alleato della Francia, poi inizia a legare rapporti sempre più stretti con la Libia e con la fazione politica congolese guidata da Jean Pierre Bemba, che nel caotico teatro politico della Repubblica Democratica del Congo si ritaglia la posizione di avversario degli interessi occidentali) che porteranno ad una progressiva infiltrazione di truppe congolesi (comandate da Bemba) e libiche nel Paese, con un contorno di massacri e violenze su civili ed alla sua stessa estromissione dal Governo. Nel 2003, infatti, la Francia, stufa dell’inaffidabile Patassé, promuove l’ennesimo colpo di Stato militare che parte dal Ciad, altro fedele alleato degli interessi francesi. Con questo colpo di Stato, arriva al potere l’attuale leader, il generale François Bozizé, un vero voltagabbana di lungo corso, prima fedele repressore delle rivolte popolari per conto di Bokassa, poi collaboratore del dittatore militare Kolingba, fino a quando non tenterà di rovesciarlo con un putsch fallito che gli costa un periodo di galera ed il successivo esilio, poi fedelissimo collaboratore di Patassé (che lo ricompensa con la nomina a Capo di Stato Maggiore dell’esercito), salvo però  farlo fuori con il colpo di Stato del 2003. 

L'attuale Presidente Bozizé

Non appena preso il potere, in un contesto politicamente non più controllabile, e con un Paese oramai lacerato dalla miseria, dalla presenza stabile di milizie straniere (specie nelle zone di frontiera con quel vero e proprio guazzabuglio che la Repubblica Democratica del Congo), da conflitti interetnici esasperati dalle politiche dei suoi predecessori, Bozizé deve affrontare una guerra civile, guidata da un gruppo ribelle, l’UFDR (Union des Forces Démocratiques pur le Rassemblement) molto probabilmente supportato dal Sudan, e composto quasi esclusivamente dall’etnia Gula, in una zona tradizionalmente esclusa dai programmi di sviluppo dei governi di Bangui. Nella guerra civile vengono coinvolti altri gruppi armati, ed in particolare l’APRD (Armée Populaire pur la Restauration de la République et la Démocratie), un gruppo composito e senza chiaro orientamento politico, in cui si mescolano disertori dell’esercito governativo, ex miliziani di Bozizé, militari del Ciad, precedentemente utilizzati a difesa del Governo di Patassé, allo sbando dopo la presa di potere di Bozizé, delinquenti comuni e gruppi tribali di autodifesa, ma anche l’FDPC, molto probabilmente supportato dalla Libia di Gheddafi, ed altri due o tre gruppi organizzati. La posta in gioco è evidentemente rappresentata dal controllo dei giacimenti di petrolio e di diamanti del Paese (non a caso il dittatore del Ciad, Déby, invia sue truppe a sostegno di Bozizé, per proteggere i campi petroliferi, che si trovano lungo il confine fra Ciad e Centrafrica) e da questo punto di vista è quasi impossibile escludere il coinvolgimento di gruppi imprenditoriali multinazionali nel finanziamento dei ribelli. Anche perché nessuna fazione ribelle sembra dotata di una strategia politica per gestire il Paese in caso di conquista del potere, e la rapidità con cui vengono formati e buttati nella mischia lascia pensare più a gruppi  prezzolati dall’esterno, che a movimenti politici, sia pur dotati di bracci armati.
La guerra civile che esplode è resa ancor più complessa dalla presenza di gruppi armati stranieri nel Paese: dalla parte di Bozizé, supportato dalla Francia, combattono, come detto, reparti dell’esercito del Ciad, mentre un movimento di guerriglia particolarmente feroce, di origine ugandese e con una impostazione ideologica basata sul fanatismo religioso cristiano, l’LRA (Lord’s Resistance Army) inizia ad effettuare raid in territorio centroafricano a partire dal 2008, al fine di depredare i villaggi e sequestrare bambini e giovani, da arruolare nelle proprie fila. 

