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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 20 luglio 2012

IL RITORNO DI NAUJOCKS di Norberto Fragiacomo

IL RITORNO DI NAUJOCKS
di 
Norberto Fragiacomo

Alfred Naujocks è tornato, portandosi appresso, in qualità di esperto, l’americano (?) tranquillo di Graham Greene.
Il sanguinoso attentato avvenuto ieri a Burgas, in Bulgaria, e costato la vita ad otto turisti israeliani, ha da subito un colpevole, un colpevole a priori: l’Iran di Ahmadinejad. Certe tragedie accadono perché è opportuno che accadano, indipendentemente da chi le abbia provocate.
"Tutto induce a credere che sia stato l'Iran. Israele reagirà con forza al terrore iraniano", commenta a freddo il premier israeliano Netanyahu, che immaginiamo nell’atto di fregarsi le mani mentre pronuncia queste due frasette sempre pronte per l’uso, anche se il suo “tutto”, per il momento, ha la consistenza del “nulla” (a quanto risulta, la polizia bulgara conferma solo che non si è trattato di una disgrazia): ciò che importa è regolare i conti col nemico iraniano. Teheran bombardata val bene una giornata di lutto.
L’affamatore di israeliani
(http://tv.ilfattoquotidiano.it/2012/07/15/aviv-uomo-fuoco-durante-corteo/201651/) e flagello dei palestinesi (ma, all’occorrenza, pure “turcoctono”) una ne fa – di guerre – e cento ne pensa, e raramente minaccia invano: siamo convinti che, al di là delle dichiarazioni baldanzose di prammatica, nelle roccaforti degli ayatollah domini la preoccupazione.
Stavolta non si scherza. Una strage di innocenti, poi, è il casus belli perfetto: funzionò nel 1939, funzionerà oggi, da un’altra parte del globo.
Le prove non ci sono? Che importa: si manipolano, si fabbricano, si inventano (v. caso Irak); quindi vengono veicolate dai media, che – opportunamente ammaestrati – hanno già individuato il capro espiatorio. Ieri la Polonia, oggi l’Iran: cambiano i cieli, non muta il modus operandi.
Ridicolo? Sì, spaventosamente ridicolo, visto che le accuse piovono dai mandanti di decine di assassini mirati – specialità israeliana – ai danni di scienziati iraniani (http://owenistigiuliani.blogattivo.com/Owenisti-Giuliani-b1/DELITTI-SENZA-CASTIGO-E-VICEVERSA-b1-p3.htm), e visto che l’Iran, in questo momento, non ha alcun interesse ad ammazzare poveri civili a centinaia di chilometri dai suoi confini, e nemmeno, a quanto pare, ambasciatori sauditi.
Però la portaerei John C. Stennis si avvicina al Golfo Persico con il suo carico di cacciabombardieri: l’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Due stati canaglia, legati da un vincolo indissolubile, si apprestano a scatenare una guerra infame – la “libera propaganda” dei giornali di regime sarà dalla loro parte, perché, qualsiasi nefandezza commettano (e ne hanno commesse a iosa, dal dopoguerra in poi!), americani ed israeliani sono “il bene”.
Intanto, in Siria, un attentato chirurgico (dei “democratici”, certo, quelli che fino a ieri – con totale sprezzo del ridicolo – venivano descritti come vittime indifese di una disumana repressione) decapita i vertici del regime.
L’inutile strage continua, ovunque.
 
 
 

martedì 17 luglio 2012

BERLUSCONI IN CAMPO (PER SCHIACCIARE IL GRILLO?) di Norberto Fragiacomo

BERLUSCONI IN CAMPO (PER SCHIACCIARE IL GRILLO?)
di
Norberto Fragiacomo


La sostituzione è stata effettuata nel finale, a partita già ampiamente compromessa - ma l’insperata conquista dei tempi supplementari, complice una gragnola di autogol firmati PD, è costata carissima alla riserva, che, senza neppure aver sfiorato la palla, se ne torna mestamente in panchina (anzi, viene inghiottita dagli spogliatoi): come ricordava uno spot televisivo, “il titolare ha i suoi privilegi”, specie nel caso in cui della squadra sia fondatore, regista e padrone.
Sarà pure “agghiacciante” il ritorno di Berlusconi in politica (Bersani dixit), ma non più delle vicende avvenute negli ultimi mesi all’ombra dei Monti, ed in ogni caso non è il risultato di un colpo di sole, e neppure una bizzarria politica. Il sospetto è che, al di là delle dichiarazioni ad uso di media e gregge, il cavaliere in campo sia utile a parecchi, Presidente del Consiglio e vertici “democratici” inclusi.
La primavera del 2012 sarà ricordata a lungo come la stagione del primo vero massacro sociale del dopoguerra – ma anche per la formidabile ascesa del Movimento 5 Stelle, capace di prendersi Parma e di distanziare, nei sondaggi, l’incompiuta SeL, l’IDV e persino il PDL rantolante. Gli imprevisti trionfi di Grillo preoccupano l’elite - quella internazional-liberista di cui fa parte il potentissimo Mario Monti - non perché lo showman genovese abbia velleità rivoluzionarie (la sua vita non è quella di paladino della giustizia sociale o di un asceta, tutt’altro!), bensì pel fatto che la nuovissima formazione rappresenta un rebus per gli analisti, e fonda comunque il suo successo sul rifiuto della politica tradizionale ma anche, sia pure in seconda battuta, dell’austerità spacciata per toccasana.
L’appoggio incondizionato a Monti – ed a misure che angosciano anche chi non scorge alternative al rigore – ha azzerato quell’avanzo di popolarità che ancora restava ai partiti: l’astensionismo galoppa, e cresce di pari passo la convinzione che nella notte finanziaria tutte le vacche (“moderati”, cattolici e progressisti) siano ugualmente nere, e docili ai capricci dei mercati. Non sono le casalinghe di Voghera a dar credito a Grillo (quelle votano a comando), ma persone almeno parzialmente consapevoli dell’estrema gravità della situazione attuale, e dell’impossibilità di uscirne seguendo sentieri “tradizionali”. Al Beppe nazionale, percepito come unica alternativa disponibile al montismo, si chiede un colpo di bacchetta magica o, perlomeno, un minimo di resistenza alle pressioni europee: non voto di protesta, dunque, bensì (quasi) di disperazione.
Basta questo a preoccupare i “mercati” e, di conseguenza, i fautori dell’operazione Monti – e forse qualcuno si è convinto, in alto loco, che il rinnovato impegno del “padre (ig)nobile” del PDL/Forza Italia potrebbe frenare l’astronave 5 Stelle.
Berlusconi lo si ama o lo si odia: è questo il suo punto di forza, ciò che lo rende – oggidì – estremamente “prezioso”. La sua presenza, in tivù e sui giornali, potrebbe dividere nuovamente gli italiani in due tifoserie, con l’effetto di distogliere l’attenzione popolare dalle urgenze quotidiane: “Silvio tra noi” significa il ritorno al tifo da stadio, alle contrapposizioni preconcette, sterili e urlate – degna colonna sonora della macelleria montiana. Una cortina fumogena, insomma, dietro la quale celare la rapina del secolo.
Se le cose stessero come ipotizziamo, l’allarme lanciato, nei giorni scorsi, dalle cancellerie e dalle istituzioni europee [1] non andrebbe preso troppo sul serio, ed anche l’invettiva bersaniana andrebbe derubricata a folklore o – per essere precisi – a “chiamata alle armi” dei fedeli contro l’eterno avversario; ben più significativa (e rivelatrice) sarebbe l’uscita del nipote di Gianni Letta riportata dal Corriere della Sera: “Preferisco che i voti vadano al PDL piuttosto che disperdersi verso Grillo”, perché quest’ultimo è il maggiore ostacolo sulla strada di un “governo politico competente che sia in continuità con Monti, come contenuti e come uomini”.
Il vicesegretario del PD ha reso una piena confessione, cosa pretendiamo di più? Il programma di governo del centrosinistra fa rima con austerità, e per disinnescare la mina Grillo va bene anche l’artificiere Satironi, che è più facilmente attaccabile, è ormai “di famiglia”, e soprattutto sa stare al gioco.
Tutto si può dire di SuperSilvio, ma non che gli faccia difetto il fiuto politico: se si imbarca in questa avventura è perché ritiene di avere le spalle sufficientemente coperte o, al contrario, per l’assenza di alternative. Soltanto gli ingenui e gli ultras possono credere alla favola che la ritirata novembrina abbia a che fare con il “senso dello Stato” (di cui l’uomo è notoriamente sprovvisto): allora ci fu un persuasivo attacco a Mediaset da parte dei “mercati” [2], che rafforzò la convinzione del premier di essersi ficcato in un vicolo cieco, sinistramente illuminato dalla lettera della BCE.
Nei mesi successivi il titolo Mediaset ha recuperato buona parte delle perdite, passando da  1,851 (24 novembre) a 2,582 euro (9 febbraio), per poi tornare a scendere abbastanza precipitosamente e toccare il punto più basso (1,144 euro) il 14 giugno scorso. Da allora si nota una leggera ripresa: il 13 luglio, alla chiusura della borsa, l’azione valeva 1,261 euro [3], contro i 3,298 (quasi il triplo!) di un anno fa. Il trend sarebbe “moderatamente negativo”.
In un anno circa l’indice FTSE Italia All-Share [4] ha perso parecchio (oltre il 27%), ma – in proporzione – assai meno di Mediaset.
Ad ogni modo, giugno è stato, per la Borsa italiana e per l’impero berlusconiano, un mese nerissimo: a questo shock, forse, può ricollegarsi la scelta, maturata ad inizio estate, di segnare il territorio e riprendere la partita (e il partito in via di dissoluzione).
Mettiamola così: avesse ricevuto la garanzia di essere lasciato in pace sul piano economico oltre che su quello giudiziario, il cavaliere se ne sarebbe rimasto in disparte, a sollazzarsi con qualche fanciulla in saldo; visto invece che le cose erano un tantino più complicate, Silvio ha rimesso mano al giocattolo, offrendo il suo contributo per la normalizzazione dell’Italia. A giudicare dalla risposta dei mercati – non negativa – e di quella sussurrata dalla politica, pare di poter dire che, per il momento, l’azzardo si sta rivelando vincente.
E’ conscio, il nostro, di ritagliarsi un ruolo di sparring partner (sia pure di peso: protagonisti assoluti sono e saranno i tecnici), e di non avere particolari speranze di ritornare al governo, ma crediamo che la questione non lo angusti più di tanto: da sempre egli vede nella res publica nient’altro che uno strumento per perseguire i suoi privatissimi interessi.
L’inedita alleanza de facto tra destra berlusconiana e centro-senza-sinistra in funzione anti Grillo dovrebbe spianare la strada ad un Monti-bis (o a qualcosa di analogo, nel caso il Professore fosse omaggiato della Presidenza della Repubblica), facilmente giustificabile - dopo una campagna elettorale isterica ma svuotata di contenuti concreti – con l’argomento dell’impossibilità di formare una maggioranza “politica”. E la legge elettorale? La sua riscrittura o, all’opposto, il mantenimento di quella attuale saranno funzionali alle esigenze tattiche del momento: una decisione verrà presa – scommettiamo - solo ad autunno inoltrato.
Per richiamare la metafora calcistica iniziale, ci aspetta, nei supplementari, una violenta melina, che manderà gli spettatori in confusione.
Solo l’inserimento, in questo schema, di una variabile non presa in considerazione – la nascita di una battagliera Sinistra unitaria, ostile al montismo e indisponibile a mucchi selvaggi – potrebbe ostacolare l’esecuzione del piano, la cui riuscita sarebbe invece agevolata dal rientro nei ranghi (di un centro-sinistra fasullo a trazione piddina) di una o due forze che si dichiarano alternative, ma probabilmente ambiscono soltanto a rimettere piede nel palazzo, poco importa se dall’ingresso principale o da quello di servizio.
  


