di Norberto Fragiacomo
La recente bocciatura, da parte di S&P, di economie prestigiose quali l’Austria e (soprattutto) la Francia, e l’ennesimo declassamento del nostro Paese – ormai rassegnatamente sulle piste di Portogallo e Grecia – hanno ravvivato il dibattito tra economisti e commentatori. Su “Il Fatto Quotidiano”, Vladimiro Giacché fa notare che è la stessa società di rating ad imputare la perdita del segno più dietro l’ultima “A” rimastaci all’assenza di misure per la crescita dell’economia; in un’intervista a “Il Piccolo” di Trieste (15 gennaio), Loretta Napoleoni va oltre, e bacchetta severamente il Governo Monti: “L’austerità non convince i mercati. La riforma del lavoro va fatta, ma senza cancellare i diritti. Qui bisogna riformare tutta l’economia italiana con un’ampia redistribuzione del reddito invece di tagliare i salari. Perché non si è fatta la patrimoniale? L’Europa è il malato del mondo e i mercati pensano che sarà l’Italia a far deflagrare il sistema Euro”. Sottoscriviamo con convinzione l’appello dell’illustre studiosa, non le sue conclusioni: ritenere che i “mercati” ci puniscano per il taglio delle pensioni e l’aumento dell’IVA equivale a confondere il lupo cattivo con un grazioso pechinese. Monti, e Berlusconi prima di lui, hanno seguito alla lettera le indicazioni della BCE, che prevedono, tra l’altro, la cancellazione dei diritti e il taglio dei salari (pubblici); non ci consta, invece, che nella famigerata missiva agostana si caldeggiassero patrimoniali o francescane distribuzioni di ricchezza. Se si considera che BCE e FMI vanno ovunque d’amore e d’accordo, e che gli esponenti di punta delle due istituzioni risultano variamente collegati al mondo della finanza e delle banche d’affari (in cui le tre sorelle del rating nascono e si sviluppano), tocca concludere che la “frugalità” è l’unica ricetta che ai finanzieri piace prescrivere. Che poi essa funzioni o meno è un altro paio di maniche - intanto, indebolisce il malato, e lo pone alla mercé di specialisti che, sospettiamo, neppure auspicano un pieno ristabilimento. Prima di dar credito all’interessata menzogna della “saggezza” o addirittura della “benevolenza” dei merca(n)ti, conviene ricordarsi di quante volte, in periodi precedenti alla crisi, le borse abbiano reagito con ripugnante esultanza alla notizia di una nuova ondata di licenziamenti.
Com’è noto, le motivazioni si lasciano scrivere: se, per assurdo, Monti avesse varato una manovra equa e non recessiva, altre (magari opposte) ragioni sarebbero state addotte per giustificare il voto negativo. Al gioco delle tre carte il popolo “sovrano” perde sempre.
Nel caso di specie, perde pure l’Europa, oramai irrimediabilmente spaccata: la sottrazione della tripla A ha sprofondato la Francia nella depressione, e il giudizio “incauto” di Angela Merkel è un pieno di benzina gettato sul fuoco. Quel “ce l’aspettavamo” ha doppio uso, esterno ed interno: da un lato, si rimarca la distanza siderale tra la santa Germania – che ha conservato la tripla A – e i Paesi europei spendaccioni; dall’altro, si manda un messaggio chiaro all’elettorato tedesco, che non ha nessuna voglia di sacrificarsi per i greci, gli italiani e (in prospettiva) i francesi. Almeno nel breve periodo, la strategia della Lehrerin venuta dall’est appare vincente: dopo un’interminabile serie di batoste alle amministrative, la CDU è tornata prepotentemente a crescere, e gli ultimi sondaggi assegnano alla coalizione al governo il 41% dei suffragi, contro il misero 26% della SPD europeista. Frau Nein rischia però di regnare sulle macerie: la rottura dell’asse con Parigi implica il crollo del traballante edificio europeo e, in via generale, il disimpegno germanico produrrà astio e legittimo risentimento verso il popolo che più di ogni altro ha tratto beneficio dall’introduzione, dieci anni fa, della moneta unica. Per quanto l’Unione monetaria sia un aborto, essa ha favorito, indirettamente, il formarsi di legami di amicizia e “simpatia” tra i popoli del Vecchio Continente: il regresso ad un clima di contrapposizione, sospetti e rivendicazioni reciproche spianerebbe la strada a soluzioni di tipo ungherese, e forse, addirittura, ad una balcanizzazione dell’Europa. In condizioni di diffusa povertà e frustrazione, non sarebbe impossibile a demagoghi senza scrupoli riattizzare un focherello, quello del nazionalismo, che cova sotto la cenere di una pace raggiunta a caro prezzo. Cui prodest? Agli europei no di certo… Va soggiunto che l’intransigenza della cancelliera, oltre a suscitare spiacevoli sentimenti antitedeschi, potrebbe nuocere, a lungo andare, alla stessa Repubblica Federale che, orbata dei mercati di sbocco, precipiterebbe, buona ultima, in una crisi non meno devastante di quelle greca od italiana.
