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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 2 gennaio 2015

JOBS ACT: UNO SCIACALLO SI AGGIRA (SVELTO) PER L’ITALIA di Norberto Fragiacomo




JOBS ACT: 
UNO SCIACALLO SI AGGIRA (SVELTO) PER L’ITALIA
di
Norberto Fragiacomo





Come suggerito anche dal nome, l’anima del Jobs Act è un thatcherismo violento, ma ipocrita, subdolo, ammiccante e acrimonioso, che somiglia come una goccia d’acqua al premier più a destra della storia repubblicana.Lo “schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comparso sul sito del governo la vigilia di Natale, sarà fatto sparire e riscritto come d’abitudine renziana, ma mente già con il titolo: un commentatore ha fatto notare che, nel testo, la parola “licenziamento” ricorre 24 volte, il termine “tutele” appena tre – un freddo dato numerico che la dice lunga sui reali intendimenti del legislatore.

D’altra parte, che Matteo Renzi sia uno sceriffo di Nottingham (al servizio di Sua Maestà la Finanza) sconciamente travestito da Robin Hood è evidente da un pezzo a chi non sia cieco o venduto; mi limito perciò a proporre un rapido raffronto tra la disciplina “storica” dei licenziamenti e le novità apportate da un decreto che prima o dopo assumerà forma definitiva.

C’era una volta una sinistra riformista e responsabile, che però era sinistra sul serio: faceva del suo meglio per difendere la dignità della classe lavoratrice ed elevarne le condizioni di vita, e nel 1970 regalò all’Italia lo Statuto dei lavoratori che assicurava, nell’eventualità di licenziamento illegittimo, il reintegro del dipendente e un pieno ristoro economico. Una volta riconosciuta la mancanza della giusta causa (un comportamento, anche esterno all’azienda, che minasse la fiducia datoriale nei confronti del lavoratore) o del giustificato motivo soggettivo (un inadempimento contrattuale) od oggettivo (ad es., una ristrutturazione d’azienda), il giudice annullava il licenziamento. A questo punto la vittima del sopruso padronale, già indennizzata per il periodo di forzosa immobilità1, poteva liberamente scegliere tra la ripresa del lavoro (mantenendo anzianità, diritti ecc.) e un addio addolcito dalla liquidazione di ulteriori quindici mensilità. Il principale difetto dell’intervento normativo era la mancata estensione della c.d. tutela reale alle piccole imprese, ma rispetto al passato si trattava di un gigantesco passo avanti. L’ultimo.

Appena due anni fa Coccodrilla Fornero ha smantellato questo sistema di protezioni, liberalizzando di fatto il recesso per motivi economici (vedi Prime note su quel che resta dell'art.18) e limitando drasticamente le ipotesi di reintegro in caso di licenziamento disciplinare. Il giudice può ancora disporlo in presenza di una delle seguenti condizioni: 1) il fatto addebitato non sussiste; 2) il lavoratore non lo ha commesso2; 3) per il fatto contestato risulta prevista dai contratti collettivi una sanzione meno grave. E’ venuto meno, in sostanza, il principio secondo il quale imprenditore e dipendente hanno pari dignità; malgrado roboanti e menzognere dichiarazioni, inoltre, l’ammontare degli indennizzi concretamente previsti calava.
Al padronato tutto questo non bastava – e dunque Renzi per farsi bello agli occhi dei suoi sponsor ha rimesso mano alla disciplina, accanendosi come uno sciacallo politico sulla carcassa dell’articolo 18.

Diamo un’occhiata all’articolato provvisorio: l’articolo 1 stabilisce che la disciplina si applica ai lavoratori assunti a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, nonché a quelli delle piccole imprese diventate “grandi” (superamento dei 15 dipendenti) grazie al Jobs Act, indipendentemente dalla data di assunzione. Nella visione renziana l’impresa può crescere, le tutele mai.

