di Lorenzo Mortara
Rsu Fiom Rete28Aprile
Pubblichiamo la quarta parte (delle cinque previste) degli Appunti su Sabattini. Qua per comodità del lettore, segnaliamo a mo' di indice le cinque parti con il relativo link di quelle già pubblicate:
5) Conclusioni
LA
FINE DEL SINDACATO
Siamo
così arrivati alla fine dei suoi discorsi. Incapace di trovare una
strategia che rappresentasse in tutta la sua complessità il lavoro,
cioè sia dal lato economico che politico, il sindacato
pervicacemente interclassista si avvia alla sua estinzione. È questo
il senso del discorso che Sabattini tiene sempre a Reggio Emilia,
alla Camera del Lavoro, l’11 Luglio 2003, all’interno di un
seminario su “Catene al lavoro. Il controllo sociale dentro e fuori
la fabbrica” in collaborazione con il Centro Studi R60 e
l’Associazione Storie in Movimento.
Siamo al primo atto di un dramma
che proprio in questo momento vede più e più repliche aggravate. Si
è appena consumato il contratto separato tra Fim-Uilm e la
Federmeccanica. E allora come oggi, si è firmato in blocco quello
che voleva solo la parte padronale: «l’accordo non conteneva alcun
elemento delle piatteforme presentate da quelle organizzazioni che
l’hanno firmato sottoscrivendo esattamente ed esclusivamente la
posizione presentata da Federmeccanica e Confindustria». Leggendo,
il lettore non troverà solo questa analogia, ma anche tutte le
altre. Governi e Parlamenti che vengono in soccorso dei padroni per
cambiare leggi scomode che garantiscono i diritti ai lavoratori,
padroni che chiedono più flessibilità e che danno aumenti legati
unicamente all’incremento della produttività, tentativi di
liquidazione dei contratti nazionali e del potere di coalizione dei
lavoratori con accordi sottobanco non sottoposti al voto di nessuno.
Se pensiamo che dieci anni dopo,
i discorsi padronali sono più o meno gli stessi, col non piccolo
problema che da allora molti dei loro sogni sono riusciti a metterli
nero su bianco, trasformandoli in realtà, allora la prima
riflessione che viene spontanea è questa: se da dieci anni a questa
parte i discorsi son sempre gli stessi, è davvero esistita prima una
classe padronale diversa da questa, e più attenta all’essere umano
e meno all’Homo Oeconomicus? E la risposta è no, non è mai
esistita e mai esisterà una borghesia di tal fatta, i discorsi
padronali del 2003 sono uguali a quelli del 2013 come a quelli del
1903 e a quelli ancora più indietro che risalgono ai suoi esordi
dell’Ottocento. Se qualche volta non li abbiamo sentiti uscire
dalla loro bocca, è perché qualcuno gli ha suggerito che fosse
meglio rimandarli aspettando tempi migliori. E questo qualcuno altri
non è che il movimento operaio con tutta la forza della sua lotta, e
la paura che in determinati momenti ha saputo mettere loro addosso.
Ma dentro, nel loro cuore arcigno di padroni, non c’è mai stato
spazio per null’altro che non fosse il profitto. Ogni cosa, operaio
compreso, doveva e deve essere ridotta a merce pura e semplice,
senz’altro diritto che quello di scambiarsi sul mercato al suo
valore, pazienza se in tempi di crisi questo scende a zero. È il
capitalismo, la legge della (loro) natura.
Sabattini ripercorre le tappe che
hanno portato la borghesia a riprendere coraggio e a ritirare fuori i
suoi discorsi più autentici: l’avvento di Reagan e della Thatcher,
il crollo dello stalinismo e tutto quello che oggi prende il nome un
po’ volgare e fuorviante di neoliberalismo o neoliberismo. In
questo quadro, bisogna riconoscerlo, emerge la grandezza della
borghesia che non si scompone praticamente mai e passa come un rullo
compressore o come un Panzer sopra chiunque provi a intralciarle il
cammino, segno della grande, immensa coscienza, anche storica, che ha
del suo interesse. Il suo strabiliante successo si deve certamente a
questo, ma non sarebbe stato così evidente se non avesse avuto come
controparte dei dirigenti del movimento operaio così incoscienti
degli interessi dei lavoratori. Sabattini certamente non è tra
questi, lo abbiamo visto esaminando questi quattro discorsi, e ancora
lo vediamo nelle ultime righe quando smantella l’ultima euforia dei
padroni. Oltre all’accordo separato, la borghesia ha appena
scorticato i lavoratori con la Legge Biagi, e come suo costume si
lascia andare a deliri di onnipotenza. Immagina un mondo con
fabbriche al buio completamente automatiche senza più bisogno di
lavoratori (anche noi, di passata, le sogniamo, perché sarebbero
perfette per instaurare praticamente all’istante il socialismo, con
la coincidenza, per un’unica sublime eccezione, della teoria
marxiana sull’estinzione graduale dello Stato con la teoria
anarchica dell’estinzione immediata). Sabattini è bravo a vedere
sotto questo mito, dietro il quale vanno anche oggi ancora in molti,
l’ennesima ristrutturazione padronale, con l’esternalizzazione di
quasi tutta la produzione a fabbriche decentrate che lasciano alla
fabbrica madre solo l’assemblaggio. Tuttavia, nella
esternalizzazione non c’è solo il tentativo padronale di liberarsi
dal controllo sindacale, ma anche il frutto tecnicamente più genuino
e oggettivo della divisione internazionale del lavoro che viaggia di
pari passo con lo sviluppo capitalistico. Perciò alla segmentazione
del lavoro su scala mondiale, non si può che rispondere con una
ricomposizione internazionale dell’unità dei lavoratori. Senza
classismo non è possibile rappresentare integralmente il lavoro, e
senza internazionalismo non è più possibile alcun sindacato di
classe. Quest’aspetto non è molto chiaro a Sabattini,
l’internazionalismo del problema sembra sottovalutarlo. Eppure la
fine del sindacato è proprio la fine dell’internazionalismo, e un
sindacato che riprenda il suo cammino di classe senza andare più in
là degli angusti confini nazionali, è destinato, nel migliore dei
casi, a vedere fallire rapidamente le sue prime iniziali vittorie.
Stazione dei Celti
Gennaio 2013
Nessun commento:
Posta un commento