IL RUOLO DELL'INTELLETTUALE IN POLITICA
di Riccardo Achilli
Qual è il ruolo
dell'intellettuale in politica? Il declino e lo sradicamento della sinistra
italiana ripropongono questo tema in modo urgente, che naturalmente va
inquadrato nel contesto più ampio del rapporto fra intellettuali e politica.
Negli ultimi decenni, questo rapporto, nel nostro Paese, ha subito un profondo
degrado. Nel migliore dei casi, l'utilizzo dell'intellettuale viene ridotto a
quello di “antenna” che fornisce al politico gli umori della società, e
nobilita il messaggio del politico dandogli una forma a volte linguisticamente
più raffinata, ma contenutisticamente non diversa (modello-Becchi). Nel
peggiore dei casi, l'intellettuale viene sbandierato come una bella figurina
che dà lustro al partito, ma quello che dice, nella misura in cui è contrario
agli orientamenti della leadership del partito stesso, non viene semplicemente
ascoltato (come avviene a numerosi intellettuali che sono stati vicini ai Ds o
al Pd, ma si pensi anche al trattamento ricevuto da Gianfranco Miglio dentro la
Lega Nord, quando la sua visione di Stato neo-federale e neo-corporativo cozzò
con il ben più pratico bisogno di Bossi di negoziare spazi di potere
all'interno dell'ordinamento statuale esistente, barattando la rinuncia sia
alla secessione sia ad un cambiamento radicale della forma di stato con forme
più avanzate di federalismo e di redistribuzione del carico fiscale dal Nord
verso il Centro Sud del Paese). Oppure, ancora, l'intellettuale viene ridotto al
ruolo del tecnico, che non deve disegnare un modello nuovo di società, ma solo
trovare le soluzioni tecnico-normative ed economico-finanziarie più efficienti
per rispondere a problemi pratici e contingenti (modello-Tremonti).
Il problema fondamentale non risiede
nella lottizzazione politica del ceto intellettuale e dei luoghi in cui opera (a partire dall'Università) perché
tale lottizzazione c'è stata sempre, e non ha impedito che, almeno fino ai
primi anni Ottanta, il nostro Paese potesse esibire intellettuali indipendenti,
anche dalla loro parte politica di riferimento, come Pasolini. Il problema è la
privazione della politica della sua base ideologica, avvenuta dopo la caduta
del muro di Berlino. La caduta della visione ideologica, che in fondo altro non
è che una visione di insieme del mondo desiderabile, è andata di pari passo con
la crisi del comunismo e della socialdemocrazia tradizionale (cioè con le
dottrine politiche che promettevano un mondo radicalmente diverso), con una
politica ridotta alla risposta contingente di interessi concreti dei gruppi
sociali di riferimento, deprivata, soprattutto dalla destra berlusconiana, di
qualsiasi visione d'insieme della società, con un centrosinistra che ha
praticato una giustapposizione di culture diverse, quella cattolico-dossettiana
e quella neocomunista, riveniente dal togliattismo e dal berlinguerismo, senza
riuscire a fare una sintesi che non fosse confinata sul piano meramente tattico
del day-by-day. Per trovare una sintesi purchessia, la questione morale di
retaggio berlingueriano è stata stiracchiata e strumentalizzata, diventando
banalmente antiberlusconismo e moralismo di pura facciata, che però per molti
anni è stato il collante delle diverse
anime del centro-sinistra prima, e del Pd poi, insieme ad un europeismo
piuttosto acritico persino nei confronti dell'impostazione dichiaratamente
liberista dei Trattati, da Maastricht in poi, usato come succedaneo
dell'incapacità di offrire al Paese un'alternativa di politica economica ed
industriale di respiro strategico e dunque pluriennale, come invece riuscì a
fare la Gran Bretagna, rimasta fuori dai parametri di Maastricht, pur se
colpita anch'essa dalla crisi valutaria del 1992 (ma anche riveniente, va
detto, dalla sfiducia profonda circa la capacità di tenuta di un Paese
corporativo e disunito come il nostro, rispetto a regole di politica fiscale
che non fossero imposte dall'esterno).
E' evidente che, laddove si
esaurisca una visione complessiva del mondo, laddove l'ideologia ceda il passo
al pragmatismo della quotidianità, la funzione dell'intellettuale è sottoposta
inevitabilmente al degrado, nelle varie modalità che ho sopra indicato. I danni
causati alla politica dall'assenza della sua dimensione intellettuale sono
sotto gli occhi di tutti: il pragmatismo del fare (anche quando si fanno
cazzate) eretto a valore assoluto e di per sé assolutamente positivo, la
demagogia del vaffanculo in piazza identificata come “coraggioso” (??) grido di
ribellione contro un “sistema”, che sia reale o fantasticato (considero che la
retorica della “casta” sia, almeno in parte, qualcosa di fantasticato), oppure
l'idea, accarezzata da De Rita, di una politica ridotta al ruolo di
“imbonitore” e “consolatore” rispetto agli effetti di decisioni prese in ambito
extra politico. Su tutto, aleggia la deprimente delusione di una politica che
appare incapace di adempiere al suo ruolo primigenio, cioè di cambiare il
mondo, impastoiata dentro i meccanismi di un turbo-capitalismo sempre più
impercettibile al comune cittadino, e che genera disillusione e calo del grado
di partecipazione. E che peraltro finisce per allontanare le menti migliori,
che cedono all'idea della politica “sporca”, oppure barattando cinicamente la
fornitura di idee con la poltrona, mercantilizzando e dunque rendendo sterile
l'apporto dell'intellettuale alla politica (produzione di idee in cambio di uno
stipendio o di un posto).