[2] In concomitanza al crollo della Borsa di Milano.
[3] Dati Milano Finanza.
[4] Che rappresenta il 95% del mercato azionario italiano.


sabato 14 luglio 2012

Per un diverso sistema di incentivi sociali, ovvero come evitare Nemesi

 
di Riccardo Achilli


Verso Nemesi?

In un recentissimo convegno di economia cui ho partecipato, che raccoglieva accademici, politici, amministratori pubblici, giornalisti economici e rappresentanti del mondo imprenditoriale e sindacale, non solo italiani ma anche nordafricani, francesi, tedeschi, polacchi, convocato per fare il punto sulle prospettive di occupazione per i giovani, in particolare nell’area mediterranea, sono rimasto stupito, per non dire addirittura sconvolto, dall’atmosfera di scoraggiamento sulle prospettive future dell’economia globale aleggiante in tutto il convegno, e che marca peraltro un salto di qualità negativo rispetto all’edizione dell’anno precedente dello stesso evento, in cui ancora si parlava attivamente di sviluppo regionale, politiche di coesione, attrazione di investimenti fra le due sponde del Mediterraneo, investimenti e progetti di logistica, ecc.
Lo stesso convegno viene convocato, nel messaggio di apertura, sotto l’effigie della dea greca Nemesi, che come è noto è il simbolo della giustizia compensatrice, del destino avverso che colpisce chi troppo si è spinto nel godimento e nel benessere, è in qualche modo la giustizia che colpisce gli smisurati. E gli interventi, sia sul versante accademico che su quello dei “grands commis” dello Stato (anche loro, nello specifico, provenienti dal mondo accademico) sono improntati a questa sorta di latouchismo pessimistico, di idea di un mondo che ha toccato il limite estremo della sua crescita, e che non potrà che arretrare in una decrescita, se non infelice, quanto meno densa di incognite. Un intervento di un docente della Cattolica di Milano è esplicito: il meccanismo di accumulazione del capitalismo si è rotto, e la macchina della crescita non può più essere riparata. Dobbiamo dimenticarci la possibilità di uscire dalla crisi ripristinando una ripresa sostenuta della crescita quantitativa della ricchezza, che non ci sarà più. Il Presidente dell’Istat è ancora più specifico: secondo lui, abbiamo raggiunto il limite fisico della crescita economica globale. Quand’anche “per miracolo”, per usare le sue parole, tornassimo, in Europa, ad un tasso di crescita del 3-3,5% medio annuo, i prezzi del petrolio raggiungerebbero livelli tali da spegnere immediatamente la crescita. Non è più possibile aumentare l’offerta di energia da fonti fossili di fronte all’aumento di domanda energetica derivante da una ripresa economica dell’Occidente, ed il progresso tecnologico in materia di efficientamento e razionalizzazione dell’uso dell’energia comporterebbe, a suo dire, effetti insufficienti a superare l’eccesso di domanda.
Il versante imprenditoriale, ovviamente, rifugge da tale coro, e richiama all’esigenza di ritrovare percorsi di crescita quantitativa, ma le proposte fatte in tal senso dalle rappresentanze imprenditoriali sono forse ancor più deprimenti, perché mettono a nudo con chiarezza che per ritrovare la crescita sono necessari interventi sistemici di ristrutturazione complessiva del capitalismo, per superare almeno i seguenti vincoli, che sono poi quelli citati dagli imprenditori e dagli accademici presenti:
- limiti fisici: lo shortage di energia da fonti fossili non può che essere superato con una modifica complessiva dei sistemi di produzione ed uso dell’energia stessa, sviluppando una tecnologia sulle energie rinnovabili che, oggi, è ancora ad un livello di sviluppo ed utilizzo largamente insufficiente, anche a causa delle resistenze in tal senso operate dai Paesi produttori di fonti fossili, dalle multinazionali petrolifere e del gas, ma anche dall’industria dei mezzi di trasporto, automotive inclusa, e dall’industria delle costruzioni, che dovrebbero ristrutturare completamente il loro paradigma produttivo e tecnico;
- vincoli istituzionali: la costruzione di un’unione politica europea è unanimemente vista come conditio sine qua non per far ripartire una politica economica in grado di coordinare interventi monetari e fiscali, e di superare la bolla del debito sovrano dei singoli Stati, oltre che per mettere in campo quegli interventi di garanzia, vigilanza ed integrazione dei sistemi bancari nazionali, al fine di prevenire la prossima bolla di questa crisi infinita, che probabilmente esploderà sul versante del credito al consumo dei privati, cresciuto, in tutto l’Occidente, a ritmi insostenibili rispetto alla caduta del reddito disponibile generata dalla crisi;
- vincoli strutturali di funzionamento dell’accumulazione, vincoli riferiti cioè allo stesso funzionamento di fondo dell’attuale fase del capitalismo finanziarizzato. Aleggia durante l’intero convegno, anche se non vengono forniti rimedi o soluzioni, l’idea generale che ci si è spinti troppo in avanti con la roulette russa della finanza, e che occorre rimettere al centro la produzione materiale (cosa che d’altra parte è evidente, poiché l’unica ricchezza prodotta è quella dell’economia reale, la finanza è solo una redistribuzione di ricchezza virtuale o anticipata fra pochi giocatori operanti sui mercati globali).
E’ chiaro che far ripartire la ripresa sotto la condizione di eliminare i vincoli sopra richiamati è un’opera che richiederà moltissimi anni, probabilmente il tempo necessario affinché si ricreino condizioni di ripresa della crescita si potrà misurare in lustri, durante i quali l’economia occidentale sarà afflitta da una persistente stagnazione. Sempre che sia possibile effettivamente che la ripresa dell’economia si verifichi concretamente, anche dopo che il capitalismo occidentale avrà portato a termine questa metamorfosi strutturale.
Infatti, le stime dell’EIA sull’emissione di CO2, e quindi sul riscaldamento globale, scontano comunque una crescita dopo il 2009, che porterà il CO2 ad accrescersi del 33% fra 2010 e 2030, di fatto quindi portando la situazione ecologica della Terra al punto di non ritorno, quello in cui anziché preoccuparci della crescita dovremmo preoccuparci della sopravvivenza dell’uomo. Particolare interesse, per i nostri fini, riveste la distribuzione per area geografica di tale 33% di incremento previsto: mentre Europa, Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, cioè i Paesi del capitalismo maturo ad alto tasso di sviluppo, manterranno grosso modo stabile la loro curva di incremento del CO2, le economie emergenti, ed in particolare Cina, India, le altre economie asiatiche emergenti come Taiwan o Singapore, Brasile ed Africa del Nord contribuiranno completamente a tale incremento globale di emissioni dannose.


