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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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lunedì 7 gennaio 2013

IN QUESTO MARIO CI SONO MOLTI SILVII... di N. Fragiacomo



di Norberto Fragiacomo


La campagna elettorale di Mario Monti, cominciata nel 2011, è entrata nel vivo il 26 Dicembre scorso: da allora l'illustre cattedratico “salito” in politica (con l'ascensore del Quirinale) bivacca letteralmente in tivù, dispensando verità di fede. Accendi il televisore e te lo ritrovi davanti, ospite invadente e sgradito, mentre fa balenare il suo sogghigno in risposta alle timide, ossequiose domande di giornalisti-funzionari che neppure fingono di volerlo contraddire. I giudizi lapidari del premier cadono dal cielo, come una pioggia di acuminate meteore: in più, il professore mostra particolare talento nell’utilizzo della neolingua, quella che inverte il significato delle parole, trasformando il regresso in “riforme”, la difesa (neanche troppo convinta, ahinoi!) di diritti irrinunciabili in “conservatorismo”, l’ingiustizia sociale in “equità”. 

Dopo l’Agenda Monti (altro che il cognome sul simbolo elettorale, qui siamo dalle parti del Λόγος!), il nostro ha pubblicato anche le liste di proscrizione: Vendola, Fassina, CGIL e FIOM sono da silenziare perché “conservatori”. Il verbo, che lui dice rubato al blog di Stefano Fassina, richiama alla mente torbide storie di sicari e agenti segreti, ma non stona affatto in bocca al Terminator giunto da un futuro liberalschiavista, con la pistola spread nascosta sotto il loden blu. 

Strana bestia lo spread: un giorno ti appare con le sembianze di un mostro mitologico dalla fame insaziabile, quello successivo si accuccia ai piedi del padrone (del custode?) come un mite bassethound [1]. Sembra di ascoltare una barzelletta sconcia, o di giocare con dadi truccati: mentre il governo viene lasciato cadere, il Silenziatore si prefigge un dimezzamento del differenziale rispetto agli ultimi giorni di Berlusconi. Una preghiera schernita dagli speculatori? Macché, trattasi di ordine di servizio: i mercati – magari poco intelligenti, ma disciplinati come granatieri prussiani – rispondono yes, we can!, e nel bel mezzo di un’incerta competizione elettorale paracadutano lo spread a quota 275.

