E’ naturalmente ancora troppo presto per stimare l’impatto che la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, presentata ieri in forma molto generica, avrà sul mercato del lavoro e sui lavoratori, perché siamo ancora all’enunciazione di linee-guida generiche, che peraltro potrebbero anche essere modificate, atteso che una volta tanto la CGIL ha avuto il coraggio di annunciare un timido “no” (poi si vedrà nel prosieguo della discussione se la Camusso riuscirà a mantenere la barra dritta, o se cederà). Tuttavia si possono già fare alcune considerazioni di ordine generale. La filosofia di fondo della riforma proposta mira ad offrire un compromesso, che in realtà non è tale. Lo scambio offerto è “maggiore flessibilità in uscita in cambio di un drastico smantellamento delle numerose segmentazioni interne al mercato del lavoro” (ovvero la suddivisione fra un nucleo, sempre più ristretto, di lavoratori “tutelati” da un contratto e tempo indeterminato e varie bolge infernali, sempre meno garantite, di lavoratori precari, dal purgatorio dei contratti a termine giù giù fino ai tormenti satanici dei contratti a progetto, a chiamata, a fischio, a urlo, delle false partite IVA ecc. ecc. – l’ISTAT conteggia qualcosa come 47 diverse tipologie contrattuali, ovvero 47 diverse pene da scontare).
Tale segmentazione di fatto porta ad una riedizione dei famosi modelli “insiders-outsiders” con cui l’economia del lavoro classica analizzava i mercati del lavoro, senza tuttavia eliminarne le conseguenze socialmente negative, ma anzi aggravandole. Infatti, mentre nel modello tradizionale gli insiders sono i lavoratori, che tendono, tramite le loro organizzazioni del lavoro e la negoziazione salariale, a stabilire un salario di esclusione, tale cioè da impedire l’accesso agli outsiders, ovvero i disoccupati, nella nuova versione di tale modello gli insiders sono i lavoratori a tempo indeterminato, mentre vi è una panoplia di figure di outsiders, dai tradizionali disoccupati fino ai lavoratori precari, nelle loro varie definizioni contrattuali. In questa nuova edizione del modello, gli insiders hanno perso potere negoziale, per cui non vi è più un salario di esclusione, mentre lo sbarramento fra lavoratori insiders e lavoratori precari outsiders si basa su fattori che ricadono fondamentalmente sotto il controllo del padronato, come la produttività delle diverse figure professionali, che dipende in larga misura dall’assetto dei cicli produttivi, oppure sono legati esogenamente agli andamenti dei mercati, per cui il maggior o minore grado di volatilità e differenziazione della domanda su un determinato mercato determina il grado di flessibilità richiesto alla forza-lavoro, o ancora riproducono le differenze sociali esistenti, per cui chi ha potuto studiare, pagarsi un master o un corso di specializzazione post-laurea, perché la famiglia lo ha potuto finanziare, acquisisce un profilo professionale “raro”, che può barattare con un posto di lavoro più garantito e remunerato. In estrema sintesi, la barriera di esclusione fra insiders ed outsiders, non essendo più determinata dal salario di sbarramento, stante la perdita di potere negoziale dei lavoratori, è interamente determinata dalle nuove forme con cui si svolge la riproduzione allargata del capitale e la determinazione del saggio di profitto. Inoltre, ad aggravare la situazione, vi è che gli outsiders non sono più una categoria omogenea, che può quindi autorappresentare i propri interessi e convergere unitariamente su questi nella lotta, ma è composta da figure diverse, con problemi diversi, esigenze diverse, spesso poste artificiosamente in conflitto l’una con l’altra (il lavoratore precario ed il disoccupato, e nell’ambito del lavoro precario chi ha un contratto a termine e chi ha un contratto a progetto, chi ha il contratto più lungo e chi ce lo ha più corto, il lavoratore a progetto, che ha una sia pur minima contribuzione previdenziale, ed il lavoratore sotto partita IVA, che è totalmente scoperto, ecc. ecc.) ciò rende oggettivamente più difficile per gli outsiders convergere su una piattaforma di lotta unitaria.
