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domenica 25 gennaio 2015

RIFLESSIONI POST ITALICUM di Riccardo Achilli





RIFLESSIONI POST ITALICUM 

di Riccardo Achilli


Non starò a ripetere una analisi sull'Italicum, con concetti che oramai sono chiari a tutti. L'Italicum non va analizzato di per sè, questa è la trappola comunicativa di Renzi e dei suoi, che tendono a portare la discussione su un paragone con il Porcellum. 
Va analizzato dentro il complessivo sistema che si va delineando con le riforme istituzionali. Si disegna un sistema del tutto anomalo, un premierato forte privo di qualsiasi contrappeso significativo, in termini di divisione dei poteri e presenza di istituzioni indipendenti. Arruolato il Parlamento con una maggioranza solidissima di fedelissimi nominati (almeno il 60%, con il meccanismo dei capilista bloccati, più i fedelissimi provenienti dai Consigli Regionali che si ritroveranno a fare i senatori), sottomesso anche con un rafforzamento della decretazione d'urgenza, il premier potrà nominarsi senza alcuna opposizione presidenti di Authority, componenti del Csm e della Corte Costituzionale, persino, entro certi limiti, il Presidente della Repubblica (basterà aspettare la nona votazione, quando si vota con maggioranza assoluta. Certo, si può obiettare che diventa difficile tenere insieme la propria maggioranza fino al nono voto).


Parlare di fascismo, di legge Acerbo, et similia, è, almeno per il momento, esagerato, il fascismo è quando non si vota proprio, o si vota solo in forma simbolica, la legge Acerbo assegnava il premio di maggioranza con il 25% dei voti, fino a concorrenza del 66% dei seggi, quindi aveva un premio di maggioranza del 41%. Però evidentemente cambia in profondità l'assetto della nostra democrazia, da democrazia rappresentativa a democrazia plebiscitaria, retta su concetti quasi aziendalistici, con i quali l'eletto assume pro tempore poteri quasi assoluti, rendendo conto del suo operato a fine legislatura. Sembra quasi l'assemblea degli azionisti di una azienda che nomina l'amministratore delegato, più che un Paese, con tutte le complessità del gioco degli interessi sociali e di classe, che o trovano una rappresentazione politico/sindacale, oppure inevitabilmente, in una crisi economica che polarizza enormemente la distribuzione della ricchezza e delle condizioni di mobilità sociale,  si prenderanno la loro rappresentazione in modi diversi, non necessariamente pacifici e concertati. 
Il tentativo di canalizzare la rappresentazione sociale tramite gli strumenti di ascolto diretto (i provvedimenti offerti alla discussione on line, un certo rafforzamento degli strumenti di tipo referendario e di democrazia diretta che sembra, entro numerosi limiti, essere previsto dalle riforme istituzionali, la generalizzazione delle primarie ed altre sciocchezze assortite) appare del tutto insufficiente, per un motivo fondamentale: una società complessa non può autorappresentarsi nella modalità si/no, on/off, voto per Gigino oppure voto per Gigetto. Richiede strumenti ed istituzioni di sintesi, che portino ad un livello superiore un dibattito approfondito, che va dipanato con i dati, i tempi e i canali appropriati alla complessità. 

Oltre a questa impossibilità di fondo, ve n'è una più pratica: in un Paese a cultura notabiliare come l'Italia, i primi a non credere alla voce dei cittadini sono gli esponenti della classe dirigente, che infatti accordano questi strumenti alla popolazione, con l'atteggiamento dei Sovrani Illuminati, ma poi li inquinano e li distorcono a loro uso e consumo (i referendum pericolosi sbattono su un cavillo giuridico in Corte di Cassazione, gli strumenti di consultazione on-line dei provvedimenti non vengono usati per modificarli, le primarie sono pilotate e soggette a brogli, la cooperazione viene affidata alla mediazione politico/criminale, i comitati di cittadini vengono manganellati se sono critici). 

Evidentemente si tratta dell'attuazione del modello liberista/aziendalista sul quale si dibatte sin dagli anni Novanta, e lo strame del Paese che stanno facendo Renzi ed i suoi servitori è quindi il prodotto finale generato dalla Seconda Repubblica, il cui asse "culturale" è stato il berlusconismo, con una sinistra sostanzialmente soggiogata a molti dei suoi paradigmi e delle sue costruzioni mistificatorie (il leaderismo carismatico, il mito dell'esistenza di un punto di efficienza ottimale e oggettivamente misurabile dell'azione amministrativa, portato oltre i normali e ragionevoli interventi di messa in efficienza e di modernizzazione della Pubblica Amministrazione, la sostanziale sfiducia per l'intervento pubblico nell'economia ed il mito delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni dei mercati, ecc.) cercando di differenziarsi esclusivamente per il recupero di una questione morale di berlingueriana memoria, peraltro non di rado interpretato male dai suoi epigoni nella loro azione concreta di amministratori. 