Miracoli del montismo, il cui fondatore viene infatti trattato dai media come un profeta – un profeta pieno di sé, che quando non pontifica sfotte, e spesso fa entrambe le cose insieme. Il 4 gennaio, intervistato su La7 da una Lilli Gruber ginocchioni, il Silenziatore ci regala autentiche perle: “può darsi che io sia chiuso in un angusto provincialismo – ridacchia – per l’Italia sarebbe un disastro. (…) La scelta mi costa fatica, spero solo di trovare a destra e sinistra forze che condividano il rifiuto del populismo (…) però ci sono forze a destra e sinistra che viaggiano sul populismo e privilegiano la tutela dell’esistente.” Poi - con la sua tipica disinvoltura, che riduce storia e cronaca a favolette per bambini -, Mario l’ottimate si paragona a Socrate, attribuendosi doti maieutiche, e chiude con l’immancabile appello al patriottismo (questo sì populista al massimo grado!): saremo “fieri di essere italiani” (ma solo dopo aver ingerito la sua pillola, s’intende). Nel mezzo, ha spiegato chiaramente le ragioni del suo impegno politico. “E’ stata la passione per la politica a spingerla?”, chiede soavemente la telediva.  “Decisamente no, è una cosa che mi impongo contro la mia natura, è una cosa che mi impongo non certo sulla base del cuore, ma della ragione e della coscienza.” Non nutrivamo dubbi in merito, così come non ci stupisce che Monti sia “enormemente soddisfatto dell’opera fatta per fare crescita”, malgrado l’Italia sia in piena decrescita, il PIL stia franando, il debito pubblico sia aumentato di 100 miliardi in un anno (colpa dei soldi alla Grecia, si difende il nostro, e alla Gruber manca persino la decenza di ridergli in faccia) e, nonostante lo scempio del diritto del lavoro, la disoccupazione si diffonda come gramigna. Ad un certo punto, la spalla ha domandato al mattatore (erano le 9 e mezza, SuperMario ha sforato di 20 minuti, ma Lilli la rossa non se ne è avveduta): “farà anche comizi?” “No”, risponde con un ghigno il Silenziatore, e prosegue il suo comizio in prime time per qualche minuto ancora.
Quello scambio demenziale andava suggellato con un bel po’ di risate preregistrate (stile I Jefferson), ma siamo contenti comunque: chiunque sia avvezzo a pensare con la propria testa avrà capito cosa sia Mario Monti, e quali i suoi progetti per il futuro. Il premier targato Goldman Sachs è un conservatore di stampo ottocentesco, che accomuna sotto l’etichetta di “populismo” tanto il welfare quanto Costituzione e democrazia; un falsificatore del linguaggio corrente, che, al pari dei suoi mentori Reagan e Thatcher, si avvale di tecniche psyops per impaurire l’elettorato e convincerlo che alla schiavitù capitalista non c’è alternativa; un dittatore in pectore che, non pago di scegliere d’autorità i suoi candidati/vassalli (quelli di Scelta cinica, appunto), pretende di imporre la propria volontà anche ai contendenti (si fa per dire); un populista della peggior specie, che, in perfetta malafede, contrabbanda per verità indiscutibili altrettante menzogne; un Berlusconi ripulito ma al cubo, infinitamente più spietato ed efficiente, che non ha neppure bisogno di possedere due o tre televisioni, questo o quel giornale, perché ha in pugno tutti i media che contano.
Il disegno di quest’individuo è chiaro, almeno nelle linee generali: logorare e indebolire il PD, forzandolo a schierarsi al suo fianco in posizione subalterna; ritornare a palazzo Chigi da padrone (alla docilissima Lilli ha detto chiaro e tondo che per lui fare il semplice ministro sarebbe una deminutio: come tutti i baroni, l’uomo è ridicolmente arrogante), per completare l’opera di cui è “enormemente soddisfatto”: la svendita dell’Italia, della sua istruzione e della sanità alle multinazionali, con un occhio di riguardo per la gerarchia ecclesiastica.
Lo ribadiamo: Monti è l’erede di Berlusconi – ma in questo Mario ci sono molti Silvii (possa il buon Silla perdonarci la storpiatura)!

E gli altri? 


Silvio Berlusconi, anche lui televisivamente in auge, ora blandisce il padrone ora lo attacca, pronunciando persino, all’occorrenza, frasi sensate. Non va preso sul serio: il vecchio satiro si è assunto il ruolo di sparring partner – del mestierante che, senza impensierire il campione, gli consente di provare i colpi. Per il premier, l’impresentabile è l’avversario-alleato ideale: distrae gli elettori di sinistra, indebolisce Grillo e consente a Monti stesso di far mostra di virtù, misura (?) e sobrietà. Ogni attacco del Berluska (così come ogni quesito spuntato dei conduttori televisivi) è un assist per il Silenziatore che, sfoderando una smorfia truccata da sorriso, può fare goal nella rete sguarnita dell’informazione italiana.

Quanto a Bersani, lui incassa e basta. Avesse un po’ di coraggio, fosse in buona fede, contrattaccherebbe con vigore: il cantore dei tacchini sul tetto è pur sempre il segretario del maggior partito italiano, e ha stravinto le primarie. Potrebbe rompere con Monti definitivamente, condannare le sue politiche scellerate, mandare in pensione lo spettro di Berlusconi… invece niente, inghiotte e si limita a un balbettio di replica. Ha votato ogni porcata, d’accordo, ma non è soltanto questo a bloccarlo: è un fatto che il Partito Democratico è ormai stabilmente inserito nell’orbita liberista, e rinnegare l’Agenda Monti implicherebbe rimettere in discussione una strategia concepita almeno vent’anni fa – una strategia che non prevede vie di fuga o piani alternativi. Che dire allora dei Fassina, degli Orfini ecc.? Che, sotto sotto, sono effettivamente un po’ “conservatori” – ma non nel senso che Mario Monti attribuisce al termine. La c.d. sinistra piddina ha rinunciato a contestare il Fiscal compact/patto di stabilità (?) europeo, gli altri trattati capestro e la logica ad essi sottesa, guadagnandosi de facto la patente di sostenitrice dell’attuale sistema. Se non è conservatorismo questo…