Scene della guerra civile centrafricana: bambini soldato

La guerra civile, dopo una raffica di accordi di pace, sembra cessare (apparentemente, come vedremo a breve) solo a metà 2012, con l’accordo di pace firmato dall’ultimo gruppo ribelle. Il bilancio è di diverse migliaia di morti, centinaia di villaggi distrutti, migliaia di ettari di preziosissime coltivazioni agricole bruciati, migliaia di capi di bestiame abbattuti o rubati alle poverissime popolazioni locali, e circa 212.000 profughi interni, in un Paese di circa 5 milioni di abitanti. La guerra produce anche migliaia di bambini soldato, strappati alla scuola ed alla famiglia, e trasformati in macchine da guerra, disadattati che non potranno più essere reinseriti dentro la società e destinati ad una vita di violenza e di emarginazione. Bozizé riesce a sopravvivere soltanto con l’aiuto determinante della Francia e del Ciad (il cui leader Déby è alleato dei francesi, ed ha anche un interesse nazionale a pacificare la frontiera con il Centrafrica, ricca di risorse petrolifere). Infatti, le truppe ONU di peacekeeping, ampiamente armate ed equipaggiate dai francesi, riescono ad interporsi efficacemente rispetto all’avanzata dei ribelli, mentre il Ciad invia sue truppe a rimpolpare un esercito nazionale di appena 5.000 uomini, privo di addestramento, senza alcuna copertura aerea, malpagato e demotivato, armato malissimo (per mancanza di depositi, i militari centrafricani devono portarsi ogni sera a casa le armi di ordinanza loro affidate) e per motivi etnici non leale rispetto al Presidente (la gran parte dei militari è di etnia Yakoma, mentre il Presidente è di etnia Gbaya, ed ha cercato costantemente di inserire parenti, amici e membri della sua etnia nei posti-chiave dell’esercito). 


Scene della guerra civile centrafricana: 
la città di Birao distrutta dai combattimenti


