di Riccardo Achilli
Introduzione
Il modello di mercato storicamente esistente comporta conseguenze sociali molto rilevanti sulla collettività. Ogni fase del capitalismo ha il suo modello dominante, ed in questa fase il ruolo crescente della concentrazione oligopolistica conduce a spacciare per liberalizzazioni, ovvero per provvedimenti mirati ad aumentare il grado di competizione sui mercati, interventi che in realtà sono puramente mirati ad estendere ulteriormente il ruolo dell'oligopolio, ed al contempo per fornire una utile cornice ideologica e mediatica per smantellare i vecchi monopoli pubblici, che garantivano l'accessibilità a servizi e beni essenziali anche ai cittadini più poveri ed emarginati. In tale articolo, illustrerò come con il pacchetto-liberalizzazioni recentemente approvato, Monti stia in realtà allontanandosi significativamente da un modello concorrenziale, al contempo smantellando i residui monopoli pubblici. Il tutto accompagnato dai gravi danni alla collettività derivanti dall'espansione dell'oligopolio, in luogo dei tanto sbandierati benefici da liberalizzazioni, che nel migliore dei casi saranno modesti e solo di breve periodo.
La fondamentale intuizione di Rudolf Hilferding è che “la borghesia fu - un tempo - in lotta contro il mercantilismo economico e l’assolutismo politico. (In un secondo momento dello sviluppo del capitalismo, nda) le esigenze del capitale finanziario favorirono la nascita e la diffusione di...una nuova ideologia adeguata ai propri interessi. Quest'ultima è però in netto contrasto con quella del liberalismo. Il capitale finanziario non chiede libertà, ma dominio: non tiene in alcun conto l’autonomia del singolo capitalista, anzi ne pretende l'assoggettamento; aborrisce l'anarchia della concorrenza e promuove l'organizzazione”.
In sostanza, Hilferding intuì come la finanziarizzazione del capitalismo avrebbe condotto non ad una esaltazione dei principi liberali classici, quanto piuttosto ad uno sviluppo degli oligopoli, riducendo per questa via il benessere complessivo della società. Di fatto, l'emergere del potere finanziario mette a disposizione quantità crescenti di capitale monetario iniziale per gli investimenti, accelerando l'accumulazione. Tutto ciò, lungi dal favorire la realizzazione dell'ideale liberale di concorrenza perfetta, finisce, in presenza di una curva di domanda spezzata (grande scoperta empirica fatta da Sweezy, Hall e Hitch) per favorire la rigidità dei prezzi (perché con curve di domanda spezzate l'impresa non può aumentare i prezzi, senza perdere la sua clientela, né ridurlo, perché l'aumento di domanda tenderebbe progressivamente ad azzerarsi). La rigidità del prezzo a sua volta finisce per impedire quegli aggiustamenti tipici del modello di concorrenza perfetta.
Quindi, la crescita del capitale finanziario e della concentrazione in sede di accumulazione, e la presenza di curve di domanda angolari, conducono non al paradiso del liberale, ma all'inferno dell'oligopolio, dei poteri forti, delle intese collusive, dei cartelli, e di sistemi politici sempre più legati agli interessi dei poteri imprenditoriali oligopolistici. Per una analisi dei processi di concentrazione oligopolistica in Italia, cfr. un altro mio scritto Processi di crescita dimensionale e concentrazione oligopolistica nell'economia italiana.
I modelli di mercato capitalistico esistenti
Prima di addentrarsi nell’esame del pacchetto-liberalizzazioni di Monti, è però necessaria una breve esposizione teorica dei principali modelli di mercato che il capitalismo propone: la concorrenza perfetta, l’oligopolio, con la sua variante denominata “concorrenza monopolistica”, ed il monopolio, specie quello pubblico. Senza un minimo di esposizione teorica delle forme di mercato, è infatti impossibile capire quali siano gli obiettivi reali del pacchetto-Monti, e si rischia di rimanere intrappolati nella gabbia mediatica che ci fa apparire le liberalizzazioni come una manna per l’economia e per il benessere del singolo cittadino.
Iniziamo a paragonare il modello di concorrenza perfetta con quello di oligopolio. Nel graf.1, il punto di equilibrio su un mercato perfettamente concorrenziale è rappresentato da N. In tale punto, infatti, la concorrenza perfetta fra imprese spinge il prezzo ad un livello di equilibrio, che eguaglia esattamente il ricavo marginale (che in concorrenza perfetta coincide con la retta orizzontale Rcp) con il costo marginale (curva Cmg (A)). Qualsiasi prezzo superiore a tale livello di equilibrio indurrebbe un profitto, e quindi un incentivo all'aumento dell'offerta, fino a che il prezzo scenderebbe fino al suo livello di equilibrio. Similmente, un prezzo inferiore all'equilibrio comporterebbe una perdita (cioè ricavi marginali inferiori ai costi marginali) e quindi una riduzione dei livelli di produzione ed offerta, fino a far risalire il prezzo al livello di equilibrio. In concorrenza perfetta, quindi, si produrrà la quantità di equilibrio Q del bene, venduta al prezzo di equilibrio P. La remunerazione dei fattori avviene in base al loro rendimento marginale, per cui il capitale è remunerato sulla base del suo effettivo apporto alla produzione (trascuriamo, perché allargherebbe troppo il discorso, l’ovvia obiezione marxista, per cui anche il capitale è in realtà frutto di lavoro indiretto). L'assenza di extra-profitti (ovvero aggiuntivi rispetto al rendimento marginale del capitale) è l’aspetto socialmente più positivo del modello perfettamente concorrenziale, cui si contrappongono i classici costi sociali derivanti da fallimenti del mercato (sia sulla quantità che sul prezzo).