Veniamo alle vicende di casa nostra, vale a dire al Quarto Polo. Non è nato sotto i migliori auspici, ma è nato, e già questa è una buona nuova. Rivoluzione Civile somiglia poco alla sinistra che sognavamo: fare della lotta alla mafia il punto qualificante del programma, nella presente situazione, significa andare clamorosamente fuori tema, e la cooptazione di noti cacciatori di poltrone non induce a esagerati ottimismi. Sbagliano, però, personaggi autorevoli come Pepino, il prof. Gallino ecc., e politici capaci come Alfonso Gianni a chiamarsi fuori (specie dopo che una consultazione telematica, svoltasi tra gli aderenti a Cambiare si può, ha dato esito favorevole alla prosecuzione del cammino unitario): il problema non è l’apporto di partiti come IdV, PdCI e PRC, senza i quali non si va da nessuna parte (e non si raccoglierebbero manco le firme per la presentazione delle liste). 

La questione autentica riguarda i rapporti con il c.d. centrosinistra e la posizione da assumere nei confronti dei vincoli europei. Antonio Ingroia ha già chiarito di non voler rinunziare al dialogo con PD e M5S: escluso che abbia in mente un apparentamento di comodo, volto a superare ad ogni costo le barriere del Porcellum (al pari dei professori di Alba, l’ex PM ci pare una persona seria e onesta), nutriamo dei dubbi sulla bontà del piano. 
Riportare il PD a sinistra è impresa impossibile; SeL è forse recuperabile a un’alleanza anti-Monti, ma su una remota possibilità non è lecito costruire un progetto politico. Paradossalmente, meno assurda è la ricerca di un contatto con Grillo, che i sondaggi (genuini? contraffatti? Certo, non sgraditi al potere…) danno in discesa libera – in vista non tanto di un improbabile patto elettorale, quanto della costruzione di un’agguerrita opposizione parlamentare, e dunque della convergenza su singole questioni che, all’indomani del voto, potrebbero imporsi all’attenzione generale.
Tocca, secondo noi, ai militanti plasmare un movimento ancora amorfo, e dargli una chiara connotazione anticapitalista e di sinistra: lo scopo non è la conquista del governo, palesemente fuori portata, bensì l’ottenimento di una rappresentanza che, all’interno delle istituzioni, faccia da quinta colonna, ed agevoli – fornendo informazioni e combattendo battaglie di principio – la formazione ed il consolidamento di una contestazione sociale capace di impadronirsi delle piazze.
Se vogliamo cambiare il sistema e liberarci di Monti, Berlusconi ecc. dovremo sviluppare una strategia di lungo termine, che non faccia perno su un episodio elettorale ma punti, piuttosto, a restituire sogni e fiducia all’Italia migliore, quella disposta a impegnarsi in presenza di un progetto credibile. Dei pecoroni non vale la pena di occuparsi: seguiranno belando il vincitore, come sempre avviene.




[1] Non sosteniamo affatto che lo spread sia un’invenzione recente dei banchieri: esiste da molti anni, e di per sé è nient’altro che un’unità di misura di cui, a partire dall’estate 2011, si è fatto un uso improprio e criminale. In fondo, anche un coltello da cucina, pensato per tagliare carne o verdure, può diventare, nelle mani sbagliate, un’arma mortale.



domenica 6 gennaio 2013

Il coraggio di rinnovarsi




di Leonardo Boff


Più di quindici anni fa pubblicai nel Jornal do Brasil, che oggi esiste solo in versione on line, un articolo con il titolo "Ringiovanire come aquile". Rileggendo quelle riflessioni mi sono reso conto di quanto sono attuali e adeguate ancora nei brutti tempi che viviamo e soffriamo oggi. Le riprendo ora per alimentare la nostra speranza indebolita per le minaccia che pesano sulla Terra e sull'Umanità. Se non teniamo ferma qualche speranza, perdiamo l'orizzonte del futuro e rischiamo di consegnarci all’impotenza paralizzatrice o a alla sterile rassegnazione. 
In questo contesto mi ricordai di un mito del' antica cultura mediterranea sopra il ringiovanimento delle aquile. 
Ogni tanto, dice il mito, l'aquila come la fenice egiziana, si rinnova totalmente. Vola ogni volta più in alto fino ad arrivare al sole. Allora le piume prendono fuoco e incomincia a bruciare. Quando arriva a questo punto, precipita dal cielo e si lancia nelle fredde acque del lago. E il fuoco si spegne. Attraverso questa esperienza di fuoco e acqua, la vecchia aquila ringiovanisce totalmente: ritorna ad avere grinfie affilate, occhi penetranti e il vigore della gioventù. 
Questo mito è sicuramente il substrato culturale del salmo 103 quando dice: “il Signore fa rinnovare la mia giovinezza come un aquila”. 
E qui dobbiamo rivisitare a C.G. Jung, che capiva molto di miti e del suo senso esistenziale. Secondo lui, fuoco e acqua sono opposti, ma, quando si uniscono, diventano potenti simboli di trasformazione. 