C'è poco da aggiungere. Questo modello funziona male persino quando è interpretato dentro la sua sede naturale, ovvero le aziende. La letteratura manageriale è piena di critiche al modello della public company con il CEO dittatore assoluto pro tempore, seppur designato democraticamente: la prevalenza sui risultati di breve periodo, l'impossibilità di correggere decisioni sbagliate, il conflitto di interesse fra CEO ed azienda. Figuriamoci cosa può succedere quando applicato ad un Paese, da una classe politica caratterizzata da livelli particolarmente gravi di incompetenza ed impreparazione di base, incapace di ascolto ed autocritica. 

D'altra parte, siccome niente viene per fantomatici destini cinici e bari, questa torsione del nostro Paese è la perfetta retribuzione del suo popolo. La democrazia bisogna guadagnarsela, e difenderla giorno per giorno. Ma la controfaccia della libertà è la responsabilità. E questo secondo termine suona male in un popolo abituato a disprezzare, ed al limite utilizzare, le sue stesse istituzioni. La crisi economica ha accentuato un propensione, naturale nel piccolo e medio borghese, oltre che nel sottoproletario, ad affidarsi all'uomo forte. Costoro, diffidenti, per interessi materiali o per gretta ignoranza (chiamiamola assenza di coscienza di classe, ma cambia poco) nei confronti della mediazione politico/sindacale tipica delle democrazie mature, covano dentro di loro una spontanea propensione verso l'Uomo della Provvidenza, che diventa più forte nelle crisi economiche, quando la democrazia rappresentativa può essere facilmente accusata di essere troppo lenta e farraginosa per dare risposte a situazioni emergenziali create dalla crisi. L'inesistenza di una borghesia nazionale consapevole della sua missione storica e la sconfitta epocale e continua delle classi lavoratrici negli ultimi vent'anni hanno di fatto vanificato ogni anticorpo a questo fascismo strisciante, da sempre, nell'identità del popolo italiano. 

Adesso occorrerebbe capire come confrontarsi con questa democrazia plebiscitaria che si è fatta largo a spintoni, demolendo l'assetto della nostra Costituzione, senza nemmeno un dibattito nazionale approfondito (e questo è un fatto del tutto anomalo fra i Paesi europei, che ci richiama alla più corretta collocazione geopolitica dell'Italia fra le satrapie afroasiatiche). 
La risposta più istintiva è che questo sistema disegna un bipartitismo di fatto, e che quindi la scelta più logica sarebbe quella di cercare di riconquistare da sinistra uno dei due grandi partiti che si disputeranno il premio di maggioranza, posto che agli altri sarà semplicemente attribuito un diritto di tribuna ininfluente. O al limite, cercare di mantenere dentro uno dei due partiti che si contendono il governo, una presenza molto organizzata, anche se minoritaria, di una sinistra interna, in grado di fare sponda per costruire maggioranze trasversali con altri partiti di sinistra presenti in Parlamento. 