In condizioni di oligopolio, però, la curva dei ricavi medi, e della domanda, diviene la curva Rm. Infatti, in oligopolio le imprese hanno la possibilità di influenzare il prezzo di mercato (mentre in concorrenza perfetta il prezzo di mercato è un dato esogeno alle imprese). Ciò significa che la curva di domanda, che in concorrenza perfetta è una retta orizzontale, in oligopolio diviene decrescente, e quindi il ricavo marginale, che è la sua derivata prima, non è più una costante, ma una retta decrescente. Ne consegue che l'equilibrio su un mercato oligopolistico non viene più realizzato in coincidenza con il punto N, ma con un punto che dipenderà dalle interazioni competitive (che nel modello di Cournot, qui assunto come base, avvengono sulle quantità prodotte) fra le imprese partecipanti all'oligopolio. Supponendo per semplicità un duopolio (cioè due sole imprese, l'impresa A e la B) se l'impresa A presume che il concorrente B produrrà la quantità O-B, allora fisserà la sua produzione al livello B-E, in modo da eguagliare, al punto E, il suo costo marginale (Cmg(A)) alla sua curva di ricavo marginale (Rmg(A)). Ne consegue che l'intero mercato oligopolistico produrrà una quantità totale pari ad E, che corrisponde, in base alla curva di domanda Rm, ad un prezzo di equilibrio pari a Po.
Ne consegue che l'impresa oligopolistica A benefici di un extra-profitto, segnalato dall'area tratteggiata, che è dato dal prodotto fra la quantità che essa produce (B-E) ed il prezzo Po, superiore al prezzo P di concorrenza perfetta che garantirebbe l'assenza di extra-profitto. Similmente, il concorrente B godrà di un extra-profitto dato dal prodotto fra la sua quantità prodotta O-B ed il prezzo Po, più alto del prezzo che azzera l'extra-profitto. Mentre in concorrenza perfetta le imprese non realizzano profitti aggiuntivi, e quindi il capitale ed il lavoro che utilizzano vengono remunerati esattamente in base al loro rendimento marginale nel processo produttivo, in oligopolio le imprese realizzano profitti aggiuntivi. Tale extra-profitto viene pagato dalla collettività, in termini di un livello di produzione, e quindi di disponibilità sociale del bene, più basso rispetto a quello che si sarebbe realizzato in condizioni di concorrenza perfetta (infatti il livello di produzione E è, se misurato sull'asse delle ascisse, inferiore a quello che si realizza in condizioni di concorrenza perfetta, pari a Q) ed in termini di un prezzo più alto rispetto a quello di concorrenza perfetta (infatti, Po è più alto di P).
Graf. 1 – equilibrio di mercato in concorrenza perfetta ed in oligopolio
Una variante dell’oligopolio è il modello di concorrenza monopolistica, che è basato sulla differenziazione del prodotto, in modo da creare tante nicchie di mini-monopolio, o di mini-oligopolio, a favore di ciascuno degli operatori che differenziano la loro offerta, in una sovrastruttura di mercato che però a prima vista appare concorrenziale, perché vi sono molti operatori. La differenza fondamentale con l’oligopolio è che le barriere di accesso al mercato sono particolarmente basse (le imprese, in concorrenza monopolistica, non possono fare cartelli o colludere fra loro per impedire l’accesso di nuovi competitors). L’equilibrio di breve periodo dell’impresa in concorrenza monopolistica è identico a quello dell’impresa in oligopolio, per cui si rimanda al graf. 1.
Nel lungo periodo, però, in tale tipo di mercato l’esistenza di una rendita oligopolistica comporterà l’ingresso di nuovi concorrenti (a differenza dell’oligopolio, non vi sono significative barriere all’ingresso) portando quindi l’extra-profitto verso lo zero, come in un modello di concorrenza perfetta, ma, a differenza di quest’ultima, l’impresa in concorrenza monopolistica genererà esattamente gli stessi costi sociali a carico della collettività esaminati nel caso dell’oligopolio: anche nell’equilibrio di lungo periodo, quando cioè l’extra-profitto sarà scomparso, in tale mercato si produrrà una quantità di beni/servizi inferiore, ad un prezzo più alto, rispetto al modello di concorrenza perfetta. Questo perché anche nel lungo periodo, esisterà un certo potere di mercato (quindi, a differenza della concorrenza perfetta, il prezzo non è completamente esogeno per le imprese, che almeno in parte lo possono influenzare) e quindi la retta del ricavo medio non sarà orizzontale in coincidenza del prezzo esogenamente dato (come in concorrenza perfetta) ma, come nel caso dell’oligopolio, sarà inclinata verso il basso. Il graf. 2 evidenzia esattamente la minore quantità ed il maggiore prezzo di equilibrio di lungo periodo su un mercato in concorrenza monopolistica, rispetto alla situazione di concorrenza perfetta.
Graf. 2 – differenze nelle quantità e nei prezzi di equilibrio di lungo periodo fra concorrenza perfetta e concorrenza monopolistica
Nel lungo periodo, però, in tale tipo di mercato l’esistenza di una rendita oligopolistica comporterà l’ingresso di nuovi concorrenti (a differenza dell’oligopolio, non vi sono significative barriere all’ingresso) portando quindi l’extra-profitto verso lo zero, come in un modello di concorrenza perfetta, ma, a differenza di quest’ultima, l’impresa in concorrenza monopolistica genererà esattamente gli stessi costi sociali a carico della collettività esaminati nel caso dell’oligopolio: anche nell’equilibrio di lungo periodo, quando cioè l’extra-profitto sarà scomparso, in tale mercato si produrrà una quantità di beni/servizi inferiore, ad un prezzo più alto, rispetto al modello di concorrenza perfetta. Questo perché anche nel lungo periodo, esisterà un certo potere di mercato (quindi, a differenza della concorrenza perfetta, il prezzo non è completamente esogeno per le imprese, che almeno in parte lo possono influenzare) e quindi la retta del ricavo medio non sarà orizzontale in coincidenza del prezzo esogenamente dato (come in concorrenza perfetta) ma, come nel caso dell’oligopolio, sarà inclinata verso il basso. Il graf. 2 evidenzia esattamente la minore quantità ed il maggiore prezzo di equilibrio di lungo periodo su un mercato in concorrenza monopolistica, rispetto alla situazione di concorrenza perfetta.
