di Stefano Macera
Mario Chiari (1909-1989), in qualità di scenografo
attivo con De Sica, Visconti, Pietrangeli ed altri, è stato un
protagonista del nostro cinema. Pochi conoscono la sua attività di
regista, che lo ha portato, negli anni ’70, a firmare un
lungometraggio di finzione (Prete fai un miracolo) in genere
maltrattato dalla critica, ma che rinvia anche ad una serie di
documentari realizzati nei primi anni ’40. Tra questi vi è il
sorprendente Lo sperone d’Italia (1943),
che dura solo 10 minuti ed è stato prodotto dall’Istituto Luce.
Nel 2007 la Provincia di Foggia ne ha curato l’edizione in dvd.
Dunque, un’opera risalente al periodo bellico, però avulsa da quel
contesto tragico, quasi si fosse alla ricerca di un’oasi di pace
coincidente con la natura ed i paesaggi di quello che allora era tra
i luoghi più incontaminati d’Italia: il Gargano. Questo distacco
dalla cronaca dolorosa del proprio tempo, non toglie a Lo sperone
d’Italia il suo carattere di documento storico di assoluto
rilievo. Guardando le immagini delle carbonaie fumanti nelle radure
dei boschi o quelle dei giovani contadini sugli asinelli, ci si sente
trascinati in un’altra dimensione. Che, in larga misura, svanirà
non molto tempo dopo, con quei processi di modernizzazione e
meccanizzazione della produzione agricola che interverranno, negli
anni ’50, in tutto il mezzogiorno.
Insomma, un documentario
utile, come rileva il Presidente della provincia di Foggia nel
dèpliant allegato al dvd, che può contribuire a farci capire tanto
“come era il Gargano, come i garganici”, quanto, sulla
base del confronto con le immagini di ieri, “come è oggi e come
sono i garganici”.
Quel che ci preme di
sottolineare è che tale capacità di restituzione di una realtà che
oggi sentiamo lontana, è anche il frutto di opzioni linguistiche ben
definite. Lo sperone d’Italia, pur non esente da difetti,
non è frutto del lavoro d’uno sprovveduto, bensì di un autore
pienamente immerso nella cultura cinematografica del suo tempo, non
solo italiana.
Sulla scia dei registi
sovietici, Chiari punta su immagini fortemente plastiche (si pensi
all’inquadratura del monaco dalla folta barba che legge, affiancato
da un “collega” più giovane), adatte ad un montaggio serrato,
che rimanda all’idea di una vera e propria sinfonia visiva.
Un'idea si esplicita in
particolare nel brano, molto bello, che partendo da Monte
Sant’Angelo, passa in rassegna angoli di diversi paesi, non
specificati, perché l’intento è quello di cogliere “toni e
lineamenti comuni” di quei nuclei urbani. Si viene quasi
catturati dalla rapida successione di case bianche, balconcini
settecenteschi battuti in ferro, scorci caratteristici con abitazioni
che inquadrano il mare o che hanno sullo sfondo un’altura.
Ora, se le immagini, e la
loro scansione ritmica, hanno tanta forza, non è pleonastico, non
porta con sé un senso di esagerazione, il diffuso commento musicale?
Tutto sommato no. E non solo perché il regista ha l'accortezza, a
volte, di interromperlo, così da farci sentire brevemente i rumori
della realtà, come nella semplice, deliziosa carrellata che ci porta
al centro di un chiostro, dove un frate sta riempiendo un secchio con
l'acqua di un pozzo. O nella prima delle inquadrature
sull'abbattimento di alberi nel Bosco “Umbra”, dove vediamo (e
ascoltiamo) l'accetta e la sega in azione.
Né la questione è
totalmente risolta da altre trovate, certo intelligenti, come quello
stemperarsi del commento musicale in un canto di paese,
contraddistinto da un coro di voci giovani, che connota le immagini
dei ragazzi sugli asinelli.