L’articolo 2 non vale la carta su cui è scritto, mentre l’articolo 3 merita attenzione. Si dispone che in caso di licenziamento illegittimo per assenza di giusta causa o di giustificato motivo il giudice, preso atto dell’estinzione del rapporto, condanni il datore al pagamento di una somma variabile tra quattro e ventiquattro mensilità retributive. In soldini: l’illegittimità degrada a mera irregolarità, perché viene meno la possibilità di annullamento e l’imprenditore se la cava con un pagamento di modesto ammontare a titolo di sanzione. Unica eccezione alla regola (2° comma): se il dipendente riesce a dimostrare “direttamente” (?) in giudizio «l’insussistenza del fatto materiale contestato(gli)» avrà diritto alla reintegrazione e (eventualmente) ad un’indennità. Ricapitolando: delle due ipotesi di reintegro esplicitate dalla Legge Fornero (tre, se si considera anche quella rimasta nella penna) ne resta una soltanto, la numero 1). Esempio: il dipendente viene licenziato perché accusato di rapina (giusta causa) o per aver pesantemente insultato il superiore od essersi assentato senza giustificazione dall’ufficio (giustificato motivo soggettivo) – sarà salvo se in grado di provare che l’evento non si è verificato, cioè che la rapina non ha avuto luogo o che quel dato giorno tutti erano presenti in ufficio. Attenzione: se invece la rapina è avvenuta ma è stata commessa da altri o se ad aggredire il dirigente è stato Tizio anziché Caio, ingiustamente accusato, versiamo nell’ipotesi numero 2) (“il lavoratore non ha commesso il fatto”). Niente reintegra, quindi? Il testo renziano pare furbescamente escluderla, ma si tratterebbe di scelta così irragionevole da cozzare contro l’articolo 3 della Costituzione: è probabile, pertanto, che in siffatte eventualità i giudici ordineranno comunque la reintegrazione, fingendo che quella del legislatore sia stata una nuova, involontaria dimenticanza (non lo è: è un imbroglio bello e buono, anche se malamente architettato e goffamente attuato). Più insidioso è l’inciso «resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento», non superabile in via interpretativa: si elimina il terzo appiglio concesso dalla controriforma Fornero, col risultato che d’ora in avanti il padrone sarà libero di espellere il lavoratore per mancanze lievissime, tipo un ritardo in entrata di dieci minuti, liquidandolo (letteralmente, visti i tempi che corrono!) con una manciata di euro. Ecco spiegato il ripristino del controllo a distanza anche con strumenti informatici: per il lavoratore, perennemente sotto ricatto, sarà rischioso persino rispondere al cellulare e andare al bagno. Tutele crescenti? Risparmiaci lo spirito, fiorentino: d’una tutela, in questo decreto, è assente perfino l’ombra.

Altre chicche: nell’eventualità di un recesso datoriale immotivato o irrispettoso delle procedure di cui all’articolo 7 della legge 300/1970 (non vuoti formalismi, bensì la garanzia del diritto di autodifesa in sede disciplinare!) l’impresa scucirà dalle due (!) alle dodici mensilità (art. 4); fa capolino un invito, rivolto al dipendente dal legislatore, ad accettare una mancia anziché ricorrere al giudice (art. 6); assistiamo al dimezzamento per i piccoli imprenditori delle già magre indennità da versare (art. 9, 1° comma) e all’estensione della disciplina alle c.d. organizzazioni di tendenza (partiti politici, associazioni culturali, organizzazioni religiose ecc. - art. 9, 2° comma), che prima erano sottratte – non del tutto immotivatamente - all’ambito dell’articolo 18: un dispettuccio ai sindacati in puro stile renziano.

Molto più impattante sulla vita di milioni di impiegati ed operai è l’articolo 10, dedicato ai licenziamenti collettivi3. La normativa vigente, che risale – nella formulazione originaria - ai primi anni ’90 (L. 223/1991), prevede l’attivo coinvolgimento dei sindacati nelle decisioni aziendali ed il rispetto di precisi criteri di scelta dei licenziandi (anzianità, carichi di famiglia, esigenze tecnico-produttive ed organizzative); la violazione delle suddette regole invalidava il licenziamento.