Graf. 2 – differenze nelle quantità e nei prezzi di equilibrio di lungo periodo fra concorrenza perfetta e concorrenza monopolistica
Nel caso del monopolio a gestione pubblica, è possibile, per finalità di politica economica e sociale, ad esempio, una volta determinato il punto di equilibrio al punto A (corrispondente alla quantità di equilibrio Q* ed al prezzo P*) che corrisponde al punto di massimizzazione del profitto di un monopolista privato, vendere la quantità di equilibrio Q* ad un prezzo P’' inferiore al prezzo di equilibrio, subendo una perdita di profitto pari all'area tratteggiata (graf. 3), e cioè pari a (Q* x P*) - (Q* x P''). Ciò ad esempio può essere fatto per realizzare una politica di prezzi sussidiati a favore dei consumatori più poveri, che ovviamente un monopolista privato non avrebbe l'incentivo a fare.
Graf. 3 – Monopolio pubblico che pratica una politica di sussidi sui prezzi
Graf. 3 – Monopolio pubblico che pratica una politica di sussidi sui prezzi
Analogamente, al prezzo P* di equilibrio, un monopolista pubblico potrebbe decidere di erogare una quantità superiore alla quantità di equilibrio Q*, ovvero una quantità Q’’ che si trova collocata a destra della curva di domanda, perché rappresenta una domanda economicamente non efficiente (nel senso che il suo soddisfacimento comporta costi marginali più alti dei ricavi marginali). Servendo tale domanda, il monopolista pubblico si carica l’onere di costi marginali superiori ai ricavi marginali, in una forbice negativa crescente, rappresentata dall’area tratteggiata nel graf. 3. tale scelta corrisponde, ad esempio, alla scelta di erogare un servizio essenziale anche a bacini di utenza marginali, caricandosi l’onere (che un privato ovviamente, sulla base di considerazioni aziendalistiche, non si caricherebbe mai) di una crescente inefficienza economica (ad es., per una azienda ferroviaria pubblica, ciò corrisponderebbe a tenere in esercizio linee ferroviarie in perdita, i c.d. rami morti, in modo da garantire l’accesso al servizio ferroviario a tutta la popolazione).
Graf. 4 – Monopolio pubblico che pratica una politica di aumento della produzione per gli utenti marginali
Naturalmente anche il monopolio pubblico è un modello che ha i suoi difetti, il principale dei quali è che, tramite il controllo statale della produzione, la sfera di potere e di influenza dello Stato si amplia, realizzando un blocco di potere politico/economico perfettamente funzionale alle esigenze della classe dominante. Infatti, il modello del monopolio pubblico è perfettamente funzionale al capitalismo, e ne connota una particolare fase evolutiva, che nei nostri Paesi ha dominato il secondo dopoguerra, e che in Italia ha iniziato il suo smantellamento a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, con le prime privatizzazioni effettuate dall’allora Presidente dell’IRI, Romano Prodi.
Tale modello, in una fase particolare dello sviluppo capitalistico, è infatti perfettamente funzionale alle esigenze della borghesia, soprattutto perché garantisce una accelerazione nell’accumulazione, soprattutto in settori ad elevata composizione organica del capitale. Inoltre, come già detto, realizza una perfetta fusione fra potere economico e politico, che garantisce il massimo controllo capitalistico dell’intero sistema socio economico. Infine, in termini strettamente economici, il monopolio pubblico produce una tendenza quasi inarrestabile all’inefficienza gestionale ed economica, poiché, anche volendo escludere fenomeni degenerativi come l’appropriazione politica, e non meritocratica, dei vertici dirigenziali delle imprese pubbliche, è comunque teoricamente impossibile stabilire una frontiera entro la quale le perdite di esercizio del monopolista pubblico sono giustificabili in base ad obiettivi di politica sociale (prezzi sussidiati, mantenimento dei rami morti, ma anche, ad esempio, finalità di assorbimento occupazionale in aree territoriali particolarmente svantaggiate) ed oltre la quale sono frutto di pura inefficienza gestionale. Questo perché discriminare fra un’inefficienza giustificabile per fini sociali ed una ingiustificabile è operativamente quasi impossibile. Ecco perché in una determinata fase dello sviluppo capitalistico, quando la pressione competitiva globale aumenta, riducendo il tasso di crescita potenziale dell’economia al di sotto della soglia che garantisce la sopravvivenza del monopolio pubblico, la borghesia avverte la necessità di smantellarlo, non certo per fare spazio alla concorrenza libera, ma per ampliare l’area di influenza dell’oligopolio privato.
Riassumendo: l'avvento dell'oligopolio, e della sua variante (concorrenza monopolistica) tipico dell'attuale fase di evoluzione del capitalismo, produce extra-profitti per i poteri imprenditoriali forti, ai danni della collettività, penalizzata da quantità prodotte inferiori al valore potenziali, e da prezzi più alti. Tale costo sociale non esiste nel modello di concorrenza perfetta, che però non si è mai compiutamente diffuso (rimanendo confinato a pochi casi di studio) e che comunque produce esternalità negative, in termini di fallimenti del mercato. Il modello del monopolio pubblico consente di eliminare sia i fallimenti di mercato connessi al modello concorrenziale puro, sia le perdite di benessere sociale connesse all’oligopolio, ed è quindi il modello socialmente migliore fra quelli che il capitalismo offre, ma presenta una serie di inconvenienti economico-gestionali e costituisce, in una determinata fase, un potente strumento di controllo capitalistico sull’intero sistema socio-economico.
Il decreto-Monti
Tornando all’attualità, dopo il precedente excursus teorico, occorre premettere che è impensabile che un uomo come Monti possa fare una politica che avvicina il modello economico a quello della concorrenza perfetta. E' molto più ovvio che la sua politica tenda a favorire gli oligopoli, sia per la sua estrazione professionale (è un ex uomo della Goldman Sachs) sia, soprattutto, per quanto afferma Hilferding ad apertura del presente articolo, ovvero che la fase finanziaria ed oligopolistica del capitalismo richiede controllo e potere.