La logica del buon senso dei dati, porterebbe a ritenere che il superamento di tale segmentazione, avvenga verso l’alto, ovvero verso una estensione dei diritti e delle tutele, non verso il basso, ovvero verso una distruzione di qui pochi diritti e tutele che ancora sussistono. Infatti, questa riedizione del modello “insiders-outsiders”comporta:
- salari che non crescono allo stesso ritmo del tasso di inflazione: come è evidente dal grafico sotto riportato, gli indici delle retribuzioni sono sistematicamente più bassi di quelli dei prezzi, e, esprimendo entrambe le serie storiche su base omogenea (1995=100) l’incremento complessivo delle retribuzioni, fra 2007 e 2011, è pari ad 11,3 punti, ed è quindi inferiore all’incremento complessivo dei prezzi sullo stesso periodo (11,5 punti) con la conseguente erosione di potere d’acquisto. Non solo, ma il livello dei salari in Italia è fra i più bassi d’Europa: il reddito netto di una famiglia con due figli, in cui entrambi i coniugi lavorano, nel 2010, è in Italia pari a poco più dell’86% della media dell’Ue-27 ed al 78% della media della Ue-15 (dati Eurostat).
Graf. 1 – andamento dell’indice delle retribuzioni contrattuali e dell’indice dei prezzi per l’intera collettività (base 1995=100)
Fonte: Istat
- l’ampliamento di enormi divari sociali, territoriali, di genere e generazionali sul mercato del lavoro. L’Italia ha un tasso di disoccupazione giovanile più alto della media europea: il tasso di disoccupazione di chi ha meno di 25 anni è infatti pari al 27,8%, a fronte del 21,1% della Ue-27. Lo stesso dicasi per il tasso di disoccupazione femminile, pari al 9,7%, a fronte di una media del 9,6% nella Ue-27. Il tasso di disoccupazione di lungo periodo (cioè il tasso che si riferisce a chi è disoccupato da più di un anno, e quindi ha perso gli skills lavorativi necessari per rientrare sul mercato del lavoro e riottenere una occupazione, tendendo quindi a trasformarsi in disoccupato perenne) è del 4,1%, contro il 3,9% della Ue-27. In un’intera porzione del Paese, che assorbe il 30% della popolazione italiana, ovvero il Mezzogiorno, il tasso di disoccupazione ha un valore che è più che doppio rispetto al dato del Centro-Nord. Tutto ciò ha il suo riscontro in una enorme porzione di popolazione in età da lavoro esclusa dai processi lavorativi: il tasso di attività, che misura la quota di popolazione in età lavorativa che partecipa attivamente al mercato del lavoro, è pari ad appena l’87,6% del dato riferito alla Ue-27;
- l’ampliamento del bacino del precariato dà peraltro luogo ad un sensibile allargamento dell’area dell’economia informale e del sommerso. Il tasso di irregolarità del lavoro rappresenta il 10,3% del totale degli occupati, ed è fra i più alti dell’intera area-Ocse. Esiste una relazione statisticamente significativa, misurabile econometricamente (cfr. R. Achilli, “Sommerso economico, occupazione irregolare, mercato del lavoro e condizioni competitive delle imprese nelle regioni italiane”, in Svimez, Rivista Economica del Mezzogiorno, nr.3/2009) fra tasso di irregolarità del lavoro e ampiezza del bacino di lavoratori precari, giustificata dal fatto che flessibilità “subita” e occupazione irregolare sono in realtà le due facce del medesimo fenomeno di indebolimento del potere negoziale dei lavoratori.