La gestione di Bozizé è quantomeno deludente. In economia, nonostante le straordinarie ricchezze del Paese (petrolio, diamanti, legname di qualità, zucchero, caffè, cotone, ecc.) la bilancia dei pagamenti è cronicamente in rosso ed il PIL cresce ad un deludente tasso del 2,8% medio annuo, non lontano dal tasso di crescita medio della popolazione (2,14%) e quindi non produce alcun incremento reale di benessere. L’industria è pressoché inesistente: il 55% del PIL è di origine agricola. Il comparto dei servizi pubblici, interamente nazionalizzato, è fra i più inefficienti e vetusti del mondo: tenere un macchinario elettrico acceso per più di un’ora senza black out è un miracolo. La diseguaglianza nella distribuzione del reddito è fra le più alte del mondo (il Centrafrica ha il sesto peggior valore mondiale dell’indice del Gini), il 60% della popolazione vive con meno di 1,25 dollari al giorno, il Paese è 98-mo sui 108 Paesi per i quali è stato calcolato l’indice di povertà umana, la malaria e la lebbra sono endemiche, l’11% della popolazione è affetto dall’Aids, la mortalità infantile è la quarta più alta al mondo, con 97 morti su mille, l’aspettativa di vita alla nascita è di appena 50 anni, il tasso di analfabetismo supera il 51% della popolazione adulta. Il 70% della popolazione vive nelle aree rurali, in condizioni di sostanziale isolamento dal mondo.
Le infrastrutture di trasporto sono pressoché inesistenti, o fatiscenti. La criminalità è endemica: prima di mettersi in viaggio su una strada centrafricana, è meglio fare testamento, poiché esse pullulano di “coupeurs de route”, banditi di strada che depredano i viaggiatori e spesso li uccidono. Per tali motivi, il turismo, nonostante le straordinarie risorse ambientali e naturali del Paese, è inesistente.
Il debito estero rappresenta più dell’11% del PIL  ed è in continua crescita, pur in assenza di uno specifico programma del FMI, in larga misura alimentato dalla corruzione e dall’inefficienza del settore pubblico. Il Paese è caratterizzato da una lunga tradizione di mancato pagamento degli stipendi ai funzionari pubblici, che nel gennaio 2008 provoca uno sciopero generale, che costringe Bozizé ad un radicale rimpasto di Governo.
Dal punto di vista strettamente politico, Bozizé mostra una classica attitudine allo scarso rispetto della Costituzione: governa spesso e volentieri per decreto, senza consultarsi con il Parlamento, e nel 2010, quando il suo primo mandato presidenziale è scaduto, continua a governare “de facto” spostando continuamente in avanti la data delle elezioni per quasi sette mesi, fino a quando la pressione internazionale lo costringe a farsi rieleggere Presidente, ad aprile 2011, con una tornata di voto inquinata da diffuse accuse di broglio. Nella peggiore tradizione africana, gestisce lo Stato come se fosse una succursale di casa sua, nominando i figli, i parenti, gli amici ed i membri della sua etnia nelle posizioni-chiave (uno dei figli diventa così Ministro della Difesa, la sorella viene nominata Ministro del Turismo e poi dell’Acqua e delle Foreste). Non riesce a portare avanti la fondamentale riforma delle Forze Armate (una delle vere priorità di un Paese in cui il ricambio dei governi si fa a colpi di Stato militari, e dove parti del territorio sono sottratte al potere governativo, essendo occupate da bande armate), nonostante la disponibilità di aiuti internazionali (francesi) in tal senso, limitandosi a mettere sotto controllo il malumore degli Yakoma con la nomina di amici e parenti in tutti i punti strategici della catena di comando, e circondandosi di pretoriani ciadiani o della sua etnia nella Guardia Repubblicana, per autoproteggersi.
Soprattutto, non riesce a gestire politicamente gli accordi di pace con le varie milizie armate che avevano animato la guerra civile. E così, ai primi di dicembre del 2012, nel nord est del Paese compare una nuova coalizione ribelle, denominata Séléka, che inizia a marciare verso Bangui, conquistando una città dopo l’altra, con il consueto contorno di razzie e violenze sui civili, adducendo la scusa del mancato rispetto di alcune clausole degli accordi di pace da parte di Bozizé. La scusa è vera, però la posta in gioco, come nella precedente guerra civile, è la redistribuzione del potere economico e politico in favore delle regioni nord orientali, tradizionalmente emarginate dai governi centrafricani, ed il controllo degli asset minerari nazionali (diamanti e petrolio). Lo scalcinato e sleale esercito nazionale, che Bozizé non ha volutamente riformato, si sfalda come burro alle prime schermaglie, ed a fine anno sembra che Séléka sia ad un passo dalla conquista di Bangui. Anche perché il governo francese, per bocca del Ministro degli Esteri Fabius e del Presidente Hollande, decide, in apparenza, di scaricare il suo alleato Bozizé, dichiarandosi neutrale, e respingendo la richiesta ufficiale di aiuto che il Presidente centrafricano gli rivolge.
E’ tuttavia impensabile che la Francia se ne stia ad aspettare la maturazione degli eventi, in un Paese strategico per i suoi interessi. La dichiarazione ufficiale di neutralità è solo propaganda per non allarmare l’opinione pubblica francese. In un Paese talmente abituato all’imperialismo francese da dare luogo ad una grossa manifestazione di donne, nel centro di Bangui, mirata a chiedere l’intervento diretto francese per evitare un più che probabile bagno di sangue, la diplomazia d’Oltralpe si sta muovendo, in queste ore, in modo felpato ma risoluto. Truppe gabonesi e camerunensi, secondo molti informatori, sono infatti entrate nel Paese per contrastare l’avanzata di Séléka che, peraltro, essendo composta soprattutto da gruppi etnici musulmani (mentre il Presidente Bozizé è cattolico) ed essendo (forse) sostenuta dal Sudan, reca con sé la potenziale minaccia islamista. E così, non a caso, l’avanzata apparentemente inarrestabile dei ribelli si è fermata a soli 75 chilometri dalla capitale, e gli stessi si sono dichiarati disponibili ad avviare negoziati con il governo di Bozizé, che si terranno in Gabon, patria del filofrancese Ali Bongo, vera e propria creatura politica di Sarkozy e della Clinton.