Intanto, lo schema di decreto sulle liberalizzazioni contiene disposizioni che niente hanno a che vedere con le liberalizzazioni stesse, ma che tradiscono chiaramente gli intenti degli estensori. Infatti, queste disposizioni sono in realtà mirate a favorire la crescita dimensionale, ovvero una ulteriore concentrazione. In questa chiave va letta la deroga all'art. 18 per le piccole imprese che si fondono fra loro per creare una unità più grande, oppure la definizione del criterio del price cap per le concessioni autostradali. Tale criterio, come è noto, incentiva l'adozione di misure per aumentare la produttività del concessionario, ed ovviamente privilegia i grandi operatori, che possono, tramite economie di scala ed investimenti adeguati, resi possibili da un grado di capitalizzazione più alto, ottenere incrementi significativi del fattore di produttività, in modo più incisivo di quanto possano fare i piccoli. Ciò si traduce in guadagni di redditività estratta dalle concessioni autostradali tendenzialmente crescenti al crescere della dimensione organizzativa e patrimoniale dei concessionari.
Dopodiché, nel dettaglio degli interventi, si prevede la liberalizzazione della possibilità, per gli esercizi commerciali, di praticare sconti, promozioni o vendite promozionali. Si tratta di un provvedimento mirato evidentemente a scatenare guerre commerciali sul prezzo, tali da indurre molti piccoli negozi ad abbandonare il mercato (perché ovviamente in una guerra di prezzi, gli esercizi della grande distribuzione organizzata, in virtù di una maggiore capitalizzazione, di una migliore possibilità di accedere al credito bancario, di una maggiore forza contrattuale con i fornitori, possono resistere un giorno in più rispetto ai piccoli negozi). Il risultato probabile sarà quello di incrementare il peso della GDO. Se nel breve periodo i consumatori avranno dei benefici dalla lotta sul prezzo, nel medio periodo si accentuerà il processo già in atto di concentrazione del commercio su un limitato numero di grandi superfici, rafforzando quindi i meccanismi oligopolistici. Quando la guerra dei prezzi sarà finita, i pochi oligopolisti della GDO che si saranno conquistati gli spazi di mercato abbandonati dalla piccola distribuzione (con la rovina economica di migliaia di famiglie piccolo borghesi) potranno, esattamente come succede negli Usa, che sono molto più avanti di noi nel processo di riorganizzazione oligopolistica della rete distributiva, spartirsi i bacini commerciali, ingaggiando quindi una competizione oligopolistica basata sulla quantità, simile al modello di Cournot che, come è noto, conduce ad un equilibrio-Nash nel quale si verificano gli stessi costi sociali del modello oligopolistico generale studiato sopra: i costi di acquisto dai fornitori primari saranno più bassi per la GDO, mentre solo in parte i prezzi di vendita finali beneficeranno del risparmio conseguito a monte nei confronti dei fornitori. Ne conseguirà che la catena complessiva del valore, nelle filiere, si sposterà a favore delle grandi superfici di vendita, ai danni dei fornitori (quindi anche di migliaia di piccoli agricoltori) e dei consumatori finali. La progressiva scomparsa del piccolo negozio di vicinato comporterà un aumento della congestione nei grandi centri commerciali, con tutti i costi ambientali (traffico, inquinamento, poiché non sarà più possibile, per molti, fare la spesa senza prendere l'auto per recarsi ad un centro commerciale non di rado lontano dalla propria abitazione) e sociali che ne conseguono.
Un ragionamento non molto dissimile riguarda il tema della cancellazione delle tariffe minime e massime per i servizi professionali. In questo caso, la competizione di prezzo che ne deriverà favorirà i grandi studi professionali, che per le loro dimensioni possono fruire di economie di scala ed offrire sconti alla clientela. Se questa ne beneficerà in un primo momento, nel medio periodo si verificherà una riduzione della concorrenza, perché i grandi studi professionali fagociteranno i piccoli, e con ciò stesso i prezzi e le tariffe saranno nuovamente rialzati, erodendo il guadagno iniziale ottenuto dai consumatori (d'altra parte, anche il limite superiore alle tariffe, oggi vigente a beneficio dei clienti, sarà scomparso). Alternativamente, potrà anche verificarsi che gli studi professionali in oligopolio tengano relativamente basso il prezzo dei loro servizi, applicando il criterio del prezzo di esclusione studiato nei modelli oligopolistici di Sylos Labini (ovvero un prezzo sufficientemente basso da scoraggiare l'ingresso di nuovi competitors sul mercato). Ma in questo caso, se è vero che il consumatore di servizi professionali continuerebbe a godere di tariffe più basse di quelle attuali, verrebbe sconfessato un altro degli obiettivi sociali dichiarati nel decreto-Monti, ovvero l'incremento dell'occupazione nel settore dei servizi professionali. Infatti, il meccanismo del prezzo di esclusione impedirebbe a nuovi professionisti di entrare nel mercato, se non come dipendenti dei grandi studi già affermati, con livelli salariali modesti (il meccanismo del prezzo di esclusione regge se i costi sono bassi). Si ripeterebbe cioè il meccanismo estremamente competitivo tipico dei servizi professionali negli Usa, dove i dipendenti sono sottopagati e costretti a lavorare molto duramente, nella speranza (per moltissimi del tutto vana) di divenire, un giorno, soci dello studio. In ogni caso, quindi, che il prezzo salga o rimanga basso, il consolidamento di un sistema oligopolistico nel settore dei servizi professionali non sembra produrre rilevanti benefici sociali alla collettività nel suo insieme (sia questa quella dei consumatori di tali servizi, oppure dei giovani che ambiscono ad una carriera come professionisti).