Fonte: EIA

Queste proiezioni significano due cose:
A) che, se le previsioni di cui sopra sono corrette, nel lunghissimo periodo di stagnazione che attende il capitalismo occidentale nel periodo della sua ristrutturazione in direzione delle linee generali di superamento dei vincoli fisici, istituzionali e strutturali sopra evidenziate, si verificherà un gigantesco spostamento della crescita economica globale dai Paesi capitalisti maturi a quelli emergenti (la curva evolutiva del CO2 è ovviamente correlata positivamente alla curva di crescita del PIL).
Uno spostamento di potenzialità di crescita e di ricchezza che è l’ovvia conseguenza dei mutamenti strutturali della divisione internazionale del lavoro negli ultimi 40 anni. I dati Ocse sono impietosi: il peso dell’industria sul PIL statunitense, fra 1970 e 2010, è sceso dal 20,9% al 15,7%, mentre in Cina l’industria, sul medesimo periodo, passa dal 21% al 38,1%. Viceversa, mentre negli Stati Uniti il peso dei servizi finanziari ed assicurativi sul Pil esplode dal 24,2% del 1970 al 31% del 2009, in Cina tale settore rimane pressoché costante, in termini di incidenza sul Pil, ad un valore percentuale incomparabilmente inferiore a quello statunitense (passando dal 7,6% del 1970 all’8,5% del 2009).
E’ ovvio quindi che si sta verificando un grande cambiamento nel modello di specializzazione produttiva dei sistemi capitalistici maturi e di quelli emergenti. I primi si finanziarizzano, abbandonando l’attività produttiva reale, i secondi diventano di fatto sempre più, tramite le delocalizzazioni prima e la crescita dell’industria endogena poi, la base produttiva reale del mondo. Detto in altri termini, il capitalismo occidentale diventa un capitalismo parassitario, basato sui servizi, che altro non sono (al netto di alcuni settori particolari, come ad esempio la ristorazione, o il turismo) che un modo per far circolare e redistribuire la ricchezza prodotta nel settore produttivo, e che, nel comparto finanziario, diventano soltanto una enorme roulette russa che non genera alcuna ricchezza aggiuntiva di tipo reale, cioè basato sul lavoro socialmente astratto. I capitalismi emergenti, invece, diventano sempre più il cuore dell’accumulazione capitalistica reale e dei processi di riproduzione allargata del capitale produttivo. Mentre le economie parassitarie, privatesi dei meccanismi di accumulazione e crescita, si fermano, quelle emergenti crescono. In fondo, il motivo di base dell’attuale crisi economica è proprio questo: il giocatore di roulette al casinò si è rovinato, mentre la cicala che instancabile lavora sulla produzione di merci continua a crescere, sia pur più lentamente del periodo pre-crisi (più lentamente perché per il momento ha ancora il bisogno di vendere molte delle sue merci al giocatore di roulette, che però essendosi rovinato non ha la liquidità per acquistarle con lo stesso ritmo di prima, ma nel momento in cui la cicala avrà raggiunto una crescita sufficiente del suo mercato interno, non avrà più bisogno di vendere al giocatore di roulette).
Certo, tale affermazione va qualificata meglio.  Personalmente non credo che tutti i cosiddetti BRIC siano destinati ad un futuro glorioso. Personalmente credo infatti che la Cina, lentamente, tenderà ad implodere, non tanto perché i mercati di esportazione europei e nordamericani saranno ancora in crisi per lustri (perché con un mercato interno di oltre 1 miliardo di consumatori, il sistema produttivo cinese potrebbe benissimo sperimentare forme di sviluppo autarchico) o per le pressioni alla rivalutazione del renmibi (perché oggi l’economia cinese non è più, come cinque o dieci anni fa, un’economia basata sulla competitività-prezzo su gamme di prodotti di qualità medio-bassa; oggi la Cina produce ed esporta prodotti ad alta tecnologia ed ad alto valore aggiunto unitario in modo crescente) ma perché la stessa crescita economica cinese sta generando contraddizioni insolubili: l’aumento del valore aggiunto crea i margini per miglioramenti salariali sempre meno rinviabili, poiché se il modello produttivo cinese si sposta da produzioni di fascia medio-bassa verso l’high tech e la qualità, sarà necessario dotarsi di tecnici e lavoratori ad alta qualifica, e ciò creerà inevitabilmente un flusso incontrollabile di popolazione rurale verso le città, che sarà foriero di enormi problemi sociali di integrazione, e quindi di instabilità politica. Il modello dirigista del capitalismo di Stato cinese non potrà a lungo sostenere le esigenze di flessibilità che produzioni sempre più qualitative richiedono, e dovrà fare sempre più spazio al privato (come d’altra parte si sta verificando da anni) e ciò, inevitabilmente, costituirà la base per ideologie politiche liberali in contrasto con la direzione politica nazionale. Anche la Russia, economia che produce sostanzialmente materie prime energetiche, non avrà vita facile, se l’Europa occidentale, come detto, continuerà ad avvitarsi nella stagnazione produttiva per decenni. L’India, Taiwan, il Brasile, la Turchia, ed altre economie emergenti, però, non soffrono di tali contraddizioni, e nei prossimi anni potrebbero essere protagoniste indiscusse della crescita economica mondiale.
B) la crescita delle emissioni dimostra chiaramente come vi sia un gap tecnologico, per cui le tecnologie di risparmio energetico e di sostituzione di energia fossile con energia rinnovabile, che si sviluppano in Occidente, non si trasferiscono alle economie industriali emergenti con la rapidità necessaria per evitare una ulteriore crescita del CO2, e quindi un più che probabile disastro ambientale globale. In questi termini, quindi, il pessimismo manifestato al convegno circa la stessa possibilità di una nuova fase di crescita dopo la crisi, anche fra molti anni, appaiono più che giustificate.