Venerdì prossimo, a Roma, è in programma un vertice tra Monti, Sarkozy e la Merkel: potrebbe essere l’occasione per una ricucitura, o per un strappo definitivo, anche se appare maggiormente plausibile un nulla di fatto.
La prognosi per il grande “malato del mondo” è dunque infausta: al pericolo di un’implosione e di un impoverimento generalizzato delle classi subalterne si aggiungono le preoccupazioni relative ad una possibile recrudescenza dei nazionalismi (magari “straccioni”, come quello ungherese).
Il crollo della SPD nelle intenzioni di voto è indice di un’oggettiva difficoltà della sinistra a livello europeo: da una parte, essa paga la propria “ragionevolezza” – poco apprezzata in periodi di isteria – dall’altra, il costante ondeggiare tra proposte più o meno forti di regolamentazione dei mercati e la sconsolata accettazione del modello liberista, un compagno che, passato l’innamoramento, non si ha comunque il coraggio di lasciare.
In Italia va anche peggio, perché il campo progressista è irrimediabilmente lacerato in una miriade di partitini l’un contro l’altro armati.
Il PD è ascrivibile al campo della sinistra solo in ragione delle sue origini (parzialmente) comuniste – in verità, è nave senza nocchiere in gran tempesta che, pur puntando vagamente al centro, si accontenta oggi come oggi di galleggiare, nella speranza che, prima o dopo, il vento cali. Che in un movimento vi siano posizioni e sensibilità differenti è fisiologico, ma il Partito Democratico è all’opposizione di se stesso su ogni questione significativa, dal diktat della BCE all’articolo 18, dalla materia dei diritti civili alla scelta delle alleanze. L’anima di sinistra, impersonata da Fassina, Cofferati, Orfini e pochi altri (ma, verisimilmente, dalla maggioranza degli elettori), è sopportata a fatica da moderati di ogni provenienza, impegnati quotidianamente a bisticciare tra loro per ragioni personali prima ancora che politiche. Mandato momentaneamente a casa Berlusconi (da altri), il segretario Bersani prova a non esporsi e a sopire le snervanti polemiche, ma la sua linea politica a zigzag scontenta tutti. La sensazione che il partito trasmette è d’impotenza, e la rinnovata intesa tra Berlusconi e Bossi potrebbe viepiù indebolire la già scarsa influenza del PD sulle politiche governative.
La nascita di SeL e, più tardi, la cavalcata primaverile nei sondaggi suscitarono entusiasmi tosto spentisi: difficilmente Sinistra Ecologia e Libertà potrà ambire, in una ipotetica coalizione di centro-sinistra, ad un ruolo paragonabile a quello (bene o male) giocato, nel decennio 1996-2006, da Rifondazione Comunista. Non è solo questione di seguito elettorale. “Straripante” oratore, Nichi Vendola non è stato in grado di elaborare un progetto politico chiaro e convincente, accontentandosi, infine, di coprire a sinistra uno schieramento centrista tutto da inventare. Partito con l’(apparente) ambizione di unificare la sinistra, il Presidente pugliese ha ostentatamente rifiutato il dialogo con i comunisti, bollandoli come “sinistra radicale”, e – sfoggiando il suo riformismo nuovo di zecca - ha cercato contatti con le forze moderate. Raramente alle parole son seguiti i fatti: la volontà, sbandierata innumerevoli volte, di aderire al PSE è finora rimasta tale, e la contrarietà espressa alle misure varate da Monti stenta a tradursi in una critica al PD, che viene anzi blandito. Manca una precisa visione del futuro, sostituita dalla ricorrente richiesta di elezioni precedute da primarie di coalizione (il tempo non lavora per una candidatura Vendola) – in buona sostanza, non si tiene conto dell’eccezionalità dell’emergenza, e si affronta la crisi a colpi di endecasillabi. Secondo L’Espresso, ultimamente la condotta di Nichi avrebbe suscitato malumori nel “padre nobile” Fausto Bertinotti e in taluni dirigenti (Alfonso Gianni, la Sentinelli ecc.) propensi, invece, ad un’apertura alle forze della sinistra c.d. massimalista: certo, per raggiungere l’autosufficienza non basta il 5-6% del voto popolare.