Rispetto alla liberalizzazione delle farmacie e dei distributori di carburante, il problema è che l'oligopolio, in tali settori, è a monte, fra i fornitori, per cui l'aumento del numero di farmacie o la possibilità di rifornirsi da fornitori di carburante diversi da quello dell'insegna non comporterà alcuna significativa riduzione del prezzo (se non per alcuni prodotti parafarmaceutici, ma in questo caso ci sono già le parafarmacie). In questo caso, la valenza del provvedimento è solo in un limitato aumento dell'occupazione di nuovi farmacisti. Nel settore dei distributori di benzina, la possibilità concessa di aprire rivendite alimentari, di giornali, tabacchi ecc. crea di fatto barriere all'entrata simili al modello di Bain. Come è noto, in tale modello la barriera all'ingresso di nuovi competitors sul mercato non è basata su un prezzo di esclusione, come in Sylos Labini, ma sulla possibilità di effettuare investimenti per diversificare l'offerta aziendale, arricchire la gamma, innovare. Ovviamente solo i più grandi e capitalizzati possono effettuare tali investimenti, possono ottenere dalle banche il credito necessario, ecc. Di fatto, quindi, la possibilità di diversificare l'offerta, dalla vendita di soli carburanti a quella di altri generi merceologici, pressoché infinita, come appare dalla bozza di decreto, finirà per favorire gli imprenditori più capitalizzati, espellendo dal mercato quelli che non possono effettuare investimenti simili, o che sono posizionati in aree dove la diversificazione merceologica non è conveniente, o che hanno una superficie di vendita troppo piccola, e non facilmente ampliabile (si pensi ad es. ai distributori di carburante localizzati nei centri storici delle città). Come già si verifica in molti Paesi europei che hanno adottato questo modello, l'offerta di combustibili si concentrerà su un numero ristretto di esercizi, veri e propri “drugstore” all'americana, generalmente posti alle periferie delle città, non si avrà un significativo calo del prezzo della benzina (perché in buona misura determinato a monte dal prezzo internazionale del petrolio, che ovviamente è un dato per l'esercente che acquista il combustibile, e dal carico fiscale che lo Stato italiano impone sulla benzina; in pratica l'esercente potrà abbassare di qualche centesimo il suo profitto sul litro di combustibile erogato, compensandolo con quello degli altri generi di consumo che vende, ma si tratta di pochi spiccioli di risparmio per l'automobilista) mentre il disagio (ed il costo monetario) di raggiungere fisicamente con la propria auto un minor numero di punti di vendita di combustibile, generalmente collocati all'estrema periferia, o fuori città, peserà sulla clientela. Anche la possibilità, concessa dal decreto, di fare gruppi di acquisto per ridurre prezzo di vendita all'ingrosso del carburante, sembra più che altro acqua fresca rispetto alle tasche ed alla qualità della vita del consumatore finale.
Il capitolo sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, poi, è semplicemente scandaloso. La possibilità di mantenere diritti di esclusiva o la proprietà pubblica per i servizi da parte degli enti locali, dovrà essere sottoposta alla verifica dell'Autorità per la concorrenza che, c'è da giurarci, si pronuncerà sempre negativamente, spingendo per la vendita ai privati. D'altro canto, si abbassa da 900.000 a 200.000 euro il limite del valore del servizio locale entro il quale è possibile continuare a gestire in house, di fatto obbligando gli enti pubblici a privatizzare tutto. Infine, gli stessi enti locali, sottoposti ai rigidi vincoli del patto di stabilità interno, vengono ulteriormente ricattati: la condizione per essere considerato “ente virtuoso”, e quindi per evitare in parte i tagli di spesa derivanti dal patto di stabilità interno, risiede nel privatizzare i propri servizi. Questa spinta alla privatizzazione dei servizi pubblici locali comporta evidenti problematiche, che rivengono dalla sostituzione di un monopolista pubblico con un modello di tipo oligopolistico: non essendovi più un monopolista pubblico, non sarà più possibile né praticare politiche di prezzi sovvenzionati, né politiche di erogazione del servizio agli utenti marginali. I “rami morti”, ovvero i bacini di utenza non più economicamente redditizi, saranno tagliati via dalla fruizione di servizi essenziali, ed inoltre, con l'avvento dei privati, è quasi sicuro che i prezzi dei servizi saranno più alti per coprire costi di investimento e di manutenzione, precedentemente fiscalizzati sull'intera collettività, quando la proprietà era pubblica. D'altra parte, tale settore è già oggi, a livello internazionale, dominato da pochissime imprese di multiutility che operano su scala transnazionale, che si spartiranno, con criteri oligopolistici, il mercato “liberalizzato” dei servizi pubblici locali italiani, senza quindi creare alcuna significativa ricaduta in termini di sviluppo economico per il nostro Paese, e generando tutti i costi sociali dell'oligopolio, associati alle esternalità negative tipiche dei modelli concorrenziali.
La spinta a privatizzare i servizi pubblici locali va di pari passo con quella di due servizi pubblici nazionali essenziali: il servizio postale e quello ferroviario. La privatizzazione di tali servizi comporterà gli stessi fallimenti di mercato già descritti per i servizi pubblici locali (taglio dei rami morti del servizio, rialzo dei prezzi a carico dell'utenza), senza di fatto avere, in cambio, la possibilità di creare mercati realmente concorrenziali. Nel settore ferroviario ed in quello delle Poste, infatti, gli investimenti iniziali per entrare nel mercato sono così alti, che solo pochissimi operatori molto grandi e patrimonializzati, opportunamente sostenuti dalle banche, potranno effettivamente avviare una loro attività. Questi pochissimi operatori potranno quindi creare meccanismi di concorrenza monopolistica, con tutti i costi sociali che tale modello comporta, e che son ostati analizzati in precedenza. Ad esempio, nel settore ferroviario, Montezemolo diverrà monopolista delle singole tratte in cui otterrà la concessione, poiché è impensabile che due operatori possano spartirsi, in modo economicamente redditizio, una singola tratta, per quanto affollata.
In sostanza, il pacchetto-liberalizzazioni di Monti, scritto evidentemente su dettatura dei grandi operatori oligopolistici, non fa che rafforzare le potenzialità di espansione dell'oligopolio in settori quali i servizi pubblici locali e nazionali, sostituendo il modello del monopolista pubblico con quello, ben più dannoso socialmente, della concorrenza monopolistica. Un discorso analogo vale per la liberalizzazione degli esercizi commerciali, che non farà altro che realizzare una concentrazione del settore su poche grandi superfici di vendita, con rendite oligopolistiche ai danni della collettività. La liberalizzazione delle professioni creerà oligopoli che sacrificheranno o l'utenza finale, con un successivo incremento delle tariffe (posto che nel decreto-Monti anche quelle massima son ostate cancellate) oppure gli obiettivi di garantire nuova occupazione decente e ben pagata nel settore dei servizi professionali. Il verificarsi dell'uno o dell'altro dei due possibili costi sociali dipenderà dalle strategie oligopolistiche che i grandi studi commerciali adotteranno: se utilizzeranno o meno il prezzo di esclusione per dissuadere i potenziali neo-entranti sul mercato.