Come evitare Nemesi: la ricostruzione di un diverso sistema di incentivi

Detto questo, e di fronte al più che giustificato pessimismo circa la possibilità che il capitalismo possa, con la sua ennesima ristrutturazione, far ripartire il ciclo di crescita dell’Occidente, foss’anche su orizzonti temporali lunghi, come si pensa di evitare Nemesi, ovvero l’avvitamento in una spirale di stagnazione lunga, che non prelude a nessuna nuova ripresa della crescita, e che addirittura può rivelarsi inutile per evitare la catastrofe ambientale globale, alla faccia dei soloni del latouchismo più superficiale (fra i quali iscrivo anche Beppe Grillo),che vedono in questa crisi la possibilità di attuazione di un salvifico meccanismo di decrescita felice, ignorando che la felicità dipende da un benessere diffuso e equamente distribuito, non dalla riduzione in sé della torta totale da dividere?
E’ evidente che per evitare Nemesi, il sistema debba essere radicalmente ripensato. E, usando il gergo degli economisti, è chiaro che un cambiamento sistemico dipende in modo cruciale dal cambiamento radicale del sistema degli incentivi oggi esistente. La stessa dinamica di classe del conflitto sociale è, a tutti gli effetti, una risposta ad un sistema di incentivi sociali giudicato distorto o iniquo da parte della classe contestatrice, alla ricerca della costruzione di un altro meccanismo di incentivi. Un sistema di incentivi economici rappresenta il motore del cambiamento sociale, ed il modo di produzione dominante in una certa fase storica produce il sistema di incentivi necessario ala sua preservazione ed al suo ulteriore sviluppo, come delineato dalle sue classi dirigenti al potere. Il profitto è, insieme all’individualismo metodologico in campo culturale ed etico (secondo me splendidamente sintetizzato dalla famosa frase di Adam Smith: “non è dalla generosità dell’oste e del birraio che ricaverò il cibo e la birra per il mio desinare, ma dal loro egoistico interesse”), il nucleo del sistema di incentivi dell’attuale modo di produzione, e la disastrosa terziarizzazione e finanziarizzazione dei capitalismi maturi, alla radice della crisi attuale, è una evidente risposta a tale sistema di incentivi: se il saggio medio di profitto tende a scendere come naturale evoluzione della dinamica concorrenziale capitalistica (a sua volta incentivata dall’individualismo metodologico), la risposta non può che essere quella di ritrovare un saggio di profitto crescente, benché artificioso e scollegato dalla produzione di ricchezza reale, nell’investimento finanziario.
La risposta attualmente in atto, dettata dal liberismo più radicale, è evidentemente inadeguata a ricostruire un diverso sistema di incentivi. Non fa che utilizzare gli stessi incentivi che hanno portato al disastro, avvitandoci ancora di più nella crisi. L’unica risposta in grado di darci la premiata compagnia Monti and Friends è quella di assecondare l’attuale già delineata redistribuzione mondiale della ricchezza, invertendo le parti, ovvero impoverendo e precarizzando le società occidentali, in modo da portarle a svolgere, in futuro, il ruolo che oggi è quello delle economie emergenti, ovvero quello di competere sulla massimizzazione del rapporto fra produttività e costo del lavoro, rinunciando a qualsiasi velleità in materia di qualità sociale dello sviluppo. domani, in questa visione, noi saremo quello che oggi è il Vietnam: produttori a basso costo di scarpe e capi di abbigliamento, e camerieri al servizio del turismo internazionale. E tutto ciò, peraltro, non salverà il mondo dal disastro ambientale, atteso che i nuovi ricchi del domani, quelli che oggi si chiamano economie emergenti, saranno proprio quelli che alimenteranno la crescita delle esternalità ambientali negative, rilevando il testimone dalle economie occidentali, come rammentato in precedenza.
Occorre quindi un nuovo sistema di incentivi, e la conferenza cui ho assistito, sia pur in modo parziale e non sistematico, ha iniziato a delinearlo, ed in questo, peraltro, risiede il secondo motivo della mia sorpresa nell’assistervi. Un simile sistema di incentivi deve essere basato su quattro assi: il ritorno ad un’economia al servizio dell’uomo, il ritorno all’economia reale, un’integrazione politica europea basata sui popoli, una revisione più libertaria dei meccanismi delle nostre democrazie. Vediamo più nel dettaglio questi quattro assi che compongono il nuovo sistema degli incentivi:
A) il ritorno ad un’economia al servizio del raggiungimento di un livello di benessere accettabile per gli uomini tutti, e che non sia mirata alla ricchezza straordinaria di ristrettissime élites, a fronte della miseria di grandi masse; ciò significa fondamentalmente che occorre considerare alla stregua di beni pubblici, ovvero di beni caratterizzati da non conflittualità e universalità nell’accesso, elementi come un reddito minimo garantito per tutti, pari ad almeno il 60% del reddito mediano (questo è il livello minimo che, secondo una raccomandazione del 2010 del Parlamento europeo, mai applicata, previene la formazione della povertà) al fine di riportare all’interno del circuito dei consumi, e quindi del contributo alla crescita, 2,6 milioni di famiglie (il 10,4% del totale delle famiglie italiane) che, soltanto in Italia, hanno oggi un ISEE[1] pari a zero, cioè non hanno né reddito né patrimonio. L’obiettivo deve essere quello di arrestare la crescita dell’indice del Gini, che è un indicatore sintetico delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, e che in Italia disegna una società più diseguale degli altri partner europei: nel 2010, infatti, l’indice del Gini italiano è più alto di quello dell’area-Euro (0,312 a fronte di una media europea di 0,302). Inoltre, l’indice del Gini dell’area-euro è cresciuto, da 0,292 nel 2005 a 0,302 nel 2010, segnalando come l’approccio liberista alle politiche europee fiscali e di bilancio stia aggravando le diseguaglianze economiche (fonte dei dati: Eurostat).
Altri beni pubblici devono essere rappresentati dal diritto al pieno impiego di qualità (caratterizzato cioè da stabilità) attraverso opportune politiche attive del lavoro e politiche industriali, fissando obiettivi occupazionali coerenti con la stima del NAIRU[2], la sanità e l’educazione pubblica, rispettivamente in grado di eliminare la mortalità per cause evitabili e di aumentare la speranza di vita in buona salute, nonché di fornire competenze di base omogenee su standard crescenti, che devono essere aumentati continuamente, e meccanismi egualitari per l’accesso meritocratico alle competenze superiori, il diritto alla mobilità, il diritto alla connettività alla società dell’informazione;
B) il ritorno ad un’economia basata sulla produzione reale, e non sul casinò della finanza. Ciò, nel breve periodo, può ottenersi con provvedimenti mirati a ridurre e regolamentare l’incidenza dell’attività finanziaria in quella economica. Un primo passo sarebbe quello di separare, in modo rigido, l’attività delle banche commerciali da quella delle banche di investimento, ripristinando il divieto contenuto nel Glass-Steagall Act, al fine di impedire che le bolle sui mercati finanziari si trasferiscano al credito ordinario, generandone una contrazione negativa per l’economia reale.
Occorrerebbe inoltre agire con decisione sui rendimenti del debito sovrano, tagliando le gambe alla speculazione in atto sugli stessi, mutualizzando il debito pubblico degli Stati europei tramite l’emissione di eurobond, in modo tale da poter contare su un debito pubblico che, a livello aggregato dell’intera area-euro, è pari ad appena l’87% del PIL di questa, ed è quindi sostenibile con rendimenti inferiori a quelli che in singoli Stati possono spuntare, consentendo anche di eliminare la follia del vincolo di pareggio di bilancio e recuperando margini di flessibilità nell’uso della spesa pubblica.
Nell’immediato, infine, sarebbe possibile, sia per il singolo Stato che a livello comunitario, imporre per legge forme di prestito forzoso, obbligando cioè i cittadini con un patrimonio personale superiore ai 100.000 euro ad investirne una piccola parte (per esempio lo 0,5%) in acquisto di titoli pubblici ad un rendimento inferiore a quello del mercato. In Italia, un simile provvedimento, applicato al 10% di popolazione più ricca, con il vincolo di investire lo 0,5% della loro ricchezza in Btp ad un rendimento netto del 2%, secondo una mia stima basata sui dati dell’indagine sulla ricchezza delle famiglie di Bankitalia, e sull’attuale rendimento netto medio dei Btp, consentirebbe di risparmiare 6,2 miliardi di interessi nell’immediato, più un ulteriore risparmio futuro di tipo strutturale, quantificabile prudenzialmente in circa 2 miliardi all’anno, derivante dalla pressione alla riduzione della curva dei rendimenti medi che si formano alle aste di collocamento. Evidentemente tutto ciò contribuirebbe a ridurre lo spread, che è l’indicatore di base che orienta la speculazione sui debiti sovrani.
In un periodo più lungo, tuttavia, il ritorno ad un’economia basata sul lavoro e la produzione implicherebbe misure più drastiche, come la nazionalizzazione (o a livello nazionale o a livello europeo, se l’Europa riuscirà a strutturarsi come soggetto politico) delle banche operanti su scala internazionale, al fien di ricndurre la funzione creditizia al suo ruolo sociale, e la formazione di un circuito bancario a livello locale e territoriale basato soprattutto sul modello di banca cooperativa, che l’esperienza italiana dimostra essere l’unica struttura bancaria in grado di continuare ad erogare credito alle piccole imprese ed alle famiglie anche in fasi di “credit crunch”, grazie ai legami fiduciari che si costituiscono fra i soci della banca cooperativa stessa.
Infine, nel lungo periodo non è evitabile una ridefinizione del sistema dei prezzi che sia legata al tempo di lavoro socialmente astratto in questa impiegato. Un concetto utile a misurare il tempo di lavoro incorporato nelle produzioni, anche se ovviamente da sviluppare analiticamente, è la Rosa di Peters, ripresa da Dieterich e dai teorici del socialismo del XXI Secolo. Essa consente di considerare, nella determinazione del tempo di lavoro complessivo, sia il lavoro vivo che quello incorporato nei mezzi di produzione, arrivando ad una misurazione complessiva.
E’ evidente il vantaggio di un sistema economico che commisura i singoli prezzi direttamente in base al lavoro socialmente incorporato nel singolo prodotto: tale sistema, infatti, elimina qualsiasi remunerazione per attività non incorporate, né direttamente né indirettamente, nel processo produttivo, come per l’appunto la speculazione finanziaria.   
La questione della trasformazione dei valori in prezzi è una delle più controverse della teoria economica, ma risulta tuttavia, a mio parere, risolta dal contributo di Cingolani (1990) che dimostra come, in un sistema sraffiano verticalmente integrato, assumendo noto il vettore dei salari reali, è possibile definire i prezzi di produzione come proporzionali alla quantità di lavoro diretto ed indiretto contenuto in una unità di capitale variabile espressa in natura, e che inoltre dimostra l’uguaglianza, a livello complessivo, fra prezzo totale e valore-lavoro totale, nonché fra plusvalore totale e profitto totale, alla base della teoria del valore di Marx. In tal modo, quindi, si dimostra la validità della fondamentale legge marxiana secondo cui i prezzi di mercato (che gravitano attorno ai prezzi di produzione, che ne rappresentano in qualche modo la media delle variazioni, cioè i prezzi strutturali) possono singolarmente, cioè a livello di singolo prodotto, differire dal valore-lavoro del singolo prodotto, ma a livello aggregato dell’intera economia, compensando tutte le oscillazioni dei singoli prezzi dal valore-lavoro, il valore complessivo del prodotto è esprimibile in valore-lavoro, così come le variabili distributive (salario e profitto) sono ugualmente esprimibili in termini di lavoro socialmente necessario.
Da questo punto di vista, quindi, rimane valida la natura di “velo” che i prezzi di mercato esercitano, nel mascherare la natura reale del valore prodotto complessivamente, quindi la sostituzione del sistema dei prezzi con un sistema direttamente, ed anche singolarmente, cioè per specifica merce, correlato al lavoro diretto ed indiretto, risolverebbe alla radice il problema – peraltro del tutto apparente se misurato a livello aggregato – della trasformazione di valori in prezzi.