Il fuoco simboleggia il cielo, la coscienza e le dimensioni mascoline nell'uomo e nella donna. L'acqua, invece, la terra, l'inconscio e le dimensioni femminili dell'uomo e della donna. 

Passare per il fuoco e per l'acqua significa dunque integrare in sé gli opposti e crescere in identità personale. Nessuno che passa per il fuoco, rimane uguale. O si soccombe o si trasfigura, perché l'acqua pulisce e il fuoco purifica. 
L'acqua ci fa anche pensare alle grandi piene come quelle che abbiamo sofferto nell'anno 2010 nelle città delle montagne dello Stato di Rio. Con la loro forza portarono via tutto, specialmente ciò che non aveva consistenza e quello che non era solido. Sono gli infortuni della vita. 

E il fuoco ci fa immaginare il crogiolo o le fornaci che bruciano e purificano tutto ciò che è pula e non è essenziale. Sono le note crisi esistenziali. Nel fare questa traversia attraverso la notte buia e terribile, come dicono i maestri spirituali, lasciamo affiorare il nostro io profondo senza le illusioni dell'ego. Allora maturiamo grazie a quello che di autenticamente umano e vero c’è in noi. Chi riceve il battessimo del fuoco e dell'acqua ringiovanisce come l'aquila dell'antico mito. 


Ma lasciando da parte le metafore, che cosa significa ringiovanire come l’aquila? Significa lasciare alla morte tutto quello vecchio che esiste in noi, in modo che il nuovo possa irrompere e intraprendere la sua strada. Il vecchio in noi sono le abitudini e gli atteggiamenti che non ci rendono grandi: voler avere sempre ragione e cercare il vantaggio in tutto, la noncuranza con se stessi, col nostro linguaggio, la mancanza di rispetto per la natura e di solidarietà con i bisognosi, vicini e lontani. Tutto questo deve morire in modo che si possa inaugurare un modo di convivere con gli altri che abbia cura della nostra Casa Comune e sia generoso col destino delle persone. In una parola, significa morire e risorgere. Ringiovanire come un' aquila significa anche liberarsi di cose che erano buone e di idee che erano brillanti ma che lentamente, nel corso degli anni, sono state superate e non sono in grado di ispirare una via per il futuro. La attuale crisi persiste e si approfondisce perché coloro che controllano il potere hanno vecchi concetti e non sono in grado di dare nuove riposte. Ringiovanire come un’aquila significa avere il coraggio di ricominciare da capo e di essere sempre aperti ad ascoltare, imparare e rivedere. Non è questo quello che ci proponiamo ogni nuovo anno? Che quest’anno 2013 che inauguriamo sia l’opportunità di domandarci quanto di gallina che vuole soltanto camminare sulla terra è in noi, e quanto c'è ancora dell'aquila, pronta a ringiovanire per affrontare con coraggio le difficoltà e le crisi della vita, e per cercare un nuovo paradigma di convivenza. E non possiamo dimenticare quella Energia poderosa e amorosa che sempre ci accompagna e che muove tutto l’universo. Lei ci abita, ci anima e ci dà un senso permanente per lottare e per vivere. Che lo Spiritus Creator non ci manchi mai!


sabato 5 gennaio 2013

MANIPOLAZIONE DI GUERRA di Olga Tamburini


MANIPOLAZIONE DI GUERRA 
Lo strano caso dell’Osservatorio Siriano per i diritti dell’uomo
di Olga Tamburini 



Una persona che vive a Londra, segue le vicende via web e attraverso un cellulare, ha relazioni con il ministro degli esteri inglesi ed è finanziato da un fondo a Dubai, è in contatto con i Fratelli Musulmani e Ong alle dipendenze del Congresso degli Stati Uniti. Cosa c’entra con la Siria? È la principale fonte di informazione dei media italiani e occidentali, tra accuse e smentite mai arrivate di notizie propagandistiche e operazioni di manipolazione mediatica. Un solo nome: Osservatorio Siriano per i diritti dell’uomo.