Nel migliore dei casi, come nel caso dei distributori di carburante e delle farmacie, il pacchetto-Monti non “liberalizzerà” un bel niente, perché le condizioni oligopolistiche, in tali settori, si riscontrano a monte, fra i fornitori. Al contrario, ad esempio tramite la previsione di autorizzare i benzinai a vendere altri prodotti (possibilità che solo quelli che partono da condizioni iniziali più favorevoli potranno sfruttare), creerà condizioni oligopolistiche anche nell'unico anello della filiera che è in condizioni concorrenziali, ovvero quello della vendita finale del prodotto.
Di fatto, sembra che le uniche due categorie aperte ad una effettiva maggiore concorrenza, saranno quelle dei tassisti e dei notai. Davvero un risultato modesto per chi, come Monti, si autoproclama un “liberale”. Adam Smith si rivolterebbe nella tomba, caro professore. Sarebbe più dignitoso ammettere onestamente che si stanno servendo gli interessi del capitale oligopolistico e finanziario.
Tale modello, in una fase particolare dello sviluppo capitalistico, è infatti perfettamente funzionale alle esigenze della borghesia, soprattutto perché garantisce una accelerazione nell’accumulazione, soprattutto in settori ad elevata composizione organica del capitale. Inoltre, come già detto, realizza una perfetta fusione fra potere economico e politico, che garantisce il massimo controllo capitalistico dell’intero sistema socio economico. Infine, in termini strettamente economici, il monopolio pubblico produce una tendenza quasi inarrestabile all’inefficienza gestionale ed economica, poiché, anche volendo escludere fenomeni degenerativi come l’appropriazione politica, e non meritocratica, dei vertici dirigenziali delle imprese pubbliche, è comunque teoricamente impossibile stabilire una frontiera entro la quale le perdite di esercizio del monopolista pubblico sono giustificabili in base ad obiettivi di politica sociale (prezzi sussidiati, mantenimento dei rami morti, ma anche, ad esempio, finalità di assorbimento occupazionale in aree territoriali particolarmente svantaggiate) ed oltre la quale sono frutto di pura inefficienza gestionale. Questo perché discriminare fra un’inefficienza giustificabile per fini sociali ed una ingiustificabile è operativamente quasi impossibile. Ecco perché in una determinata fase dello sviluppo capitalistico, quando la pressione competitiva globale aumenta, riducendo il tasso di crescita potenziale dell’economia al di sotto della soglia che garantisce la sopravvivenza del monopolio pubblico, la borghesia avverte la necessità di smantellarlo, non certo per fare spazio alla concorrenza libera, ma per ampliare l’area di influenza dell’oligopolio privato.
Riassumendo: l'avvento dell'oligopolio, e della sua variante (concorrenza monopolistica) tipico dell'attuale fase di evoluzione del capitalismo, produce extra-profitti per i poteri imprenditoriali forti, ai danni della collettività, penalizzata da quantità prodotte inferiori al valore potenziali, e da prezzi più alti. Tale costo sociale non esiste nel modello di concorrenza perfetta, che però non si è mai compiutamente diffuso (rimanendo confinato a pochi casi di studio) e che comunque produce esternalità negative, in termini di fallimenti del mercato. Il modello del monopolio pubblico consente di eliminare sia i fallimenti di mercato connessi al modello concorrenziale puro, sia le perdite di benessere sociale connesse all’oligopolio, ed è quindi il modello socialmente migliore fra quelli che il capitalismo offre, ma presenta una serie di inconvenienti economico-gestionali e costituisce, in una determinata fase, un potente strumento di controllo capitalistico sull’intero sistema socio-economico.
Il decreto-Monti
Tornando all’attualità, dopo il precedente excursus teorico, occorre premettere che è impensabile che un uomo come Monti possa fare una politica che avvicina il modello economico a quello della concorrenza perfetta. E' molto più ovvio che la sua politica tenda a favorire gli oligopoli, sia per la sua estrazione professionale (è un ex uomo della Goldman Sachs) sia, soprattutto, per quanto afferma Hilferding ad apertura del presente articolo, ovvero che la fase finanziaria ed oligopolistica del capitalismo richiede controllo e potere.
Intanto, lo schema di decreto sulle liberalizzazioni contiene disposizioni che niente hanno a che vedere con le liberalizzazioni stesse, ma che tradiscono chiaramente gli intenti degli estensori. Infatti, queste disposizioni sono in realtà mirate a favorire la crescita dimensionale, ovvero una ulteriore concentrazione. In questa chiave va letta la deroga all'art. 18 per le piccole imprese che si fondono fra loro per creare una unità più grande, oppure la definizione del criterio del price cap per le concessioni autostradali. Tale criterio, come è noto, incentiva l'adozione di misure per aumentare la produttività del concessionario, ed ovviamente privilegia i grandi operatori, che possono, tramite economie di scala ed investimenti adeguati, resi possibili da un grado di capitalizzazione più alto, ottenere incrementi significativi del fattore di produttività, in modo più incisivo di quanto possano fare i piccoli. Ciò si traduce in guadagni di redditività estratta dalle concessioni autostradali tendenzialmente crescenti al crescere della dimensione organizzativa e patrimoniale dei concessionari.