Non sempre la risposta istintiva è la migliore. Infatti, in questo caso è sbagliata. 
Il PD non è il peronismo, dove possono convivere Menem e Kirchner, la Guardia de Hierro e i morenisti. Il peronismo, con tutti i suoi enormi limiti, ha costruito e modellato il sistema politico, e persino quello sindacale, del suo Paese. E quindi ha dovuto riassumere in sè culture politiche molto diverse, dando loro un ombrello comune. 
Il PD non ha costruito il sistema politico italiano e la sua storia e cultura. 
Il PD rappresenta invece la degenerazione di storie politiche precedenti, il buco nero che le ha inghiottite e distrutte. E infatti chi nel PD si muove autonomamente viene pestato a sangue, ma non solo dalla Serracchiani o da Orfini, il che sarebbe il minore dei danni, ma da quel poco di militanti e quadri che restano, irretiti dentro una logica della "lealtà", che poi, nella degenerazione politica del PD, è il sottoprodotto della putrefazione del centralismo democratico del vecchio PCI. 
L'aggressione telematica cui è sottoposto Civati in queste ore, per aver osato muoversi autonomamente da un patto del Nazareno peraltro indifendibile politicamente e moralmente, e che è portata avanti da semplici simpatizzanti ed elettori, dimostra chiaramente cosa sia veramente la natura del PD. Un partito che ha perso militanza, e cancellato la pratica di dibattito a livello di base e territorio, ha perso completamente linfa vitale e capacità di rinnovamento, ripiegandosi a mero collante di cordate di potere. 
Lo stesso Barca sembra essersi stancato di riproporre le sue ricette di partito che dibatte e si confronta, evidentemente stanco di non essere ascoltato da nessuno. 
Un partito che non discute alla base, sostituendo la discussione con sterili sfuriate e risse nelle Direzioni Nazionali in streaming, non può più essere riconquistato, non può dare cittadinanza a posizioni autonome e riconoscibili, che non siano impelagate dentro contorti meccanismi di critica costruttiva o collaborazione con autonomia, come quelle di Bersani o Cuperlo, salvo poi essere presi sistematicamente a pesci in faccia. Meccanismi che non segnano la ricostruzione di una posizione di sinistra, ma solo il tentativo di una capitolazione dignitosa: dietro la richiesta di rispetto c'è solo la rischiesta di essere lasciati in vita in un angolino. Ma un generale come Renzi, alla lunga, non sa che farsene di colonnelli troppo autonomi da essere affidabili in battaglia, e al tempo stesso troppo allineati da essere utili per battaglie non convenzionali, o anche solo per tenere alto il motivo delle truppe meno disciplinate. 

Non c'è niente da recuperare da un rapporto politico con il PD, la stagione del centrosinistra è morta da tempo. E mi chiedo anche a che titolo i leader della cosiddetta Sinistra Dem, che dovessero prendere atto di una scissione che è già nei fatti, uscendo dal partito, potrebbero reclamare ruoli dirigenziali di prima linea in una nuova sinistra. La politica, come ama sempre ripetere un baffuto leader di questa componente del PD, è una disciplina severa. Se hai sbagliato tutto, hai perso la guida del tuo partito, hai puntato tutto sulla carta di un possibile accordo con i vincitori, e poi ti sei fatto piccionare n volte beh...prendine atto. Mettiti a disposizione per lavorare su un nuovo soggetto politico, ma senza richiedere alcuna posizione, alcuna primazia. 

C'è da recuperare dal PD un elettorato progressista, in parte confluito dentro l'astensionismo, per ricostruire un partito di sinistra competitivo, che possa sperare, un domani, di avere una chance da giocarsi dentro il meccanismo infernale dell'Italicum se, come appare possibile, M5S e centrodestra collasseranno, e se il fenomeno leghista si ridimensionerà. 
Il recupero di questo elettorato è addirittura reso difficile dalla presenza di personaggi come Cofferati, Bersani, Cuperlo, D'Alema, che quello che avevano da dire lo hanno detto, ed hanno addirittura lavorato per costruire il terreno culturale dentro il quale il renzismo è cresciuto e si è affermato. 
Era la coppia D'Alema/Cuperlo a teorizzare l'allargamento dell'elettorato dei Ds a destra. 
Era Cofferati ad interpretare il ruolo del sindaco sceriffo carismatico proiettato verso la politica nazionale che poi Renzi ha interpretato con successo. 
Era Civati alla Leopolda a predicare la rottamazione che è stata estesa a tutto il sistema, perché è chiaro che i processi di rinnovamento, quando sono invocati, non possono essere controllati.  
Era Bersani a teorizzare lenzuolate di liberalizzazioni come rimedio taumaturgico. O, ancora, ad invocare leggi elettorali in cui la sera del voto si sa chi ha vinto. 
Eccoli serviti. 

Adesso dimostrassero la generosità del muratore che senza pretese si rimbocca le maniche per tirare su una casa, non la tracotanza dell'architetto che vuole dirigere il cantiere. Oppure rimanessero dentro il PD a finire di farsi massacrare. Ma sia chiaro che in quel caso, un pò come i Lari domestici degli antichi romani, rappresenterebbero soltanto i reperti archeologici posti a soprammobili sul caminetto accanto al quale una maggioranza moderata prenderà tutte le decisioni. Ed un dialogo con loro sarebbe inutile. 
Per quanto detto sopra, anche controproducente se si volesse recuperare l'elettorato di sinistra di quel partito.




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