Un anno fa, nel gennaio 2012, il giornalista Johnatan Steele lanciava dalle colonne del  The Guardian” una riflessione sullo stato dell’informazione proveniente dall’area siriana, sottolineando come “la copertura dei media” occidentali fosse diventata “un'arma di propaganda contro la Siria”. Una voce fuori dal coro nella stampa inglese,  che analizzava in maniera critica l’approccio di parte dei media anglosassoni al conflitto siriano (facilmente estendibile a tutta l’area occidentale), soffermandosi sull’omissione di notizie importanti o quanto meno non trascurabili, come  le manifestazioni pro Assad svoltesi in quel periodo e un sondaggio commissionato dal Qatar in cui la maggioranza della popolazione siriana si diceva apertamente contraria alla destituzione di Bashar, pubblicato solo da “Muslim News”. Erano ancora vive le memorie della Libia e – con un piccolo balzo nel passato – quelle dell’Iraq; si riavvolgeva il nastro sulle varie fasi dei conflitti in cui ci si nascondeva sotto l’etichetta usurata dell’ “esportazione della democrazia” o della lotta manichea contro il terrorismo, conflitti indotti e preceduti da guerre non convenzionali attentamente orchestrate. Complici le associazioni per i diritti umani - completamente cieche di fronte alle voci dei dissidenti in altre parti del mondo meno comode o di irrilevante interesse strategico - la stampa e le reti di attivisti in grado di rilasciare relazioni che riportavano altre testimonianze senza il minimo riscontro sul campo.
Tutta questa serie di incongruenze, soprattutto dopo l’esperienza libica, hanno spostato l’attenzione di una parte della stampa occidentale  sulle possibili manipolazioni di guerra in Siria, tentando di dare rilievo a notizie in genere omesse o considerate irrilevanti dal circuito tradizionale dei media (i legami dei ribelli con la Cia e i finanziamenti, la massiccia infiltrazione di gruppi di Al Qaeda, la provenienza dei mercenari – ricordiamo per il 95% non siriana e legata a gruppi integralisti -, le incongruenze rilevate in numerose occasioni, dalla strage di Hula a quella del pane, la posizione dei cristiani in Siria). Un tentativo di rompere il muro creato da un’informazione non solo di parte (non a caso la parte sostenuta dall’Occidente), ma inattendibile e senza verifica delle notizie. Come dire: tutte le informazioni cruciali e le notizie sulla guerra (numero dei morti, partecipazione alle manifestazioni antigovernative, feriti), informazioni che dovrebbero essere riscontrate o avere quanto meno osservatori diretti, passano ancora oggi attraverso canali tutt’altro che fondati. Nel caso della Siria, i dubbi sono stati sollevati da diverse parti ma difficilmente alcune notizie hanno superato il filtro della cosiddetta informazione. Ancora oggi capita di ascoltare notizie o leggere articoli dove si cita come fonte attendibile  quella che potrebbe sembrare un’organizzazione dal nome suggestivo, Osservatorio siriano per i diritti dell’uomo (OSDH, Observatoire Syrien des Droits de l’Homme), che rimanderebbe, nell’immaginario collettivo, a una capillare e fitta rete di agenzie informative ma in realtà fa capo a un solo uomo, Rami Abdel Rahman, ufficialmente un imprenditore, che  “non possiede né formazione giornalistica né giuridica e neppure istruzione secondaria”. Questo personaggio - il cui vero nome è Osama Ali Suleiman -  vive a Coventry e da solo riuscirebbe a gestire la moltitudine di informazioni provenienti dall’area del conflitto utilizzando come canali la televisione, il telefono, skype e il web. Un raccoglitore di informazioni insomma, cosa ancora più anomala non provenienti da giornalisti accreditati (nessuna ombra di quelli di guerra e indipendenti) ma da circa 200 attivisti dei diritti umani che raccolgono testimonianze di seconda mano e le trasmettono successivamente a Londra.
Fonte attendibile? Autonoma? L’Osservatorio non è registrato come Ong, opera in maniera informale ed è finanziato da un fondo di Dubai in cui l’Arabia Saudita ha versato 130 miliardi di dollari per favorire le famigerate primavere arabe. Ha stretti legami con il Ministero degli esteri britannico, con Ong che dipendono direttamente dal Congresso degli Stati Uniti e con i Fratelli Musulmani (come dimostrato ampiamente da Tony Cartalucci in diversi articoli e nel volume Obiettivo Siria). L’osservatorio è stato ritenuto poco attendibile dagli stessi ribelli: Marinella Correggia si è soffermata sulla presa di distanza degli stessi da Abel Rahman: “Il famoso Osservatorio siriano per i diritti umani ha due teste ora platealmente in lotta fra loro e due siti con “notizie” divergenti. I due siti sono www.syriahr.org e www.syriahr.net (o anche syriahr.com). Il primo si definisce “sito ufficiale dell’Osservatorio”. Il secondo… anche, precisando di essere “l’unico sito ufficiale”. Sulla qualità dei video e delle notizie del cosiddetto esercito libero, persino il gruppo di intelligence degli Stati Uniti mainstream “Stratfor”  già nel settembre 2011 metteva in guardia sulla grossolanità e l’esagerazione dei  ribelli, chiara prova, secondo gli analisti, della debolezza dell’opposizione siriana. Per noi chiara prova di un’informazione a tratti surreale, in cui i media propongono quotidianamente come fonte attendibile un solo uomo che vive a Londra  legato direttamente e indirettamente agli Stati che appoggiano da anni un inasprimento del conflitto mediorientale su base regionale (guarda caso le altre fonti attendibili sarebbero al-Jazeera e al-Arabiya,  i megafoni del Qatar e degli Emirati Arabi). Questioni abbastanza semplici e ovvie in quelle che amiamo ancora definire democrazie. Forse, quando l'ennesima missione“umanitaria” avrà fine, rimarrà profonda una riflessione sullo stato dell’informazione occidentale.