Con la famigerata Legge 92/2012 il duo Monti-Fornero ha intorbidato le acque, facendo criptici riferimenti all’articolo 18 riformulato; Renzi taglia come d’abitudine la testa al toro, sancendo che il rapporto è comunque estinto dietro corresponsione di una somma variabile tra le 4 e le 24 mensilità. Caro imprenditore – sembra ammiccare il nostro – tu l’accomodamento non l’hai cercato neppure per un istante, birbaccione, e hai gettato sul lastrico chi aveva più bisogno di lavorare: nessun problema, hai fatto bene… perché tu sei un eroe, il mio eroe! Secondo l’opinione del premier i diritti sono l’equivalente di lacci e lacciuoli… qualcuno potrebbe sorprendersi allora del fatto che i giornali berlusconiani continuino pervicacemente ad intestargli una misteriosa “sinistra popolare” (Il Giornale), o che il detestabile Sacconi lo attacchi sulla riforma “da destra”. Niente di clamoroso, invece: si chiama gioco delle parti. Sacconi, Alfano e gli altri mestieranti del NCD fingono di attaccare il premier per rafforzarlo, attribuendogli un’assurda visione “di sinistra” elettoralmente spendibile4; al contempo, sparandola grossa tentano di convincere gli italiani destrorsi della propria esistenza ed “utilità”. L’oppositore fasullo Berlusconi fa lo stesso: punzecchia Renzi per rispettare il copione, ma si guarda bene dall’ostacolare colui che, in questo momento, gli appare come “l’unto dei mercati” (e il garante della sua sopravvivenza politico-economica). I berlusconiani in servizio attivo e in naftalina sono preziosi alleati di Renzi, quindi, ma anche della c.d. minoranza PD: il respingimento delle velleitarie proposte vandeane d’un Sacconi corrobora la fiction mediatica di un Presidente del Consiglio “mediatore” ed è motivo di giubilo per lo svergognato Speranza, degno erede del bersanismo.

Meschine contorsioni di teatranti, che non possono celare l’oscenità di una controriforma rabbiosa, raffazzonata, mal scritta e classista – l’unica che ci si può aspettare da un personaggio che, ai tempi della sinistra vera, sarebbe stato additato senza esitazioni come un dilettante ambizioso, grossolano e reazionario. La politica asservita al neoliberismo non sa, a quanto pare, esprimere nulla di meglio: l’egemonia culturale è – oggi – rozza incultura.

PS: l’applicabilità del pastrocchio alla P.A. è un falso problema, direi. Per i licenziamenti economici esiste già una disciplina ad hoc, che verrà presto peggiorata; quanto ai licenziamenti disciplinari, il riconoscimento della loro illegittimità/irregolarità esporrebbe l’amministrazione ad un esborso e – di conseguenza – colui che li ha comminati ad una responsabilità per danno erariale. Ma non temete, pennivendoli arrabbiati col calendario che, per il 2014, ha abbinato Natale e S. Stefano ad un giovedì e a un venerdì: gli scandalosi “privilegi” dei travet pubblici sono in via di estinzione, assieme – come’è noto – ai loro stipendi. Ai pensionati, invece, penserà Boeri, che scambia per oro – da offrire ai mercati senza patria – assegni mensili da duemila euro lordi.


NOTE

1 Con un minimo di 5 mensilità che, nell’ipotesi di pause prolungate, potevano essere molte di più!

2 Così, unanimemente, i commentatori; nel testo, tuttavia, il riferimento manca.

3 Ai sensi della Legge 223/91 si parla di licenziamenti collettivi quando l’impresa intende ridurre il personale di almeno 5 unità nell’arco di 120 giorni causa riduzione, trasformazione o cessazione dell’attività.


4 Anche perché su questo fronte il parolaio toscano è in costante affanno: quando asserisce, con una punta di comprensibile disagio, di essere “di sinistra” può sfoggiare, come unico argomento a favore, l’elemosina degli 80 euro (argomento di per sé deboluccio, visto che la Sinistra autentica riconosce diritti, non fa la carità).



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