E, per finire, l'estinzione della
sinistra, perché, dobbiamo dirlo, la sinistra esiste soltanto nell'ambito di un
esame di classe della società, e dei conflitti fra lavoro e capitale.
All'esterno del riconoscimento della struttura di classe della società e della
natura conflittuale di tale struttura, non c'è sinistra, né riformista né
rivoluzionaria. C'è solo il social-liberismo che si rivolge ad una indistinta
“società civile” caratterizzata da rapporti potenzialmente armoniosi, solo che
si trovi il giusto “punto de equilibrio final” interclassista (per dirla con il
gergo di Peròn, per certi versi, per quanto assurdo possa sembrare, uno dei maîtres
à penser del Pd) che armonizzi le relazioni sociali in un contesto in cui chi
mangia è contento di mangiare, facendo contenti anche quelli che recuperano le
sue briciole cadute sotto il tavolo.
Un approccio che deriva da una scorretta
lettura delle teorie di Bauman sulla società liquida, che non sottendono
affatto un superamento della dicotomia fra sfruttatore e sfruttato (anzi, nella
società liquida tale dicotomia si rafforza) ma semplicemente una decomposizione
e ricomposizione in forme precarie, continuamente cangianti, degli antichi
blocchi sociali novecenteschi, e dei sistemi di controllo ed assicurazione
sociale alla loro base. Una società liquida non è affatto una società senza
classi, come tanti infausti presunti “sinistroidi” vanno affermando, per cui
conterebbe solo la soddisfazione dell'individuo in un mondo che gli offra il
massimo delle libertà e delle opportunità, ma è una società in cui i rapporti
sociali vengono atomizzati, rimangono sullo sfondo, producendo effetti
drammatici su chi è più debole, mentre l'individualismo, sul piano
sovrastrutturale, viene esaltato come valore fondante. Ma evidentemente,
l'assenza degli intellettuali impedisce di analizzare correttamente i conflitti
di classe tipici della società liquida, e quindi di disegnare un portolano
culturale fondamentale per la sinistra del XXI secolo.
E' quindi evidente che il
recupero della dimensione intellettuale, in politica, è fondamentale per uscire
dallo stallo attuale, e per restituire alla politica stessa il ruolo che le è
proprio. Ma come? Recuperando l'insegnamento gramsciano dell'intellettuale
organico, e attualizzandolo alla realtà di oggi. Si tratta dell'intellettuale
che, per poter essere organico alla classe sociale che vuole aiutare a
raggiungere nuove forme di egemonia culturale, deve sapere, innanzitutto,
tornare all'analisi di classe, saper ricostruire le relazioni di classe della
società liquida post-moderna. Non è possibile ricostruire una sinistra egemone
senza tornare all'indagine sociologica come la intendeva Panzieri, cioè la
ricerca sul campo, l'inchiesta operaia a questionario e campione, e come la
intendeva Alquati, ovvero l'inchiesta condotta con metodi di con-ricerca, cioè
di messa alla pari fra ricercatore ed intervistato in un processo dialettico
nel quale anche la metodologia di inchiesta ed i suoi obiettivi, non solo
conoscitivi ma anche politici, si formano. Primo compito dell'intellettuale
organico è quindi quello di ricostruire una analisi di classe della società, ed
esercitare forme di influenza, sulla sua parte politica, per farle assumere
questa stessa prospettiva di classe, nell'analisi e nella proposta
programmatica.
Significa poi che l'intellettuale
non deve essere soltanto uno studioso allo stato puro. Se è uno studioso allo
stato puro (perché magari è un accademico) deve saper arricchire il suo
percorso con momenti ed occasioni di contatto con il mondo del lavoro, con
quello del disagio socio-lavorativo, anche per il tramite, come detto, dei
metodi di conricerca. Ma ciò significa anche, in linea con la forte
correlazione gramsciana fra teoria e prassi, che il lavoratore istruito,
l'operaio istruito, che voglia sistematizzare la sua esperienza di vita, di
lavoro e di lotta politico/sindacale dentro una teoria che abbia anche
significato politico per la classe cui appartiene, è a tutti gli effetti un
intellettuale, alla pari dell'accademico.
L'intellettuale organico, che sia
uno studioso a tempo pieno o un lavoratore istruito, deve fare attività
politica anche solo a livello di militanza di base, e se del caso, non deve
affatto disdegnare la partecipazione ad attività che siano anche di tipo
dirigenziale dentro strutture partitiche o sindacali, purché, però, la
conquista della posizione dirigenziale non sia il fine ultimo dell'attività che
svolge, perché a quel punto la sua necessaria libertà di elaborazione di
pensiero e di proposta diviene subordinata a considerazioni di posizionamento
tattico dentro processi di spartizione del potere. L'indipendenza di giudizio
deve venire sempre prima rispetto alla carriera politica. Ma la partecipazione
politica, anche ad un livello elementare, è fondamentale.
