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sabato 23 marzo 2013

1943: LO SCENOGRAFO E IL GARGANO di Stefano Macera




di Stefano Macera




Mario Chiari (1909-1989), in qualità di scenografo attivo con De Sica, Visconti, Pietrangeli ed altri, è stato un protagonista del nostro cinema. Pochi conoscono la sua attività di regista, che lo ha portato, negli anni ’70, a firmare un lungometraggio di finzione (Prete fai un miracolo) in genere maltrattato dalla critica, ma che rinvia anche ad una serie di documentari realizzati nei primi anni ’40. Tra questi vi è il sorprendente Lo sperone d’Italia (1943), che dura solo 10 minuti ed è stato prodotto dall’Istituto Luce. Nel 2007 la Provincia di Foggia ne ha curato l’edizione in dvd. Dunque, un’opera risalente al periodo bellico, però avulsa da quel contesto tragico, quasi si fosse alla ricerca di un’oasi di pace coincidente con la natura ed i paesaggi di quello che allora era tra i luoghi più incontaminati d’Italia: il Gargano. Questo distacco dalla cronaca dolorosa del proprio tempo, non toglie a Lo sperone d’Italia il suo carattere di documento storico di assoluto rilievo. Guardando le immagini delle carbonaie fumanti nelle radure dei boschi o quelle dei giovani contadini sugli asinelli, ci si sente trascinati in un’altra dimensione. Che, in larga misura, svanirà non molto tempo dopo, con quei processi di modernizzazione e meccanizzazione della produzione agricola che interverranno, negli anni ’50, in tutto il mezzogiorno.
Insomma, un documentario utile, come rileva il Presidente della provincia di Foggia nel dèpliant allegato al dvd, che può contribuire a farci capire tanto “come era il Gargano, come i garganici”, quanto, sulla base del confronto con le immagini di ieri, “come è oggi e come sono i garganici”.
Quel che ci preme di sottolineare è che tale capacità di restituzione di una realtà che oggi sentiamo lontana, è anche il frutto di opzioni linguistiche ben definite. Lo sperone d’Italia, pur non esente da difetti, non è frutto del lavoro d’uno sprovveduto, bensì di un autore pienamente immerso nella cultura cinematografica del suo tempo, non solo italiana.
Sulla scia dei registi sovietici, Chiari punta su immagini fortemente plastiche (si pensi all’inquadratura del monaco dalla folta barba che legge, affiancato da un “collega” più giovane), adatte ad un montaggio serrato, che rimanda all’idea di una vera e propria sinfonia visiva.
Un'idea si esplicita in particolare nel brano, molto bello, che partendo da Monte Sant’Angelo, passa in rassegna angoli di diversi paesi, non specificati, perché l’intento è quello di cogliere “toni e lineamenti comuni” di quei nuclei urbani. Si viene quasi catturati dalla rapida successione di case bianche, balconcini settecenteschi battuti in ferro, scorci caratteristici con abitazioni che inquadrano il mare o che hanno sullo sfondo un’altura.
Ora, se le immagini, e la loro scansione ritmica, hanno tanta forza, non è pleonastico, non porta con sé un senso di esagerazione, il diffuso commento musicale? Tutto sommato no. E non solo perché il regista ha l'accortezza, a volte, di interromperlo, così da farci sentire brevemente i rumori della realtà, come nella semplice, deliziosa carrellata che ci porta al centro di un chiostro, dove un frate sta riempiendo un secchio con l'acqua di un pozzo. O nella prima delle inquadrature sull'abbattimento di alberi nel Bosco “Umbra”, dove vediamo (e ascoltiamo) l'accetta e la sega in azione.
Né la questione è totalmente risolta da altre trovate, certo intelligenti, come quello stemperarsi del commento musicale in un canto di paese, contraddistinto da un coro di voci giovani, che connota le immagini dei ragazzi sugli asinelli.
Il punto è che la musica fa parte di un più articolato impianto audiovisivo, che include anche la voce fuori campo. Sulla quale, certo, qualche rilievo può essere mosso. All'inizio del documentario, quando “visitiamo” le rovine della chiesa di S. Leonardo a Siponto e poi vediamo inquadrate dall'alto mandrie di bovini e “torme di cavalli”, si fa fatica a stare dietro al parlato. Poi, però, la sensazione di “eccesso” viene meno e non per mero adattamento dello spettatore. Nel dèpliant di cui si diceva, si parla di “ingenuità del testo talvolta impropriamente riferito alle immagini”. Ma in realtà, proprio per il suo tono vagamente letterario (esemplificato dall'”estro girellone” che ci si attribuisce nella sequenza, prima citata, con i particolari di diversi paesi), la voce off ha il pregio di non risolversi nella descrizione di ciò che già si vede. Suggerendo, invece, il senso di un breve viaggio, intervenendo per innestare sulla “sinfonia visiva” un minimo di intelaiatura narrativa. Il che riesce di più in alcuni momenti e meno in altri. Col risultato che il finale, con le immagini dei lidi e quelle delle retrostanti pinete, ci spiazza. In un duplice senso: positivo, perché intervenendo come un fulmine a ciel sereno, impedisce una chiusura convenzionale; negativo, perché avvertiamo un senso d'incompiutezza.
Però, complessivamente la dialettica fra testo e immagini pone Lo sperone d'Italia più avanti di tanti documentari successivi. Ed il cospicuo commento musicale, cui si accennava prima, risultando perlopiù in sottofondo, non sovrasta il resto ed arriva a configurarsi come terzo elemento di un rapporto tra livello visivo e livello sonoro che non pare lasciato al caso. Dunque, una piccola lezione di audiovisione, da parte di un autore che, qua e là, lascia trapelare altre anticipazioni di linguaggio filmico “moderno”. Come quando il suo sguardo si ferma per un attimo sulla facciata bianca d'un convento, in un campo lungo attraversato dalla minuscola figura di un frate. Un'inquadratura meno plastica e meno “piena” delle altre, che per certi versi sembra quasi antonioniana.
Certo, le nostre annotazioni possono risultare sorprendenti. Perché dietro questo piccolo film c'è quell'Istituto Luce che, negli anni '30, rese un grande servizio al regime, svolgendo un'attività propagandistica volta a plasmare gli italiani, avvicinandoli al modello ideale dell'”uomo nuovo” fascista.
Ma nel 1942-43, presagendo la prossima fine dell'esperienza totalitaria, una parte del cinema italiano iniziò a fare un bagno di realtà, a soffermarsi sui luoghi del vivere quotidiano, abbandonando i regni immaginari dell'Europa centrale che dominavano le commedie dei telefoni bianchi o le immagini eroiche del Duce che contrassegnavano i cinegiornali.
Proprio l'essere sganciato dalla cronaca immediata, che avrebbe imposto un approccio propagandistico, permette a Lo sperone d'Italia di collocarsi in questa tendenza. Che non rimanda alla spinta a registrare passivamente “ciò che è”, risultando semmai legata alla necessità di articolare i frammenti di realtà che si riescono a raccogliere secondo il proprio gusto, come nel caso di Chiari, o in base alla propria visione del mondo, come nei coevi e straordinari Ossessione e Gente del Po, dovuti rispettivamente a Visconti ed Antonioni.





giugno 2012


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