Dopodiché, nel dettaglio degli interventi, si prevede la liberalizzazione della possibilità, per gli esercizi commerciali, di praticare sconti, promozioni o vendite promozionali. Si tratta di un provvedimento mirato evidentemente a scatenare guerre commerciali sul prezzo, tali da indurre molti piccoli negozi ad abbandonare il mercato (perché ovviamente in una guerra di prezzi, gli esercizi della grande distribuzione organizzata, in virtù di una maggiore capitalizzazione, di una migliore possibilità di accedere al credito bancario, di una maggiore forza contrattuale con i fornitori, possono resistere un giorno in più rispetto ai piccoli negozi). Il risultato probabile sarà quello di incrementare il peso della GDO. Se nel breve periodo i consumatori avranno dei benefici dalla lotta sul prezzo, nel medio periodo si accentuerà il processo già in atto di concentrazione del commercio su un limitato numero di grandi superfici, rafforzando quindi i meccanismi oligopolistici. Quando la guerra dei prezzi sarà finita, i pochi oligopolisti della GDO che si saranno conquistati gli spazi di mercato abbandonati dalla piccola distribuzione (con la rovina economica di migliaia di famiglie piccolo borghesi) potranno, esattamente come succede negli Usa, che sono molto più avanti di noi nel processo di riorganizzazione oligopolistica della rete distributiva, spartirsi i bacini commerciali, ingaggiando quindi una competizione oligopolistica basata sulla quantità, simile al modello di Cournot che, come è noto, conduce ad un equilibrio-Nash nel quale si verificano gli stessi costi sociali del modello oligopolistico generale studiato sopra: i costi di acquisto dai fornitori primari saranno più bassi per la GDO, mentre solo in parte i prezzi di vendita finali beneficeranno del risparmio conseguito a monte nei confronti dei fornitori. Ne conseguirà che la catena complessiva del valore, nelle filiere, si sposterà a favore delle grandi superfici di vendita, ai danni dei fornitori (quindi anche di migliaia di piccoli agricoltori) e dei consumatori finali. La progressiva scomparsa del piccolo negozio di vicinato comporterà un aumento della congestione nei grandi centri commerciali, con tutti i costi ambientali (traffico, inquinamento, poiché non sarà più possibile, per molti, fare la spesa senza prendere l'auto per recarsi ad un centro commerciale non di rado lontano dalla propria abitazione) e sociali che ne conseguono.
Un ragionamento non molto dissimile riguarda il tema della cancellazione delle tariffe minime e massime per i servizi professionali. In questo caso, la competizione di prezzo che ne deriverà favorirà i grandi studi professionali, che per le loro dimensioni possono fruire di economie di scala ed offrire sconti alla clientela. Se questa ne beneficerà in un primo momento, nel medio periodo si verificherà una riduzione della concorrenza, perché i grandi studi professionali fagociteranno i piccoli, e con ciò stesso i prezzi e le tariffe saranno nuovamente rialzati, erodendo il guadagno iniziale ottenuto dai consumatori (d'altra parte, anche il limite superiore alle tariffe, oggi vigente a beneficio dei clienti, sarà scomparso). Alternativamente, potrà anche verificarsi che gli studi professionali in oligopolio tengano relativamente basso il prezzo dei loro servizi, applicando il criterio del prezzo di esclusione studiato nei modelli oligopolistici di Sylos Labini (ovvero un prezzo sufficientemente basso da scoraggiare l'ingresso di nuovi competitors sul mercato). Ma in questo caso, se è vero che il consumatore di servizi professionali continuerebbe a godere di tariffe più basse di quelle attuali, verrebbe sconfessato un altro degli obiettivi sociali dichiarati nel decreto-Monti, ovvero l'incremento dell'occupazione nel settore dei servizi professionali. Infatti, il meccanismo del prezzo di esclusione impedirebbe a nuovi professionisti di entrare nel mercato, se non come dipendenti dei grandi studi già affermati, con livelli salariali modesti (il meccanismo del prezzo di esclusione regge se i costi sono bassi). Si ripeterebbe cioè il meccanismo estremamente competitivo tipico dei servizi professionali negli Usa, dove i dipendenti sono sottopagati e costretti a lavorare molto duramente, nella speranza (per moltissimi del tutto vana) di divenire, un giorno, soci dello studio. In ogni caso, quindi, che il prezzo salga o rimanga basso, il consolidamento di un sistema oligopolistico nel settore dei servizi professionali non sembra produrre rilevanti benefici sociali alla collettività nel suo insieme (sia questa quella dei consumatori di tali servizi, oppure dei giovani che ambiscono ad una carriera come professionisti).
Rispetto alla liberalizzazione delle farmacie e dei distributori di carburante, il problema è che l'oligopolio, in tali settori, è a monte, fra i fornitori, per cui l'aumento del numero di farmacie o la possibilità di rifornirsi da fornitori di carburante diversi da quello dell'insegna non comporterà alcuna significativa riduzione del prezzo (se non per alcuni prodotti parafarmaceutici, ma in questo caso ci sono già le parafarmacie). In questo caso, la valenza del provvedimento è solo in un limitato aumento dell'occupazione di nuovi farmacisti. Nel settore dei distributori di benzina, la possibilità concessa di aprire rivendite alimentari, di giornali, tabacchi ecc. crea di fatto barriere all'entrata simili al modello di Bain. Come è noto, in tale modello la barriera all'ingresso di nuovi competitors sul mercato non è basata su un prezzo di esclusione, come in Sylos Labini, ma sulla possibilità di effettuare investimenti per diversificare l'offerta aziendale, arricchire la gamma, innovare. Ovviamente solo i più grandi e capitalizzati possono effettuare tali investimenti, possono ottenere dalle banche il credito necessario, ecc. Di fatto, quindi, la possibilità di diversificare l'offerta, dalla vendita di soli carburanti a quella di altri generi merceologici, pressoché infinita, come appare dalla bozza di decreto, finirà per favorire gli imprenditori più capitalizzati, espellendo dal mercato quelli che non possono effettuare investimenti simili, o che sono posizionati in aree dove la diversificazione merceologica non è conveniente, o che hanno una superficie di vendita troppo piccola, e non facilmente ampliabile (si pensi ad es. ai distributori di carburante localizzati nei centri storici delle città). Come già si verifica in molti Paesi europei che hanno adottato questo modello, l'offerta di combustibili si concentrerà su un numero ristretto di esercizi, veri e propri “drugstore” all'americana, generalmente posti alle periferie delle città, non si avrà un significativo calo del prezzo della benzina (perché in buona misura determinato a monte dal prezzo internazionale del petrolio, che ovviamente è un dato per l'esercente che acquista il combustibile, e dal carico fiscale che lo Stato italiano impone sulla benzina; in pratica l'esercente potrà abbassare di qualche centesimo il suo profitto sul litro di combustibile erogato, compensandolo con quello degli altri generi di consumo che vende, ma si tratta di pochi spiccioli di risparmio per l'automobilista) mentre il disagio (ed il costo monetario) di raggiungere fisicamente con la propria auto un minor numero di punti di vendita di combustibile, generalmente collocati all'estrema periferia, o fuori città, peserà sulla clientela. Anche la possibilità, concessa dal decreto, di fare gruppi di acquisto per ridurre prezzo di vendita all'ingrosso del carburante, sembra più che altro acqua fresca rispetto alle tasche ed alla qualità della vita del consumatore finale.