Tutto ciò non fa altro che ridurre il tasso potenziale di accumulazione del capitale, perché il moltiplicarsi di barriere di accesso al nucleo più tutelato del mercato del lavoro, cioè il moltiplicarsi degli outsiders, di fatto riduce l’apporto del capitale variabile al processo di accumulazione. Lo si può vedere, ad esempio, dalla dinamica del numero di ore lavorate. Il numero di ore lavorate annualmente per dipendente, che nel 1980 era pari a 1.653,8, nel 2010 è sceso a 1.603,3, con una riduzione del 3%. Tale fenomeno è il risultato di una combinazione fra la stagnazione della produttività del lavoro ed il mancato aumento del valore assoluto del monte-ore lavorate, indotto dall’ampia platea di soggetti che escono, per disoccupazione o per scoraggiamento, dal mercato del lavoro. La stessa stagnazione della produttività, oltre che dipendere da fattori competitivi (modesto tasso di innovazione tecnologica, dimensione media delle imprese troppo ridotta) è legata anche ad una minore produttività delle figure professionali precarie. Infatti, la riduzione del numero di ore lavorate per addetto, se la si misura non soltanto sui dipendenti, ma su tutti gli occupati (quindi anche rispetto agli indipendenti, che nascondono al loro interno numerose casistiche di precariato) è, fra 1980 e 2010, ancora più forte, passando dal 3% al 4,3%. Il precario ha minori motivazioni a lavorare di più e meglio, e quindi ha una minore produttività. Perché dovrei lavorare di più se non mi garantisci nemmeno il futuro? Anche un bambino lo capirebbe. Inoltre un precario lavora saltuariamente, quindi il suo monte-ore lavorate si riduce rispetto ad un occupato alle dipendenze che lavora continuativamente. Di conseguenza il capitale variabile si riduce, e poiché, come Marx insegna, il processo di riproduzione allargata è basato anche sull’apporto di capitale variabile, la riduzione del monte-ore lavorate per addetto costituisce un ostacolo che rallenta, riduce, il processo di accumulazione capitalistica.
Inoltre, questa nuova edizione del modello insiders-outsiders produce un minore potere negoziale sui salari, e ciò non fa altro che riflettersi sulla domanda per consumi, che si riduce, aumentando la probabilità di crisi cicliche da sovrapproduzione. Infine, l’ampio bacino di lavoro sommerso che, come si è visto, è statisticamente correlato all’ampiezza delle frammentazioni interne al mercato del lavoro, genera evasione fiscale e contributiva, che incide sull’entità del deficit e del debito pubblico.
Nonostante tali evidenze, che dovrebbero suggerire anche ai liberali ed alla borghesia un processo di riforma del mercato del lavoro “verso l’alto”, ovvero aumentando e diffondendo le tutele, le esigenze di breve periodo di un capitalismo finanziarizzato che si disinteressa sempre di più delle caratteristiche dell’economia reale, nonché di una borghesia, alle prese con la forbice di una accresciuta pressione competitiva sul CLUP (e quindi sia sul costo che sulla produttività del lavoro) da parte delle economie BRIC, e di una crisi strutturale della domanda, premono in direzione di un aumento della flessibilità in uscita, quindi di un ulteriore smantellamento delle tutele, che anziché sanare l’attuale modello “insiders-outsiders” trasformandolo in un modello “insiders-insiders”, lo porterà inevitabilmente a divenire un modello “outsiders-outsiders”. Nel breve periodo, ovviamente, l’aumento dell’area della flessibilità consente di ridurre ulteriormente il potere negoziale sui salari, allineando il costo del lavoro alla sua ristagnante produttività, e di reperire micro-nicchie di mercato ancora al riparo dal calo generalizzato della domanda, tramite una personalizzazione estrema del prodotto, che ovviamente richiede altissimi tassi di flessibilità dei cicli produttivi. Nel medio e lungo periodo, però, come si è visto, tutto ciò va a pregiudicare il tasso di accumulazione capitalistica, e quindi la stessa formazione del plusvalore, e provoca anche effetti negativi sulle finanze pubbliche. Una borghesia oramai culturalmente inadatta ad affrontare le contraddizioni strutturali del suo sistema preferisce quindi adottare la massima di Keynes, secondo la quale “nel lungo periodo saremo tutti morti”, cercando soluzioni di breve respiro, e lasciando i danni strutturali che tali soluzioni comportano ai posteri.
Tutte le caratteristiche generali del progetto di riforma presentato ieri alle parti sociali vanno infatti in direzione di una affannosa ricerca di vantaggi di breve periodo. Non è vero che tali soluzioni comporteranno una drastica riduzione delle segmentazioni interne al mercato del lavoro, e quindi non è vero che porteranno al superamento del perverso modello “insiders-outsiders” che si è andato affermando. Il contratto unico di inserimento alla Boeri/Garibaldi, con tre anni di prova in cui è sempre possibile licenziare, in realtà genererà una nuova segmentazione del mercato del lavoro: fra figure professionali che sono rare e particolarmente pregiate, e che accederanno al tempo indeterminato, e figure professionali a minor qualificazione, facilmente sostituibili, che nei tre anni di prova verranno continuamente licenziate, per consentire alle imprese di avere la giusta dose di flessibilità. Il progetto di differenziazione del valore delle lauree in base agli atenei, presentato in parallelo, consentirà quindi di riprodurre sul mercato del lavoro le ingiustizie sociali, fra chi potrà pagarsi lauree di eccellenza, ed accederà al tempo indeterminato, e gli altri, che rimarranno per sempre prigionieri di un circuito di assunzioni con prova estesa a tre anni. Poiché tali figure avranno anche salari bassi, le compensazioni monetarie che le imprese corrisponderanno a seguito del licenziamento saranno anch’esse modeste.