NOTE


venerdì 4 gennaio 2013

Il canto di un cigno nero... e rosso



IL CANTO DEL CIGNO



Sono circa trentacinque anni che partecipo alle lotte dei lavoratori e degli studenti, nelle piazze, con gli scioperi e con le manifestazioni, memore della lezione che ebbi quando iniziai nel lontano '77.
Allora infatti capii che la creatività, la fantasia, l'inventiva e soprattutto la determinazione ad agire contavano molto di più dei programmi, delle parole, delle ideologie, delle coalizioni politiche o dei proclami.
Circa cinque anni fa mi sono lasciato indurre ad entrare nella politica dei partiti, perché ritenevo fosse importante dare un contributo affinché le istanze della sinistra, fuoriuscite dal parlamento a causa delle dabbenaggini dei cosiddetti “forchettoni rossi” e per la volontà scientifica di desertificazione del Partito Democratico, di tutto ciò che compare alla “sua sinistra”, potessero tornare ad emergere e a risaltare di nuovo nelle istituzioni politiche, in nome di quello che nel mondo è ancora un nobile ideale ed anche un concreto e fondamentale indirizzo di vita: il Socialismo.
Mi sono quindi impegnato per far nascere e crescere una associazione socialista in grado di rilanciare e, se possibile, rendere trasversale, nella sinistra, questo nobile intento, affinché fosse condiviso e rinnovato, e magari attuato in una nuova e più concreta aggregazione politica.
Purtroppo, allo stato attuale delle cose, devo ammettere senza mezzi termini ma con molta onestà, il mio pur "nobile" fallimento.
Quella che allora era una speranza aggregativa, la Lega dei Socialisti, si è prima divisa in varie altre correnti e strutture associative, più o meno eterodirette da altri partiti..PSI..SEL..PD, e poi è definitivamente naufragata nella sua inerzia, proprio nel momento in cui ci si aspettava da essa uno scatto decisivo, un colpo di reni, la capacità cioè di emergere con le proprie forze, diventando a tutti gli effetti un soggetto politico vero. Mi sono infine rivolto a un piccolo partito che ritenevo fondamentale per far lievitare di nuovo un progetto di sinistra avanzata, culturalmente evoluta e ben determinata nel perseguire programmi e indirizzi concretamente innovativi: il nuovo Partito d'Azione, non contaminato dai giochi sporchi della politica di palazzo. Ma temo che anch'esso vada a cercare spasmodicamente uno spazio politico nelle stanze del potere, in lista con altri o da solo.