Il punto è che la musica
fa parte di un più articolato impianto audiovisivo, che include
anche la voce fuori campo. Sulla quale, certo, qualche rilievo può
essere mosso. All'inizio del documentario, quando “visitiamo” le
rovine della chiesa di S. Leonardo a Siponto e poi vediamo inquadrate
dall'alto mandrie di bovini e “torme di cavalli”, si fa fatica a
stare dietro al parlato. Poi, però, la sensazione di “eccesso”
viene meno e non per mero adattamento dello spettatore. Nel dèpliant
di cui si diceva, si parla di “ingenuità del testo talvolta
impropriamente riferito alle immagini”. Ma in realtà, proprio per
il suo tono vagamente letterario (esemplificato dall'”estro
girellone” che ci si attribuisce nella sequenza, prima citata, con
i particolari di diversi paesi), la voce off ha il pregio di non
risolversi nella descrizione di ciò che già si vede. Suggerendo,
invece, il senso di un breve viaggio, intervenendo per innestare
sulla “sinfonia visiva” un minimo di intelaiatura narrativa. Il
che riesce di più in alcuni momenti e meno in altri. Col risultato
che il finale, con le immagini dei lidi e quelle delle retrostanti
pinete, ci spiazza. In un duplice senso: positivo, perché
intervenendo come un fulmine a ciel sereno, impedisce una chiusura
convenzionale; negativo, perché avvertiamo un senso d'incompiutezza.
Però, complessivamente la dialettica fra testo e immagini pone Lo sperone d'Italia più avanti di tanti documentari successivi. Ed il cospicuo commento musicale, cui si accennava prima, risultando perlopiù in sottofondo, non sovrasta il resto ed arriva a configurarsi come terzo elemento di un rapporto tra livello visivo e livello sonoro che non pare lasciato al caso. Dunque, una piccola lezione di audiovisione, da parte di un autore che, qua e là, lascia trapelare altre anticipazioni di linguaggio filmico “moderno”. Come quando il suo sguardo si ferma per un attimo sulla facciata bianca d'un convento, in un campo lungo attraversato dalla minuscola figura di un frate. Un'inquadratura meno plastica e meno “piena” delle altre, che per certi versi sembra quasi antonioniana.
Però, complessivamente la dialettica fra testo e immagini pone Lo sperone d'Italia più avanti di tanti documentari successivi. Ed il cospicuo commento musicale, cui si accennava prima, risultando perlopiù in sottofondo, non sovrasta il resto ed arriva a configurarsi come terzo elemento di un rapporto tra livello visivo e livello sonoro che non pare lasciato al caso. Dunque, una piccola lezione di audiovisione, da parte di un autore che, qua e là, lascia trapelare altre anticipazioni di linguaggio filmico “moderno”. Come quando il suo sguardo si ferma per un attimo sulla facciata bianca d'un convento, in un campo lungo attraversato dalla minuscola figura di un frate. Un'inquadratura meno plastica e meno “piena” delle altre, che per certi versi sembra quasi antonioniana.
Certo,
le nostre annotazioni possono risultare sorprendenti. Perché dietro
questo piccolo film c'è quell'Istituto Luce che, negli anni '30,
rese un grande servizio al regime, svolgendo un'attività
propagandistica volta a plasmare gli italiani, avvicinandoli al
modello ideale dell'”uomo nuovo” fascista.
Ma
nel 1942-43, presagendo la prossima fine dell'esperienza totalitaria,
una parte del cinema italiano iniziò a fare un bagno di realtà, a
soffermarsi sui luoghi del vivere quotidiano, abbandonando i regni
immaginari dell'Europa centrale che dominavano le commedie dei
telefoni bianchi o le immagini eroiche del Duce che contrassegnavano
i cinegiornali.
Proprio
l'essere sganciato dalla cronaca immediata, che avrebbe imposto un
approccio propagandistico, permette a Lo sperone d'Italia
di collocarsi in questa tendenza.
Che non rimanda alla spinta a registrare passivamente “ciò che è”,
risultando semmai legata alla necessità di articolare i frammenti di
realtà che si riescono a raccogliere secondo il proprio gusto, come
nel caso di Chiari, o in base alla propria visione del mondo, come
nei coevi e straordinari Ossessione e
Gente del Po, dovuti
rispettivamente a Visconti ed Antonioni.
giugno 2012
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