C) Un’idea di integrazione europea diversa dall’idea monetarista veicolata dai mercati finanziari e dalla Bundesbank, e fatta propria dalla burocrazia autoreferenziale della Commissione Europea. Per uscire da questa fase noi abbiamo bisogno di più Europa. Chi si illude di coltivare idee di ritorno ad un nazionalismo obsoleto, magari addirittura accompagnate da pseudo-modelli autarchici, commette un errore pericoloso. L’integrazione europea ci serve per tornare a parametri finanziari ed economici sostenibili, e per respingere l’attacco speculativo sui debiti sovrani, che ovviamente i singoli Paesi PIIGS, da soli, non hanno le forze di sostenere il problema non è l’euro. Qualsiasi area valutaria ha un’unica moneta. Anche l’Italia ai tempi della lira era un’area valutaria, in piccolo analoga a quella dell’euro, poiché la lira valeva per le sue venti regioni. 
Il problema vero risiede in un’Europa priva di sovranità democratica, dove le politiche monetarie vengono decise da oligarchie tecnocratiche autoreferenziali, e rispondenti solamente agli interessi dei capitalisti finanziari, ovvero la Bce e la Commissione Europea, e dove i vincoli alle politiche fiscali vengono imposti dall’alto. Il Parlamento Europeo, che è l’unico organismo rappresentativo dei popoli, ha poteri troppo limitati. Il Consiglio è solo il luogo della ratifica, fra capi di Stato e di Governo, di decisioni assunte a seguito di negoziazioni opache, lontane dall’attenzione delle opinioni pubbliche.
Quello che serve non è l’abbandono dell’euro, che peraltro anche le esperienze più avanzate della sinistra radicale, come Syriza, non chiedono, ma è il recupero di modelli di area valutaria ottimale, come quello di Kenen, basati cioè:
-          su una politica industriale comune, effettuata su scala europea, e che miri a massimizzare la diversificazione produttiva, basandosi su modelli di vantaggio comparato nel determinare le priorità di sviluppo settoriale per Paese membro e per area;
-          su politiche fiscali espansive rispetto alla domanda aggregata dei Paesi membri a minor tasso di crescita, atte a contrastare le sacche di disoccupazione che inevitabilmente si verificherebbero a seguito di differenziazioni nei livelli delle domande interne combinate con una imperfetta mobilità del lavoro; in sostanza, trasferimenti dalle aree più "ricche" a favore di quelle più "povere", il che riviene a potenziare finanziariamente, e rendere più flessibile, la politica europea di coesione (fondi strutturali);
-          su politiche monetarie accomodanti rispetto a quelle fiscali, e quindi espansive, entro i limiti della trappola della liquidità;
-          su politiche sociali e del welfare comuni, che evitino di abbandonare i singoli sistemi di welfare dei Paesi membri alla mercé delle possibilità offerte dai loro bilanci nazionali (creando quindi welfare più generosi nei Paesi finanziariamente più stabili ed a più alto tasso di crescita, e welfare più magri nei Paesi più indebitati, generando quindi pericolose disparità fra i popoli europei);
-          sulla messa in comune del debito pubblico, tramite una gestione europea, ed un maggior controllo politico sulle politiche monetarie della Bce. La storia delle banche centrali autonome dalla politica deve cessare, perché è stata l’anticamera della prevaricazione degli interessi della finanza sulla politica e sulle opinioni pubbliche. Ma le politiche monetarie generano, tramite la cinghia di trasmissione del tasso di interesse e della massa di circolante, effetti molto importanti sui prezzi, sui livelli di credito, sulla domanda per consumi, sugli investimenti, sull’occupazione, sul tenore di vita dei cittadini. La politica ha il dovere di determinare le linee-guida della politica monetaria. Non può abbandonarla alla banca centrale ed alle oligarchie finanziarie.
D) una revisione dei meccanismi delle nostre democrazie, onde recuperare una reale sovranità popolare nelle scelte. Non c’è bisogno di scomodare Condorcet, ed il suo famoso paradosso, per rendersi conto che i meccanismi elettorali possono condurre ad esiti nei quali prevale un’opzione di minoranza, né di scomodare Arrow, per sapere che nessun sistema di voto può contemporaneamente soddisfare i criteri di universalità delle opzioni possibili, piena sovranità del cittadino-elettore nella scelta, perfetta rappresentatività, da parte della funzione di scelta sociale, delle modifiche nelle singole funzioni di scelta individuali.
I limiti delle democrazie borghesi, che le rendono manipolabili da gruppi di potere quantitativamente minoritari, sono alla base dell’attuale deriva oligarchico-tecnocratica, imposta ai Paesi europei, come l’Italia, sottoposti alla dittatura della trojka. Una deriva che rischia di tradursi in un vero e proprio autoritarismo camuffato sotto sembianze democratiche puramente formali.
Non vi è modo di opporsi a tale deriva se non si introducono in modo sistematico forme di democrazia dal basso, di estensione del voto popolare su questioni strategiche, di consultazione obbligatoria dei cittadini in fase di pianificazione economica, restituendo agli stessi, in modo trasparente, gli esiti della consultazione, i suggerimenti accolti ed i motivi per quelli non accolti, di devoluzione federalistica verso il basso di competenze e poteri. E non vi è modo di opporsi a tale deriva se non si difendono i sistemi pubblici (ovviamente trasparenti e controllabili dai cittadini) di finanziamento dei partiti, proibendo la donazione dei privati, e se non si introducono limiti al numero di incarichi politici che un individuo può ricoprire nella sua vita, restituendo la politica al suo senso reale di missione per la società, e non di carriera professionale vita natural durante.

