JOBS
ACT:
UNO SCIACALLO SI AGGIRA (SVELTO) PER L’ITALIA
di
Norberto
Fragiacomo
Come
suggerito anche dal nome, l’anima del Jobs Act è un thatcherismo
violento, ma ipocrita, subdolo, ammiccante e acrimonioso, che
somiglia come una goccia d’acqua al premier più a destra della
storia repubblicana.Lo
“schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comparso sul sito
del governo la vigilia di Natale, sarà fatto sparire e riscritto
come d’abitudine renziana, ma mente già con il titolo: un
commentatore ha fatto notare che, nel testo, la parola
“licenziamento” ricorre 24 volte, il termine “tutele” appena
tre – un freddo dato numerico che la dice lunga sui reali
intendimenti del legislatore.
D’altra
parte, che Matteo Renzi sia uno sceriffo di Nottingham (al servizio
di Sua Maestà la Finanza) sconciamente travestito da Robin Hood è
evidente da un pezzo a chi non sia cieco o venduto; mi limito perciò
a proporre un rapido raffronto tra la disciplina “storica” dei
licenziamenti e le novità apportate da un decreto che prima o dopo
assumerà forma definitiva.
C’era
una volta una sinistra riformista e responsabile, che però era
sinistra sul serio: faceva del suo meglio per difendere la dignità
della classe lavoratrice ed elevarne le condizioni di vita, e nel
1970 regalò all’Italia lo Statuto dei lavoratori che assicurava,
nell’eventualità di licenziamento illegittimo, il reintegro del
dipendente e un pieno ristoro economico. Una volta riconosciuta la
mancanza della giusta causa (un comportamento, anche esterno
all’azienda, che minasse la fiducia datoriale nei confronti del
lavoratore) o del giustificato motivo soggettivo (un inadempimento
contrattuale) od oggettivo (ad es., una ristrutturazione d’azienda),
il giudice annullava il licenziamento. A questo punto la vittima del
sopruso padronale, già indennizzata per il periodo di forzosa
immobilità1,
poteva liberamente scegliere tra la ripresa del lavoro (mantenendo
anzianità, diritti ecc.) e un addio addolcito dalla liquidazione di
ulteriori quindici mensilità. Il principale difetto dell’intervento
normativo era la mancata estensione della c.d. tutela reale alle
piccole imprese, ma rispetto al passato si trattava di un gigantesco
passo avanti. L’ultimo.
Appena
due anni fa Coccodrilla Fornero ha smantellato questo sistema di
protezioni, liberalizzando di fatto il recesso per motivi economici
(vedi Prime note su quel che resta dell'art.18) e limitando drasticamente le ipotesi di reintegro in caso di
licenziamento disciplinare. Il giudice può ancora disporlo in
presenza di una delle seguenti condizioni: 1)
il fatto addebitato non sussiste; 2) il lavoratore non lo ha
commesso2;
3) per il fatto contestato risulta prevista
dai contratti collettivi
una sanzione meno grave. E’ venuto meno, in sostanza, il principio
secondo il quale imprenditore e dipendente hanno pari dignità;
malgrado roboanti e menzognere dichiarazioni, inoltre, l’ammontare
degli indennizzi concretamente previsti calava.
Al
padronato tutto questo non bastava – e dunque Renzi per farsi bello
agli occhi dei suoi sponsor ha rimesso mano alla disciplina,
accanendosi come uno sciacallo politico sulla carcassa dell’articolo
18.
Diamo
un’occhiata all’articolato provvisorio:
l’articolo
1
stabilisce che la disciplina si applica ai lavoratori assunti a
decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, nonché a
quelli delle piccole imprese diventate “grandi” (superamento dei
15 dipendenti) grazie al Jobs Act, indipendentemente dalla data di
assunzione. Nella visione renziana l’impresa può crescere, le
tutele mai.