Il capitolo sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali, poi, è semplicemente scandaloso. La possibilità di mantenere diritti di esclusiva o la proprietà pubblica per i servizi da parte degli enti locali, dovrà essere sottoposta alla verifica dell'Autorità per la concorrenza che, c'è da giurarci, si pronuncerà sempre negativamente, spingendo per la vendita ai privati. D'altro canto, si abbassa da 900.000 a 200.000 euro il limite del valore del servizio locale entro il quale è possibile continuare a gestire in house, di fatto obbligando gli enti pubblici a privatizzare tutto. Infine, gli stessi enti locali, sottoposti ai rigidi vincoli del patto di stabilità interno, vengono ulteriormente ricattati: la condizione per essere considerato “ente virtuoso”, e quindi per evitare in parte i tagli di spesa derivanti dal patto di stabilità interno, risiede nel privatizzare i propri servizi. Questa spinta alla privatizzazione dei servizi pubblici locali comporta evidenti problematiche, che rivengono dalla sostituzione di un monopolista pubblico con un modello di tipo oligopolistico: non essendovi più un monopolista pubblico, non sarà più possibile né praticare politiche di prezzi sovvenzionati, né politiche di erogazione del servizio agli utenti marginali. I “rami morti”, ovvero i bacini di utenza non più economicamente redditizi, saranno tagliati via dalla fruizione di servizi essenziali, ed inoltre, con l'avvento dei privati, è quasi sicuro che i prezzi dei servizi saranno più alti per coprire costi di investimento e di manutenzione, precedentemente fiscalizzati sull'intera collettività, quando la proprietà era pubblica. D'altra parte, tale settore è già oggi, a livello internazionale, dominato da pochissime imprese di multiutility che operano su scala transnazionale, che si spartiranno, con criteri oligopolistici, il mercato “liberalizzato” dei servizi pubblici locali italiani, senza quindi creare alcuna significativa ricaduta in termini di sviluppo economico per il nostro Paese, e generando tutti i costi sociali dell'oligopolio, associati alle esternalità negative tipiche dei modelli concorrenziali.
La spinta a privatizzare i servizi pubblici locali va di pari passo con quella di due servizi pubblici nazionali essenziali: il servizio postale e quello ferroviario. La privatizzazione di tali servizi comporterà gli stessi fallimenti di mercato già descritti per i servizi pubblici locali (taglio dei rami morti del servizio, rialzo dei prezzi a carico dell'utenza), senza di fatto avere, in cambio, la possibilità di creare mercati realmente concorrenziali. Nel settore ferroviario ed in quello delle Poste, infatti, gli investimenti iniziali per entrare nel mercato sono così alti, che solo pochissimi operatori molto grandi e patrimonializzati, opportunamente sostenuti dalle banche, potranno effettivamente avviare una loro attività. Questi pochissimi operatori potranno quindi creare meccanismi di concorrenza monopolistica, con tutti i costi sociali che tale modello comporta, e che son ostati analizzati in precedenza. Ad esempio, nel settore ferroviario, Montezemolo diverrà monopolista delle singole tratte in cui otterrà la concessione, poiché è impensabile che due operatori possano spartirsi, in modo economicamente redditizio, una singola tratta, per quanto affollata.
In sostanza, il pacchetto-liberalizzazioni di Monti, scritto evidentemente su dettatura dei grandi operatori oligopolistici, non fa che rafforzare le potenzialità di espansione dell'oligopolio in settori quali i servizi pubblici locali e nazionali, sostituendo il modello del monopolista pubblico con quello, ben più dannoso socialmente, della concorrenza monopolistica. Un discorso analogo vale per la liberalizzazione degli esercizi commerciali, che non farà altro che realizzare una concentrazione del settore su poche grandi superfici di vendita, con rendite oligopolistiche ai danni della collettività. La liberalizzazione delle professioni creerà oligopoli che sacrificheranno o l'utenza finale, con un successivo incremento delle tariffe (posto che nel decreto-Monti anche quelle massima son ostate cancellate) oppure gli obiettivi di garantire nuova occupazione decente e ben pagata nel settore dei servizi professionali. Il verificarsi dell'uno o dell'altro dei due possibili costi sociali dipenderà dalle strategie oligopolistiche che i grandi studi commerciali adotteranno: se utilizzeranno o meno il prezzo di esclusione per dissuadere i potenziali neo-entranti sul mercato.
Nel migliore dei casi, come nel caso dei distributori di carburante e delle farmacie, il pacchetto-Monti non “liberalizzerà” un bel niente, perché le condizioni oligopolistiche, in tali settori, si riscontrano a monte, fra i fornitori. Al contrario, ad esempio tramite la previsione di autorizzare i benzinai a vendere altri prodotti (possibilità che solo quelli che partono da condizioni iniziali più favorevoli potranno sfruttare), creerà condizioni oligopolistiche anche nell'unico anello della filiera che è in condizioni concorrenziali, ovvero quello della vendita finale del prodotto.
Di fatto, sembra che le uniche due categorie aperte ad una effettiva maggiore concorrenza, saranno quelle dei tassisti e dei notai. Davvero un risultato modesto per chi, come Monti, si autoproclama un “liberale”. Adam Smith si rivolterebbe nella tomba, caro professore. Sarebbe più dignitoso ammettere onestamente che si stanno servendo gli interessi del capitale oligopolistico e finanziario.
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