La funzione aggregatrice inizialmente rivendicata da SeL potrebbe, forse, venire ereditata dalla Federazione della Sinistra – che però, nonostante i proclami, non esiste ancora. Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani mantengono la loro individualità e, soprattutto, paiono avere obiettivi parzialmente diversi. Il PdCI preme per la ricostituzione di un partito comunista unitario, disponibile ad alleanze sul modello ulivista; Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, guarda con interesse ai movimenti sorti spontaneamente nel 2011, e immagina una saldatura di forze politiche, sindacali e sociali in un fronte anticapitalista. Persuaso – come noi – che la situazione stia precipitando, non si attende la salvezza da future elezioni. Va riconosciuto che entrambi i partiti si sono mostrati aperti al dialogo (se quello con Vendola non è mai partito, la responsabilità è del governatore), ed hanno contribuito più di altri all’organizzazione di iniziative contro la dittatura della finanza, culminate nella sfortunata manifestazione del 15 ottobre a Roma.
Il piccolo Partito Socialista, pungolato dalla combattiva sinistra interna, sembra essere passato dal sostegno totale (“casiniano”) all’esecutivo Monti ad una posizione velatamente critica: dopo aver domandato invano equità e patrimoniale, Riccardo Nencini, al principio di dicembre, ha addirittura ventilato la possibilità che l’unico parlamentare socialista dicesse no alla manovra “Salva Italia”. Tanto tuonò, che non piovve: alla fine, Vizzini ha votato sì, insieme agli ex “compagni” del PDL. Le scuse sono quelle solite: senso di responsabilità ecc. ecc. Prospettive? Ben che vada, la sopravvivenza e una manciata di poltrone.
Invero, l’opposizione più efficace a Monti viene dall’interno del sindacato CGIL, e segnatamente dalla FIOM e dai pensionati. I metalmeccanici, in particolare, sono stati tra i protagonisti delle dimostrazioni autunnali, e vantano leader capaci e popolari, primi fra tutti Maurizio Landini e Giorgio Cremaschi. Attualmente, mentre Landini si limita a fare (benissimo) il sindacalista, il Presidente della FIOM sta tentando di dar vita ad un’opposizione di sistema attraverso il Comitato NO DEBITO cui aderiscono, oltre a varie realtà organizzate della sinistra italiana, personalità di spicco dell’economia e della cultura. La scommessa è quella di superare il frazionamento esistente.
Non facciamo pronostici sulla riuscita, ma approviamo il percorso scelto – anche perché mancano alternative valide. Attenzione: lo scopo non è, e non può essere un cartello elettorale, una Sinistra Arcobaleno riveduta e corretta; l’unione (o il patto federativo) non serve a tornare in parlamento, o ad inserire qualche punto e virgola nel programma del PD – serve a suscitare, in chi si oppone ai sacrifici, un senso di appartenenza, una coscienza comune da spendere in piazza. A tal fine è indispensabile un progetto di ristrutturazione della società, che sia chiaro, comprensibile e condiviso – non le fantasticherie di una setta, ma soluzioni ragionevoli ai problemi più scottanti.
Opiniamo che i cinque punti individuati dal Comitato NO DEBITO (moratoria e/o dilazione del pagamento del debito, riduzione delle spese militari, tutela dei beni comuni minacciati, difesa ed ampliamento dei diritti dei lavoratori, valorizzazione degli istituti democratici) siano una buona base di partenza.
In fondo, più che di cattivarsi le segreterie, si tratta di persuadere le masse consapevoli che l’unica alternativa alla servitù finanziaria è la mobilitazione – perché, come ci insegna Eric Hobsbawm, il capitalismo scende a patti solo quando ha “paura”.
Spetta agli europei alzare tutti insieme la testa: non saremo la “seconda potenza mondiale” (figurarsi!), ma un’azione decisa e ben coordinata potrebbe anche permetterci di superare l’inverno.
Trieste, Lunedì 16 Gennaio 2012
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