L’articolo
2
non vale la carta su cui è scritto, mentre l’articolo
3 merita
attenzione. Si dispone che in caso di licenziamento illegittimo per
assenza di giusta causa o di giustificato motivo il giudice, preso
atto dell’estinzione del rapporto, condanni il datore al pagamento
di una somma variabile tra quattro e ventiquattro mensilità
retributive. In soldini: l’illegittimità degrada a mera
irregolarità,
perché viene meno la possibilità di annullamento e l’imprenditore
se la cava con un pagamento di modesto ammontare a titolo di
sanzione. Unica eccezione alla regola (2° comma): se il dipendente
riesce a dimostrare “direttamente” (?) in giudizio
«l’insussistenza del fatto materiale contestato(gli)» avrà
diritto alla reintegrazione e (eventualmente) ad un’indennità.
Ricapitolando: delle due ipotesi di reintegro esplicitate dalla Legge
Fornero (tre, se si considera anche quella rimasta nella penna) ne
resta una soltanto, la numero 1). Esempio: il dipendente viene
licenziato perché accusato di rapina (giusta causa) o per aver
pesantemente insultato il superiore od essersi assentato senza
giustificazione dall’ufficio (giustificato motivo soggettivo) –
sarà salvo se in grado di provare che l’evento non si è
verificato, cioè che la rapina non ha avuto luogo o che quel dato
giorno tutti erano presenti in ufficio. Attenzione: se invece la
rapina è avvenuta ma è stata commessa da altri o se ad aggredire il
dirigente è stato Tizio anziché Caio, ingiustamente accusato,
versiamo nell’ipotesi numero 2) (“il lavoratore non ha commesso
il fatto”). Niente reintegra, quindi? Il testo renziano pare
furbescamente escluderla, ma si tratterebbe di scelta così
irragionevole da cozzare contro l’articolo 3 della Costituzione: è
probabile, pertanto, che in siffatte eventualità i giudici
ordineranno comunque la reintegrazione, fingendo che quella del
legislatore sia stata una nuova, involontaria dimenticanza (non lo è:
è un imbroglio bello e buono, anche se malamente architettato e
goffamente attuato). Più insidioso è l’inciso «resta estranea
ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento», non
superabile in via interpretativa: si elimina il terzo appiglio
concesso dalla controriforma Fornero, col risultato che d’ora in
avanti il padrone sarà libero di espellere il lavoratore per
mancanze
lievissime,
tipo un ritardo in entrata di dieci minuti, liquidandolo
(letteralmente, visti i tempi che corrono!) con una manciata di euro.
Ecco spiegato il ripristino del controllo a distanza anche con
strumenti informatici: per il lavoratore, perennemente sotto ricatto,
sarà rischioso persino rispondere al cellulare e andare al bagno.
Tutele
crescenti?
Risparmiaci lo spirito, fiorentino: d’una tutela, in questo
decreto, è assente perfino l’ombra.
Altre
chicche: nell’eventualità di un recesso datoriale immotivato o
irrispettoso delle procedure di cui all’articolo 7 della legge
300/1970 (non vuoti formalismi, bensì la garanzia del diritto di
autodifesa in sede disciplinare!) l’impresa scucirà dalle due (!)
alle dodici mensilità (art.
4);
fa capolino un invito, rivolto al dipendente dal legislatore, ad
accettare una mancia anziché ricorrere al giudice (art.
6);
assistiamo al dimezzamento per i piccoli imprenditori delle già
magre indennità da versare (art.
9, 1° comma)
e all’estensione della disciplina alle c.d. organizzazioni di
tendenza (partiti politici, associazioni culturali, organizzazioni
religiose ecc. - art.
9, 2° comma),
che prima erano sottratte – non del tutto immotivatamente -
all’ambito dell’articolo 18: un dispettuccio ai sindacati in puro
stile renziano.
Molto
più impattante sulla vita di milioni di impiegati ed operai è
l’articolo
10,
dedicato ai licenziamenti collettivi3.
La normativa vigente, che risale – nella formulazione originaria -
ai primi anni ’90 (L. 223/1991), prevede l’attivo coinvolgimento
dei sindacati nelle decisioni aziendali ed il rispetto di precisi
criteri di scelta dei licenziandi (anzianità, carichi di famiglia,
esigenze tecnico-produttive ed organizzative); la violazione delle
suddette regole invalidava il licenziamento.