Nel frattempo, in questi ultimi anni, ho visto peggiorare il tessuto politico, economico, morale e civile di questo Paese in maniera esponenziale, tanto che mai, e dico mai, mi sarei aspettato nella mia vita, iniziata in un tempo in cui c'erano grandi speranze e un avvenire assai luminoso, e continuata nella lotta strenua contro nemici implacabili della democrazia italiana, come il terrorismo e le mafie, che si potesse arrivare alla sua pietosa abdicazione nei confronti di una legge elettorale infame prima, e prostrarsi infine alla tutela di un tecnocrate timocratico a cui sono state consegnate le sue spoglie inermi e ormai violentate.
Lui, che con toni altisonanti e accorati ha cercato persino di accreditarsi come salvatore della Patria, nominato da chi la Patria l'ha vista soprattutto con il caleidoscopio delle sue mutazioni, ma che, concretamente, ne ha celebrato il funerale, massacrando gli italiani di tasse, togliendo loro diritti essenziali e tutele nel mondo del lavoro, accanendosi con tagli indiscriminati nei servizi sociali anche a danno delle categorie e dei soggetti più deboli, come i disabili. Regalando altri milioni alla scuola privata, tolti a quella pubblica, tentando persino di aumentare il carico di lavoro degli insegnanti di un terzo a costo zero. E soprattutto continuando a buttare i nostri soldi in opere faraoniche e in armi di distruzione scientifica.
Di fronte ad una vera e propria dittatura del profitto, a cui mai nella intera storia d'Italia si era mai arrivati, considerando che pure durante il fascismo uno stato sociale, pur demagogico e apologetico, fu mantenuto, che sta mietendo nel silenzio e nell'indifferenza centinaia di vittime destinate al suicidio, all'emarginazione, alla sottoccupazione, al precariato cronico, o peggio all'arruolamento nelle varie mafie, che ormai imperversano nel silenzio compiacente di istituzioni prostituite al verbo della ripulitura dei guadagni illeciti, ci si sarebbe aspettata una vera e propria insurrezione, una rivolta civile, con milioni di cittadini indignati, offesi e arrabbiati, che avrebbero dovuto essere continuamente in sciopero, occupando piazze, strade, città, luoghi di lavoro, scuole, senza soluzione di continuità e disposti a tutto, anche a farsi massacrare di botte, pur di non recedere dalla necessità di rivoluzionare un sistema marcio ormai fino al midollo.
Ma no, complici i sindacati di regime, ormai anche addestrati nel canile municipale in cui si insegna ad abbaiare e non mordere, pur di essere rimessi in circolazione, ad arruolare altri fedeli cani da guardia del sistema, complice una compagine politica piena zeppa di frughini, in fregola di posti, posticini e postarelli al sole, anch'essa risultato pietoso di quella mutazione antropologica degli italiani, già mirabilmente profetizzata dal poeta-profeta Pasolini per cui « Nel quartiere borghese c'è la pace di cui ognuno dentro si contenta, anche vilmente, e di cui vorrebbe piena di ogni sera l'esistenza. », non c'è stato e quasi sicuramente non ci sarà, non si sa per quanto tempo ancora, alcun moto concreto e generalizzato di sdegno ed alcuna volontà determinata di cambiamento.