Nella sostanza, il progetto presentato dal Governo Monti mira solamente a semplificare drasticamente la giungla contrattualistica oggi esistente, e che crea anche alle imprese dei problemi, perché finiscono spesso per dover pagare la parcella ad un consulente del lavoro, o ad un’agenzia interinale, che le aiuti a selezionare il modello contrattuale migliore. Ma non mira affatto a superare il dualismo interno al mercato del lavoro, perché con il modello del contratto unico di inserimento vi saranno sempre insiders garantiti, outsiders precari, intrappolati nell’inferno della prova triennale, e disoccupati/inoccupati che rimangono fuori dal mercato. E ancora una volta, tali segmentazioni riprodurranno le differenze sociali esistenti. In questo modo, con il contratto unico non è più nemmeno necessario toccare l’articolo 18, che rimane, però viene svuotato di significato, perché riguarderà soltanto i privilegiati che supereranno lo scoglio dei tre anni di prova. Ed in questo modo i sindacati padronali che fanno della difesa simbolica dell’articolo 18 il loro alibi per approvare qualsiasi cosa saranno soddisfatti. Il contratto unico semplificherà la vita alle imprese, evitando i costi delle consulenze resi necessari dalla complessità della precedente normativa, mantenendo l’attuale stato di fatto, ovvero l’estrema segmentazione interna al bacino degli occupati, che tende a riprodurre la struttura classista della società, e di fronte a ciò, gli incentivi previsti per la trasformazione in tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato, oppure per aumentare il costo contributivo dei contratti flessibili oggi esistenti, non hanno alcuna natura sociale, ma rappresentano soltanto strumenti-ponte per agevolare il passaggio dalla vecchia alla nuova normativa.
L’unico modo per dare un minimo di sostenibilità sociale al progetto, ovvero la garanzia di un reddito minimo di disoccupazione, sull’impronta dei precetti della flexsecurity, diviene una presa in giro, in un momento in cui l’obiettivo è quello di tagliare la spesa pubblica, non di creare nuova spesa sociale. Ed infatti, sempre durante la riunione di ieri con le parti sociali, il reddito di disoccupazione è stato postergato “sine die”, ad un imprecisato futuro. Infatti, il Ministro Passera ha dichiarato che le risorse necessarie sarebbero al momento "non individuabili". Da qui l'ipotesi di inserirlo comunque nella riforma prevedendo però "una applicazione dilazionata". Cioè, tradotto dal gergo politico/amministrativo, tale reddito non sarà implementato mai. Mentre invece sarà immediatamente smantellata la CIG straordinaria, che era lo strumento per garantire un reddito minimo su periodi di tempo poliennali in caso di crisi aziendali strutturali. Mentre rimarrà la CIG ordinaria, quella che non supera le 52 settimane, perché tale strumento, più che avere natura assistenziale, ha natura di sostegno alle esigenze di flessibilità delle imprese, che in periodi di calo stagionale della domanda possono collocare i dipendenti in CIG ordinaria, per poi riprenderli a tempo pieno quando la domanda aumenta nuovamente, ancora una volta per stagionalità. Facendo pagare ai dipendenti il costo, in termini di un’indennità di CIG inferiore allo stipendio medio, di tale esigenza aziendale di flessibilità stagionale (è bene ricordare che il trattamento di CIG ordinaria non può superare l’80% della retribuzione globale di fatto, ed ha un massimale fra 908 euro e 1.089 euro, in questo caso solo per retribuzioni superiori a 1.962 euro).
Tutto ciò delinea il quadro di un progetto socialmente regressivo, culturalmente miserrimo, rivela l’incapacità della borghesia di affrontare con lungimiranza le enormi contraddizioni generate dal capitalismo marcescente, rivela l’incapacità dei sindacati di difendere ciò che resta del nostro popolo e del nostro Paese.
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