Con
la famigerata Legge 92/2012 il duo Monti-Fornero ha intorbidato le
acque, facendo criptici riferimenti all’articolo 18 riformulato;
Renzi taglia come d’abitudine la testa al toro, sancendo che il
rapporto è comunque estinto dietro corresponsione di una somma
variabile tra le 4 e le 24 mensilità. Caro imprenditore – sembra
ammiccare il nostro – tu l’accomodamento non l’hai cercato
neppure per un istante, birbaccione, e hai gettato sul lastrico chi
aveva più bisogno di lavorare: nessun problema, hai fatto bene…
perché
tu sei un eroe,
il mio eroe! Secondo l’opinione del premier i diritti sono
l’equivalente di lacci e lacciuoli… qualcuno potrebbe
sorprendersi allora del fatto che i giornali berlusconiani continuino
pervicacemente ad intestargli una misteriosa “sinistra popolare”
(Il Giornale), o che il detestabile Sacconi lo attacchi sulla riforma
“da destra”. Niente di clamoroso, invece: si chiama gioco delle
parti. Sacconi, Alfano e gli altri mestieranti del NCD fingono di
attaccare il premier per rafforzarlo, attribuendogli un’assurda
visione “di sinistra” elettoralmente spendibile4;
al contempo, sparandola grossa tentano di convincere gli italiani
destrorsi della propria esistenza ed “utilità”. L’oppositore
fasullo Berlusconi fa lo stesso: punzecchia Renzi per rispettare il
copione, ma si guarda bene dall’ostacolare colui che, in questo
momento, gli appare come “l’unto dei mercati” (e il garante
della sua sopravvivenza politico-economica). I berlusconiani in
servizio attivo e in naftalina sono preziosi alleati di Renzi,
quindi, ma anche della c.d. minoranza PD: il respingimento delle
velleitarie proposte vandeane d’un Sacconi corrobora la fiction
mediatica di un Presidente del Consiglio “mediatore” ed è motivo
di giubilo per lo svergognato Speranza, degno erede del bersanismo.
Meschine
contorsioni di teatranti, che non possono celare l’oscenità di una
controriforma rabbiosa, raffazzonata, mal scritta e classista –
l’unica che ci si può aspettare da un personaggio che, ai tempi
della sinistra vera, sarebbe stato additato senza esitazioni come un
dilettante ambizioso, grossolano e reazionario. La politica asservita
al neoliberismo non sa, a quanto pare, esprimere nulla di meglio:
l’egemonia culturale è – oggi – rozza incultura.
PS:
l’applicabilità del pastrocchio alla P.A. è un falso problema,
direi. Per i licenziamenti economici esiste già una disciplina ad
hoc, che verrà presto peggiorata; quanto ai licenziamenti
disciplinari, il riconoscimento della loro illegittimità/irregolarità
esporrebbe l’amministrazione ad un esborso e – di conseguenza –
colui che li ha comminati ad una responsabilità per danno erariale.
Ma non temete, pennivendoli arrabbiati col calendario che, per il
2014, ha abbinato Natale e S. Stefano ad un giovedì e a un venerdì:
gli scandalosi “privilegi” dei travet pubblici sono in via di
estinzione, assieme – come’è noto – ai loro stipendi. Ai
pensionati, invece, penserà Boeri, che scambia per oro – da
offrire ai mercati senza patria – assegni mensili da duemila euro
lordi.
NOTE
1
Con un minimo di 5 mensilità che, nell’ipotesi di pause
prolungate, potevano essere molte di più!
2
Così, unanimemente, i commentatori; nel testo, tuttavia, il
riferimento manca.
3
Ai sensi della Legge 223/91 si parla di licenziamenti collettivi
quando l’impresa intende ridurre il personale di almeno 5 unità
nell’arco di 120 giorni causa riduzione, trasformazione o
cessazione dell’attività.
4
Anche perché su questo fronte il parolaio toscano è in costante
affanno: quando asserisce, con una punta di comprensibile disagio,
di essere “di sinistra” può sfoggiare, come unico argomento a
favore, l’elemosina degli 80 euro (argomento di per sé
deboluccio, visto che la Sinistra autentica riconosce diritti, non
fa la carità).
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