Le incerte prospettive

Al momento in cui si scrive, le sorti del Paese sono ancora in bilico. Mentre prosegue la fragile tregua in attesa dell’apertura dei negoziati in Gabon, il 10 gennaio prossimo, le posizioni delle due parti sembrano inconciliabili. Da un lato, i ribelli chiedono la formazione di un Governo di transizione, per arrivare immediatamente a nuove elezioni, con la pregiudiziale irrinunciabile dell’allontanamento immediato di Bozizé. Ed in fondo, la Francia, che supporta Bozizé in modo piuttosto freddo (probabilmente Hollande non vede di buon occhio l’amicizia del presidente centrafricano con il suo predecessore Sarkozy, e nemmeno la sua totale incapacità di gestire il Paese, che finisce ovviamente per danneggiare anche gli interessi francesi) non sarebbe sfavorevole, purché il Governo di transizione non sia caratterizzato da elementi islamisti radicali, includa alleati della Francia e conduca ad elezioni presidenziali in cui vinca un candidato filofrancese. D’altro lato, Bozizé, che appare sempre più isolato all’interno e non supportato dal fragile esercito nazionale (in un tentativo tardivo, e probabilmente inefficace, di riprendere sotto controllo le Forze Armate, il Presidente ha licenziato suo figlio ed il capo di Stato Maggiore, assumendo direttamente la carica di Ministro della Difesa, e nominando un suo vecchio amico di Accademia militare al comando in capo dell’esercito) non intende in nessun modo lasciare il potere. Anche un eventuale governo di unità nazionale dovrebbe infatti avere lui come capo di Stato, fino alla naturale scadenza del suo mandato, nel 2016.  Vi è quindi la possibilità che i negoziati falliscano, poiché la Francia, anche se è fredda con Bozizé, non può sdoganare al 100% Séléka, senza avere la certezza di portare alla Presidenza un suo fedele alleato. Anche perché l’ombra del Sudan, o di chissà quale cartello di interessi imprenditoriali esterni, si allunga inevitabilmente su Séléka stessa, e tale possibilità non può non preoccupare Parigi.
E quindi, alla fine, la Francia potrebbe decidere di lasciar fallire il negoziato e far ripartire la guerra civile, con grave danno per la popolazione civile centrafricana, nel tentativo di logorare i due contendenti e di cercare di portare al potere qualche esponente filofrancese dell’opposizione, come l’ex primo ministro filo-patassiano Martin Ziguélé, non a caso molto attivo, in questi giorni, sulla scena politica centrafricana. E’ chiaro che una simile soluzione passerebbe tramite l’ennesimo bagno di sangue, in questo martoriato Paese. La speranza di chi scrive è che i francesi abbiano il coraggio di terminare definitivamente l’esperienza politica fallimentare di Bozizé e favorire libere elezioni per un nuovo governo, accettando anche la possibilità che emerga un Presidente non favorevole ai propri interessi economici.


[1] C. Moffa, L'Africa alla periferia della storia. Guida, Napoli 1993.

[2] Titley, Brian (1997). Dark Age: The Political Odyssey of Emperor Bokassa. Montreal: McGill-Queen's University Press. ISBN 0-7735-1602-6.

[3] L’orrore con cui le opinioni pubbliche occidentali accolgono le presunte notizie di antropofagia di Bokassa, quando il nostro Occidente irrora, a cadenza annuale, intere popolazioni con bombe al fosforo o all’uranio impoverito, o accetta che decine di appartenenti agli strati più emarginati delle nostre società vengano fatti friggere sulla sedia elettrica ogni anno, è indicativo di un approccio culturale nei confronti dell’Africa rimasto al più gretto colonialismo piccolo borghese, ad una visione del negro come selvaggio seminudo e con l’osso al naso che cucina i poveri esploratori bianchi, portatori di presunta civiltà, dentro enormi pignatte. Sarebbe opportuno, anche se in questa sede non è possibile, ricordare ,l’enorme valenza rituale e anche religiosa dell’antropofagia. Il cannibale che mangia parti del cuore del suo nemico per incorporarne le virtù di coraggio e combattività mostra infinitamente più rispetto per il suo avversario del pilota da caccia israeliano che innaffia di fosforo un asilo-nido palestinese.


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