Che fare per tornare ad Itaca

Con un simile sistema di incentivi, probabilmente potremmo ancora recuperare un percorso di crescita e sviluppo, evitando il vincolo fisico ed ambientale che ci porterebbe al disastro ambientale finale. Un’economia basata sull’equivalenza dei valori di scambio di lavoro sociale, su una maggiore partecipazione politica delle comunità locali, su un minore peso della finanza, porterebbe anche ad maggiori stimoli allo sviluppo di sistemi energetici sostenibili ed all’uso razionale delle risorse ambientali. Infatti, l’attuale sistema dei prezzi, non direttamente collegato (se non a livello aggregato complessivo) al valore-lavoro sottostante, non fornisce segnali sufficienti a quantificare le esternalità negative generate dai processi produttivi, in particolare sull’ambiente. Il prezzo corrente di un barile di petrolio non include anche il valore del danno ambientale che la sua estrazione ha comportato. Se tale prezzo fosse espresso in lavoro diretto ed indiretto, terrebbe conto anche del lavoro necessario per ripristinare i danni ambientali generati, e quindi diverrebbe economicamente meno conveniente rispetto ad altre fonti energetiche alternative. 
Il recupero di un’economia mirata al benessere ed a una maggiore eguaglianza sociale e distributiva, ed una maggiore focalizzazione sulla produzione reale, consentirebbero di recuperare anche la compatibilità sociale, che la fase finanziarizzata del capitalismo sta compromettendo, il che, unitamente  ad un recupero di una idea democratica di integrazione europea, e di ristrutturazione in senso maggiormente partecipato delle nostre società, consentirebbe anche di evitare l’armageddon di nuove guerre mondiali, sempre presente quando il meccanismo di accumulazione capitalistica si blocca, a causa di crisi persistenti some quella attuale.
Oggi, con il sistema attuale di incentivi che la nostra società ha, siamo dominati dal mito di Efesto, ovvero dal mito della produzione continua e dall’illusione della crescita quantitativamente infinita, e dal mito di Ermes, che conduce all’idea di relazioni umane intermediate dall’interesse commerciale, dalla mercificazione, che conduce ad una comunicazione fasulla, priva di contatto personale (non a caso la comunicazione “ermetica” è tipica anche dei social network) e quindi porta direttamente all’individualismo metodologico. Efesto ed Ermes, come miti dominanti, ci porteranno definitivamente verso Nemesi. A meno che, con un diverso sistema di incentivi, non si vada verso una società dominata dal mito di Apollo, dio della creatività, e di Atena, come dea della saggezza, ma anche come dea della Polis, ovvero della buona politica, fatta al servizio di cittadini liberi e consapevoli.
Rimane naturalmente il problema del "che fare" per arrivare ad integrare i quattro incentivi di cui si è discusso. Tali incentivi prefigurano, ovviamente, un radicale cambiamento di sistema, che non può che essere il frutto di una rivoluzione. Il problema fondamentale quindi è: siamo oggi in condizioni oggettive e soggettive tali da ritenere realistica, nell'immediato, una rivoluzione? Personalmente, ritengo che nell'Occidente ad elevato sviluppo del modo di produzione capitalistico, le seconde si creeranno in tempi lunghi e dopo un ulteriore precipitare della situazione economica delle classi oppresse e delle loro libertà politiche. E non perché non si possa creare una avanguardia di rivoluzionari determinati e ben preparati. Ma perché gli stessi meccanismi del welfare istituiti nella fase socialdemocratica del capitalismo post bellico, e l'ampliamento delle libertà politiche e sociali formali in una proporzione mai vista nella storia occidentale precedente al secondo novecento, fanno sì che oggi la classe propulsiva di una possibile rivoluzione (che non coincide piu' con il proletariato industriale soltanto, ma si allarga anche ad un proletariato piu' ampio, che include la mezza classe impiegatizia terziarizzata ed i giovani ad alta istruzione e privi di prospettive lavorative stabili, i precari, ecc.) non chieda piu' la sua liberazione dal giogo del capitalismo, ma soltanto il ritorno (impossibile) alla sua fase socialdemocratica, al welfare che proteggeva il cittadino dalla culla alla tomba, al modesto ma crescente benessere, alla promessa (oramai irrimediabilmente tradita) di una stabilità lavorativa che sia anche stabilità dell'orizzonte esistenziale.
Chi pensa alla possibilità, nell'immediato, di una rivoluzione, sottovaluta l'attrattività in termini di benessere materiale, tempo libero, libertà formali, stabilità e pace che il capitalismo nella fase welfaristica esercita sul proletariato. Che quando ha sperimentato tale fase, non è piu', nell'immediato, disposto a sacrificarsi in una rivoluzione, ma chiede semplicemente di tornare a quell'età dell'oro (tale richiesta è ovviamente impossibile da soddisfare, ma occorre tempo, e un impoverimento notevole, per comprenderlo). Solo in condizioni di immiserimento più gravi di quelle attuali, quando sarà oramai cancellato il ricordo del benessere del capitalismo welfaristico, gli oppressi ritroveranno l'energia primaria della violenza.
Nel frattempo, e nell'attesa che tali condizioni maturino, occorre, a parere di chi scrive, che la sinistra si concentri su una fase transitoria, in cui:
- da un lato, utilizzi gli strumenti, seppur distorti, della democrazia liberale, del voto e del parlamentarismo, per implementare forme di riformismo radicale, che possano quindi ottenere alcuni dei provvedimenti di breve termine che possano avvicinarci, sia pur in piccola misura, alla costruzione del sistema di incentivi per una civiltà diversa di cui si è parlato. Il primo incentivo da mettere in piedi per uscire dagli effetti sociali più devastanti dalla crisi e poter quindi e in termini di ricostruzione del sistema su base diverse è quello di indurre il cpaitalismo ad uscire dal casinò finanziario e toranre ad una maggiore focalizzazione sull'economia reale, in modo da riallargare  la base produttiva, l'occupazione ed i redditi. Nel solo 2010, gli investimenti finanziari nel mondo, al netto degli investimenti in costituzione di riserve delle banche centrali, sono stati pari a circa 4.300 miliardi di dollari, per la parte contabilizzata, piu' la parte over the counter, che potrebbe essere anche di 10 volte superiore, quindi parliamo di un valore di investimenti puramente finanziari pari a circa 50.000-60.000 miliardi, se non anche di più. Gli investimenti a finalità produttiva, nel mondo, nel 2010, sono stati invece pari a soli 16.500 miliardi: per ogni dollaro investito in attività reali, quasi 4 dollari vengono investiti in attività finanziarie. Come incentivare l'immensa massa di investimenti finanziari a tornare verso il comparto reale? Ciò può farsi solo con una congerie di misure, già trattate nel presente articolo (sistemi di prestito forzoso, normative simili al Glass-Steagall Act, previsione di un rimborso in valuta nazionale di banconote ed attività finanziarie denominate in euro se il Paese dichiara default, unitamente a parametri stringenti per la dichiarabilità del default, per evitare azzardi morali da parte del governo di quel Paese, sistemi di reddito minimo garantito e di sostegno alla domanda per consumi, per riattivare la convenienza ad allrgare la base produttiva). Tutto ciò può farsi anche con una sinistra che vinca le elezioni, tramite i meccanismi parlamentari borghesi, e raprpesenta la base per avanzamenti successivi;
- d'altro lato, tale fase transitoria deva preparare il campo alla rivoluzione che costruirà una civiltà basata su un diverso sistema di incentivi, soprattutto lavorando, per il momento, sul campo dell'inseminazione culturale di una rinnovata coscienza di classe, facendo capire che anche le conquiste riformiste ottenute non sono di per sè sufficienti.
Senza questo accorto mix di minimalismo riformista e preparazione ad un futuro massimalista e rivoluzionario, non si va da nessuna parte. Il recupero di un approccio graduale alla Kautsky non deve essere considerato una bestemmia, ma una necessità.   


[1] Indicatore della Situazione Economica Equivalente, ovvero un indicatore che combina il reddito familiare con elementi di patrimonio immobiliare e mobiliare della famiglia, correggendo tale ricchezza complessiva con un coefficiente proporzionale al numero di componenti della famiglia.
[2] Not-Accelerating Inflation Rate of Unemployment, ovvero la disoccupazione minima, e del tutto temporanea, che deriva da motivi meramente frizionali nelle dinamiche di offerta e domanda di lavoro, o da motivi volontari del lavoratore, che non può ragionevolmente essere maggiormente compressa, se non al prezzo di una crescita dell’inflazione da costi che comporti costi sociali superiori al beneficio marginale di ridurre ulteriormente la disoccupazione stessa al di sotto del NAIRU.