L'intellettuale organico deve
saper essere un eccellente formatore ed un docente. Non serve a niente
elaborare una teoria se non la si sa o non la si vuole trasmettere. Il momento
della docenza deve essere importante tanto quanto quello della ricerca e
dell'elaborazione.
L'intellettuale organico deve
sapere la differenza che esiste fra l'essere intellettuale “servente”, una
figura del tutto inutile, che si sostanzia nel ghost-writer, ed al tempo stesso
deve saper valorizzare la differenza che c'è fra lui ed il politico puro. Se ha
incarichi politici di responsabilità, deve saper fare il politico, ed
accantonare certi atteggiamenti rigidi, tipici della mentalità
dell'intellettuale puro, che trova il suo appagamento nel riconoscimento
universale della validità della sua teoria, sapendo che la politica, in quanto
arte dello spostamento del consenso, richiede mediazioni, tempistiche e
processi di stop-and-go, inconciliabili con la pretesa di andare “sempre
avanti” linearmente, tipica di chi ha elaborato una concezione del mondo, con
la profonda fede che questa sia la migliore possibile.
L'intellettuale che riveste
funzioni politiche deve anche evitare l'esibizionismo culturale che non produce
egemonia culturale di classe. Faccio un esempio. Cuperlo, ispirato dal film di
Veltroni, ha recentemente pubblicato una vera e propria pugnetta intellettuale
sul berlinguerismo, che, peraltro, a mio modesto modo di vedere, è anche una
analisi ad minchiam segugis. Ma non è questo il punto. Anche se fosse una
analisi storica perfetta, mi chiedo, nell'Italia attuale, quanta egemonia
culturale possa produrre una analisi storica di fatti risalenti a più di
trent'anni fa, in una società ed in un quadro politico ed economico
completamente diversi da quelli di allora. L'obiettivo dell'intellettuale
organico è quello di ricostruire egemonia culturale, non di fare belle ed
eleganti analisi fini a sé stesse. Il problema vero di oggi non è la ripresa
della questione morale berlingueriana, che è stata, come ho già detto,
stiracchiata ed abusata durante l'intero ventennio della Seconda Repubblica,
con i risultati che abbiamo visto. Né il problema berlingueriano del rapporto
fra neocomunisti e democristiani, che il Pd ha portato, a mio parere personale,
ad un pessimo risultato, incarnato da un leader con il corpo di un
democristiano e la testa di un blairiano. Il problema è quello di ricostruire
un rapporto con il mondo del lavoro che coniughi merito e bisogno, invertendo
la dinamica conflittuale che vede il capitale prevalere sempre più sul lavoro
e, nell'ambito del capitale stesso, la componente speculativa e “rentier”
prevalere su quella produttiva, ricostruendo alleanze fra produttori contro il
turbocapitalismo. Probabilmente serve più una rilettura di Proudhon, delle
migliori pagine del socialismo liberale rosselliano e del keynesianesimo, che
oggi ci forniscono una guida, da un lato, verso l'esigenza di costruire una
società basata sua una alleanza di produttori contraria al capitale
parassitario e speculativo, e dall'altro, l'esigenza di un movimento continuo
di ascendenza che consenta agli sfruttati ed ai perdenti di migliorare
continuamente il proprio status sociale e materiale, in un quadro di democrazia
e libertà, profondamente minacciato dalle tecnocrazie finanziarie globali, con
un soggetto pubblico che torni ad essere programmatorio e redistributivo, fuori
dal culto mercatistico. Non serve invece a niente, se non ad una gratificazione
personale, o, peggio ancora, per un rifiuto di voler ricostruire egemonia
culturale di classe, mostrare quanto si è bravi a ricostruire il quadro storico
del PCI di Berlinguer.
In sintesi: l'intellettuale
organico del XXI secolo è una priorità per la rinascita della sinistra. Deve
saper ricostruire una teoria basata sull'analisi di classe. Deve quindi avere
un fortissimo rapporto con la prassi, e se la sua professione lo ostacola in
ciò, deve darsi da fare per costruirlo. Deve partecipare alla politica, ma
sempre salvaguardando, prima di tutto, il bene supremo della sua indipendenza
di giudizio, rispetto ai vincoli ed ai condizionamenti di carriera
partitico/sindacale, accettando, se del caso, la semplice militanza di base.
Deve saper essere umile e non egocentrico, non innamorato delle sue costruzioni
teoriche al punto di non riconoscere l'esigenza della politica di fare
mediazioni, e di arretrare tatticamente in determinate fasi, e non deve cadere
nell'egocentrismo edonistico tipico dell'intellettuale, cercando sempre di
lavorare in modo utile a portare avanti l'egemonia culturale sulle questioni
realmente attuali e sensibili, e sapendo essere maestro, oltre che pensatore.
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