mercoledì 11 luglio 2012

A “RIFORMARE” LA COSTITUZIONE CI PENSA LO SPREAD di Norberto Fragiacomo





Chiamatela, se volete, “profezia”, ma è una previsione fin troppo facile: presto attaccheranno a dirci che neppure la prima parte della Costituzione è un “totem”, che nell’età della Globalizzazione ci vogliono più doveri e meno diritti (altrimenti i mercati si innervosiscono!) e che, per farla breve, una Repubblica “fondata sul lavoro” è un anacronismo [1], un’utopia da dogmatici che scambiano le loro ubbie filosofiche per realtà.
Il Popolo - re travicello sbertucciato e in ceppi - chinerà docile il capo, e vedrà cadere come foglie tutti i principi di civiltà enunciati, in un italiano elegante e asciutto, dai Titoli I, II e III. Sanità e assistenza pubbliche, istruzione garantita (con tanto di sostegno ai poveri ma svegli!), retribuzione sufficiente a “una vita libera e dignitosa”, diritto di associazione e di sciopero… l’elenco potrebbe proseguire, ma le foglie, sappiamo per esperienza, cadono quando sono gialle e ormai secche: la riscrittura dei testi seguirà, non annuncerà, la trasformazione della società in una giungla hobbesiana.
L’Italia e l’Europa sono trascinate alla deriva da un vento irresistibile, ma “intelligente”: quello dello spread, dei mercati – loro sì totem, idoli aztechi, lupi Fenrir a caccia di preda. In verità, la revisione costituzionale è iniziata da tempo, e non ci riferiamo soltanto alla fulminea riforma dell’articolo 81, che ha cancellato la sovranità nazionale in materia economica. Parliamo di modifiche striscianti, subdole, all’assetto istituzionale del Paese, che vengono apportate sottotraccia, talvolta nell’indifferenza (o con il beneplacito) di chi sul rispetto delle regole è chiamato a vegliare.
La spending review è solo l’ultima puntata (ultima per adesso, s’intende!) di un serial inguardabile, fatto di manovre che, taglio dopo taglio, hanno abbattuto l’albero del regionalismo, riaccentrando ogni potere nelle mani dell’autorità statale - cioè di coloro che, dall’esterno, la controllano. Se fino a un paio di anni orsono il “federalismo” era, più che un progetto, uno slogan elettorale acchiappagonzi, oggidì le stesse autonomie locali sono ridotte a ectoplasmi, entità prive di corpo e, soprattutto, di risorse spendibili. Sulla Carta esistono ancora, ma la loro capacità d’azione è pressoché nulla. Che c’importa di regioni e province, sbufferanno in parecchi: sono nient’altro che enti mangiasoldi. Può darsi, ma è opportuno non dimenticare che le prestazioni di welfare sono erogate, al presente, proprio dal sistema delle autonomie. Regioni in pericolo significa, anzitutto, sanità pubblica a rischio estinzione.
Eppure sembrava, fino a pochi anni fa, che la situazione dovesse evolversi in direzione  radicalmente opposta.  Invero, era stata proprio l’Assemblea Costituente ad “inventare” le Regioni, rinnegando l’impostazione rigidamente centralistica che aveva contraddistinto l’Italia sabauda e poi (anche) fascista.
L’articolo 117 prima maniera assegnava, infatti, agli (istituendi) enti regionali competenza concorrente [2] in talune specifiche materie, oltre ad una potestà normativa di attuazione delle leggi statali; in più, alle cinque Regioni autonome venivano attribuite competenze esclusive, individuate dai rispettivi statuti speciali. Si può parlare, tutt’al più, di un regionalismo abbozzato: da un lato, infatti, le materie di competenza regionale costituivano puntuali eccezioni alla regola generale, dall’altro, l’attuazione del Titolo V richiese tempi biblici (le amministrazioni regionali diventano operative appena negli anni ’70).
Un’occasione perduta, forse – senonché l’articolo 5 della Costituzione apriva la strada ad eventuali, futuri adeguamenti istituzionali in direzione “federalista”, sancendo, accanto al principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica, il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali.
Lo sfascio della c.d. “Prima Repubblica” e la prepotente ascesa di nuove forze politiche “nordiste” (la Lega e Forza Italia) suscitarono un vivace dibattito in seno alla società ed alle istituzioni: l’opzione “federalista” acquisì consensi, sovente interessati, anche se – fra gli addetti ai lavori – si continuò a parlare, più propriamente, di decentramento e/o regionalismo.
L’anno di svolta può essere considerato, in realtà, il 1990: in giugno viene approvata la legge 142 – poi confluita nel testo unico del 2000 – che, oltre a riconoscere uno statuto a ciascun ente locale territoriale, individua nel comune l’ente esponenziale degli interessi della comunità. Seguono l’elezione diretta di sindaco e presidente della provincia (in seguito anche di quello della regione) e soprattutto, a fine millennio, il “Federalismo a costituzione invariata” delle riforme Bassanini, che prelude ad una frettolosa riscrittura del Titolo V della Costituzione, finalizzata a potenziare il ruolo delle autonomie.
Licenziata a fine legislatura, e poi confermata da un referendum popolare, la legge costituzionale 3/2001 si incarica di traghettare il sistema da un centralismo con elementi di autonomia ad un regionalismo astrattamente compiuto, che trova espressione negli articoli 114 e 117. La prima disposizione attribuisce pari dignità ai soggetti istituzionali (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato), recependo il principio, di conio europeo, della sussidiarietà verticale; il cuore della riforma è però il nuovo articolo 117, che toglie allo Stato la competenza legislativa generale, affidandola, in linea di massima, alle Regioni. Al livello centrale vengono assegnate talune materie in via esclusiva (comma 2); altre, sempre puntualmente enumerate (comma 3), vengono definite concorrenti; le competenze residuali (comma 4), infine, spettano alle Regioni. Anche “qualitativamente” il legislatore regionale viene equiparato al Parlamento, imponendosi ad entrambi (art. 117, comma 1) il solo rispetto della Costituzione, dei principi comunitari e degli obblighi internazionali.Pare un “ribaltone” costituzionale, ma forse l’apparenza inganna: come sarà presto notato dai giuristi, competenza residuale non è sinonimo di competenza esclusiva (regionale), e il rischio di sovrapposizioni e cortocircuiti istituzionali non risulta scongiurato. Questo perché se talune materie statali sono sufficientemente delimitate ed “oggettivate” (es.: immigrazione, sicurezza dello State), altre appaiono destinate, per la loro indeterminatezza (es.: tutela della concorrenza), a creare interferenze con il livello regionale. Quando il maestro si addormenta, tocca al supplente – e il compito viene svolto egregiamente, nei primi anni del secolo, dalla Corte Costituzionale che, più che interpretare, rimastica il Titolo V, per renderlo finalmente applicabile. La distinzione tra materie-oggetto e materie-funzioni è difatti di matrice giurisprudenziale; alcune pronunce iniziali si conformano in pieno allo spirito riformatore del Parlamento, aprendo nuovi varchi all’iniziativa regionale.Senza assurde pretese di completezza, merita citare una manciata di decisioni: la sentenza 407/2002 – malgrado la tutela dell’ambiente sia di esclusiva competenza statale ex articolo 117, 2° comma, lettera s) – ritaglia un ruolo per le regioni, pur nel rispetto delle “disposizioni meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale” [3]; le decisioni 282 e 94/2002 escludono che, per poter esercitare le proprie potestà legislative di tipo concorrente in ambito tributario, le Regioni debbano attendere l’eventuale determinazione di nuovi principi fondamentali da parte dello Stato, potendosi rifare a quelli già in vigore; ancora, la sentenza 272/2004 subordina, in tema di lavori pubblici, la legittimità dell’intervento statale al rispetto dei canoni di proporzionalità e adeguatezza.
L’esordio è dunque incoraggiante, ma ben presto le cose incominciano a mutare, assieme all’indirizzo della Consulta che sempre più spesso fa proprie le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, arrivando, ad esempio, a considerare norme di principio – e perciò vincolanti – tutte o quasi le disposizioni contenute nel Codice dei contratti (sentenza 401/2007) e persino a negare la legittimità di discipline anche migliorative di quella statale in campo ambientale (sent. 214/2008)[4].
Il nuovo atteggiamento della Corte conduce, in qualche occasione, ad affermazioni criticate e criticabili, come quando viene sancito (sentenza 325/2010) che la materia dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (servizio idrico integrato compreso!) rientra nella tutela della concorrenza, di esclusiva competenza statale, e che la rilevanza economica è stabilita in via esclusiva dallo Stato sulla base di criteri “oggettivi”, ove vi sia un mercato anche solo “potenziale”. Singolare – e preoccupante – che in questa circostanza (ma non sarà l’unica) la Corte faccia prevalere le priorità del mercato sugli interessi dei cittadini; sulla questione, comunque, ritorneremo.
Nella seconda metà dello scorso decennio il legislatore – più per esigenze elettorali e di contenimento di spesa che di rivisitazione del sistema – dà il via ad una “stagione federalista”, culminata nell’emanazione della legge delega 42/2009 sul federalismo fiscale. La normativa prevede il superamento del criterio della spesa storica in favore di quello, dichiarato più responsabilizzante per regioni ed enti locali, dei c.d. fabbisogni standard. La finalità è far sì che, in tempi di penuria, lo scialo di risorse venga scongiurato, e si affermino ovunque le best practice delle regioni “virtuose”.
La metamorfosi non s’è ancora compiuta (sono entrati in vigore solo alcuni dei decreti attuativi) allorché, nella tarda primavera 2011, la tempesta finanziaria si abbatte sul nostro Paese. L’asserita necessità di tamponare l’emergenza segna, di fatto, l’archiviazione della pratica federalista: tre pesantissime manovre finanziarie, succedutesi in meno di un semestre, annullano l’autonomia di manovra degli enti territoriali, regioni comprese (senza distinguere tra quelle ordinarie e quelle speciali). Tra tagli di risorse e inasprimento del Patto di stabilità il sistema perde qualcosa come 39,3 miliardi di euro in tre anni [5], ma non è finita: il decreto sulla spending review, in corso di approvazione (luglio 2012), prevede ulteriori risparmi per un ammontare di 7,2 miliardi in due anni.
Per evitare l’asfissia, le Regioni impugnano immediatamente le leggi taglia-spese (e ammazza-Italia) – lo Stato però fa lo stesso nei confronti di qualsivoglia normativa regionale si azzardi a contravvenire all’undicesimo comandamento del risparmio über alles.
Si è aperto un conflitto istituzionale senza precedenti per la sua gravità, ma inedito è pure l’atteggiamento del Governo nazionale, inflessibile nel subordinare al “risanamento” ogni altra esigenza giuridica e sociale. In un caso, l’Avvocatura sostiene - senza giri di parole - che la serietà della situazione autorizzerebbe di per sé lo Stato a derogare alle regole costituzionali di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e ad «intervenire legislativamente in ogni materia», in ottemperanza ai doveri espressi dalla Costituzione ed in applicazione dei principi costituzionali fondamentali della solidarietà economica e sociale, dell’uguaglianza economica e sociale, dell’unità della Repubblica, della responsabilità internazionale dello Stato ecc. ecc.
Si teorizza, dunque, la sospensione della Carta costituzionale a motivo della crisi, non senza far ricorso – per sicurezza – alla materia-non materia del “coordinamento della finanza pubblica”; da parte loro, le Regioni lamentano la violazione del principio di leale collaborazione (art. 120), visto che ormai l’autorità centrale decide su tutto senza previe consultazioni, e specialmente evidenziano come l’enormità dei tagli (a ripetizione) impedisca agli enti di far fronte ai propri compiti istituzionali, primo fra tutti l’erogazione delle prestazioni sanitarie [6] e assistenziali. Lo scarso riguardo per le “forme” (che in democrazia sarebbero però sostanza!) dei Governi Berlusconi prima, Monti poi è testimoniato dal fatto che i drammatici tagli alla sanità riguardano anche Regioni, quali il Friuli Venezia Giulia, che stanno fuori dal Servizio sanitario nazionale e finanziano i servizi con risorse proprie.
Arduo fare previsioni sull’esito del confronto centro-periferia, ma è tuttavia utile spendere qualche riga in merito alla funzione (concorrente) coordinamento della finanza pubblica, che fino a qualche mese fa componeva un’endiadi con la materia “armonizzazione dei bilanci pubblici [7]”. Il principio è stato spesso utilizzato dalla Consulta come “spartiacque” tra la competenza statale e quella regionale: secondo la sentenza n. 414/2004, “il coordinamento della finanza pubblica, cui fa riferimento l’articolo 117, comma terzo, della Costituzione, è, più che una materia, una funzione che, a livello nazionale, spetta allo Stato (…) ciò non esclude che il coordinamento incidente sulla spesa regionale deve limitarsi a porre i principi ai quali la regione deve ispirare la sua condotta finanziaria, lasciando, poi, alla Regione la statuizione delle regole di dettaglio della condotta medesima.” In… soldoni, spetta allo Stato determinare l’entità complessiva dei risparmi (quanto tagliare), mentre alla Regione è concessa una certa autonomia circa le scelte di bilancio (dove tagliare).  Il problema però resta, dal momento che le manovre governative fissano, Regione per Regione, obiettivi quantitativamente definiti di riduzione di spesa – e dunque lo Stato si attiene alla lezione della Consulta – ma, nei casi indicati, le decisioni assunte a livello centrale hanno un pesante riflesso, nella pratica, sul godimento di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione.Quid iuris se tagli economicamente “necessitati” pregiudicano il diritto alla salute (art. 32) e ad una retribuzione adeguata (art. 36), o se un vincolo europeo (da rispettare ai sensi dell’art. 117, 1° comma) osta alla rimozione di ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ecc. ecc. (art. 3)?
Apparentemente la soluzione è semplice: i diritti sanciti nella prima parte della Costituzione fanno aggio rispetto a qualsiasi altra esigenza. Peccato che il difensore della Costituzione, alle volte, scordi questo sacrosanto principio. E’ capitato, di recente, che la Regione Puglia abbai esteso, con legge, l’esenzione del ticket per le spese sanitarie ad alcuni soggetti non rientranti nella previsione della legge statale 537/1993, vale a dire agli inoccupati, ai lavoratori in cassa integrazione e a quelli in mobilità, unitamente ai familiari a carico (entro certi limiti di reddito). Lo Stato ha impugnato la norma, ed incredibilmente la Consulta gli ha dato ragione, tributando maggior rilievo alle necessità di coordinamento della finanza pubblica che a quanto inequivocabilmente previsto dall’articolo 32[8]!
Semplice errore (ancorché marchiano) o segno dei tempi? Propenderemmo per la seconda interpretazione: anche i giudici costituzionali sono esseri umani, inevitabilmente esposti alle sollecitazioni dell’ambiente esterno e non immuni, dunque, da quel mal d’austerity che ha ormai contagiato le elite dei vari Paesi europei.
Non contraddice a questa (pessimistica) conclusione il rifiuto, da parte della stessa Corte, di avallare la tesi governativa – su cui ci siamo in precedenza soffermati -, secondo la quale l’emergenza legata alla crisi giustificherebbe l’aggiramento della Costituzione: nella recentissima pronuncia 151/2012, la Corte, dopo aver bacchettato il Governo (“Tale assunto non può essere condiviso. Le norme costituzionali menzionate dalla parte resistente, infatti, non attribuiscono allo Stato il potere di derogare al riparto delle competenze fissato dal Titolo V della Parte II della Costituzione, neppure in situazioni eccezionali. In particolare, il principio salus rei publicae suprema lex esto non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale.”), gli dà, in pratica, ragione su tutta la linea.
Insomma, il monito – in punta di diritto – sembra sottintendere che certe cose si fanno, ma non si dicono… e che il coordinamento della finanza pubblica, figlio non riconosciuto dell’interesse nazionale, si presta benissimo a ridurre le autonomie in braghe di tela.
Vedremo quale sarà l’esito dei ricorsi incrociati Stato-Regioni sulle rispettive manovre: dovesse essere – come temiamo – incondizionatamente favorevole allo Stato, ci troveremmo di fronte alla conferma di una tacita abrogazione del Titolo V[9] e, cosa più grave, alla consacrazione del principio secondo cui la riduzione del debito è da perseguire ad ogni costo, anche sacrificando al “risanamento” i diritti basilari dei cittadini.
A questo punto, non resterebbe che conferire honoris causa una laurea in giurisprudenza allo spread; quanto ai volumi di diritto costituzionale, prenderebbero in fretta la strada del camino, per offrire un po’ di calore, la sera, ad ex studenti immiseriti.
Prima dell’azzeramento del debito arriverà quella dello Stato sociale; preghiamo di sbagliarci, e teniamo occhi ed orecchie aperti.





[1] Sempreché non si tratti, ahinoi, di lavoro coatto…

[2] “Competenza concorrente” significa che la Regione legifera all’interno dei paletti posti da una legge cornice statale, contenente i principi cardine della materia.

[3] MARIO COTTA, La ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni a Statuto ordinario in materia di tutela dell’ambiente nella giurisprudenza della Corte Costituzionale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Trieste 2009, pag. 104.

[4] Commenta M. Cotta, op. cit., pagg. 106-107: “E’ singolare dover constatare che una riforma predisposta per dare maggior potere alle Regioni, nata in senso federalista, per usare il termine della politica, già attenuata dalle remore del legislatore, abbia finito, almeno per la materia in questione, col riconoscere la supremazia statale fino al punto di limitare le competenze assegnate alle Regioni stesse.”

[5] Dati Elaborazione Centro Studio Sintesi.

[6] Secondo il Ministro della Sanità Balduzzi, per effetto dell’approvazione della spending review il numero dei posti letto negli ospedali dovrebbe calare di 7 mila unità nel 2013 – il che non significa, purtroppo, 7 mila malati in meno (ma soltanto, crediamo, qualche centinaio di morti in più).

[7] La legge costituzionale 1/2012 – quella sul pareggio di bilancio, per capirci – ha affidato in via esclusiva l’armonizzazione allo Stato centrale, senza ricollocare la materia coordinamento. Non si esclude, però, che quest’ultima possa essere silenziosamente risucchiata nell’orbita dell’articolo 117, 2° comma.

[8] La sentenza “incriminata” è la 325/2011; tra l’altro, il giudice costituzionale risolve la questione in poche righe, senza neppure sforzarsi di motivare la propria decisione, che risulta perciò apodittica.

[9] Vale a dire ad un neocentralismo de facto.

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