Abbiamo solo visto un sussulto di dignità affacciarsi con una manifestazione in verità piuttosto sparuta ed in sordina, almeno rispetto a quelle che in questi ultimi mesi si sono ripetute in Europa e nei paesi più massacrati dalla crisi economica. Il No monti Day doveva essere il primo atto concreto di rinascita della sinistra italiana, ma, concretamente, esso è apparso più che altro come un timido affacciarsi e poi rientrare nella cuccia del guaito di un cagnolino già abbondantemente bastonato.
Morale della favola?
Ho sbagliato a credere di potermi impegnare in un qualsiasi partito italiano, lo ammetto con molta franchezza, se non altro per chiedere scusa a quel Carlo ventenne che, tanti capelli fa, e con grande entusiasmo e creatività giovanile percorse quelle strade intrise di rabbia e di passione che furono tempeste oceaniche, in confronto alle piccole mareggiate odierne, nei lontani ma indimenticabili mesi del settantasette.
Scusami tanto, Carlo, se ti ho forzato, più di 30 anni dopo, a fare scelte diverse da quelle che già allora avevi capito essere pienamente fallimentari, non avrei sinceramente dovuto, avrei solo dovuto limitarmi a scrivere, a testimoniare, ma non avrei mai dovuto mettere la mia firma sotto l'adesione ad un partito. Conto sul fatto che mi potrai un giorno perdonare, sapendo che anche gli uomini cosiddetti maturi, possono sbagliare, quando la loro vita entra nella selva oscura di un “mezzo del cammin”, in cui la diritta via si perde.
Angelo mio, custode delle mie speranze e dei miei sogni più puri anche se straziati, bastonati e sparati senza ritegno e pietà, allora come oggi, nei compagni ancora più coraggiosi, onesti e puri come Giorgiana Masi, come Walter Rossi, come i tanti della scuola Diaz, come i miei figli e studenti di oggi, pestati e massacrati sui marciapiedi, perdonami, sono solo un povero peccatore, fragile, che ha ceduto ad una misera illusione.
E che però si è svegliato e non cederà più, non si addormenterà, o meglio non si farà addormentare o narcotizzare nemmeno dall'ultima trovata “pataccara” della cosiddetta “rivoluzione civile”, blasfemia all'ennesima potenza di un gruppo di personaggi in cerca di autore, per il titolo di una commedia dell'assurdo..aspettando Godot, aspettando la sinistra, al suono del martelletto di un giudice: l'udienza è aperta, entrino i testimoni, il pubblico si alzi..si prega di fare silenzio..in aula.
Ma le aule sono deserte, anche se una schiera di fantasmi in fregola per la consueta fame di predelle e predellini, cerca disperatamente di affollarle.
E l'unico suono che le pervade è proprio quello del silenzio, anche se non tutti sanno ascoltarlo, anche se la maggior parte è affannata nel rumore mediatico, nella chiacchiera del web.

Perché dunque affannarsi, perché affrettarsi compulsivamente nella spasmodica ricerca dell'ennesima firma per entrare in quello che continua ad apparire come il castello dei fantasmi, specialmente con questa legge elettorale porcona e porcata che ha portato e non potrà che portare altri immancabili candidati alla norcineria parlamentare, a mostrare le loro appetitose frattaglie, magari mascherate da “società civile”, in un luogo di pochezza, di inerzia e soprattutto di corruzione?
Non chiedetemi dunque di raccogliere firme di condanna alla morte civile, non mandatemi più a fare una questua tanto inutile quanto infame. Non ammannitemi con la solita litania dei “mali minori”, non insultatemi con l'apologia del simulacro di un cadavere di democrazia.
Se volete incontrarmi, a viso aperto, sapete bene dove sarò, ancora una volta a camminare, fino all'ultimo respiro e fino all'ultima mia flebile voce, in quelle stesse strade e piazze in cui cominciai tanto tempo fa..una vita fa, ma una vita vera, non virtuale.
Adesso mancherebbe solo l'acuto finale, e quindi non posso che menzionarlo come m'è d'uopo.
Cosa sono mai un impegno, un cammino, un sacrificio, una strenua e magari dolente lotta rivoluzionaria senza la ricerca di una dimensione collettiva?
E soprattutto senza una esegesi profonda del cammino rivoluzionario?
Se ci si chiede, in definitiva, quale cammino rivoluzionario si debba intraprendere, non potrò che citare Carlo Rosselli, perché mai definizione di tutto ciò fu tanto azzeccata quanto la sua:
Chi accetta la impostazione rivoluzionaria della lotta, chi si elegge un compito così gigantesco come quello di rovesciare un potere dispotico saldamente costituito, non deve avere fretta. Il rivoluzionario che ha fretta che si scoraggia perché la vittoria non appare ancora vicina, che diventa facile preda del pessimismo, non è un vero rivoluzionario. Il vero rivoluzionario deve sapere sfidare il tempo, specie quando il tempo si misura ad anni, come nel caso di noi italiani. Dalla calma risoluta del rivoluzionario si misura la sua forza. Egli è tanto sicuro della bontà della sua causa che accetta con serenità il trascorrere degli anni e anche la propria morte prima che la battaglia sia vinta, nella certezza che altri la proseguiranno
La dimensione del vero cammino del rivoluzionario non si misura dunque a patacche elettoralistiche, talora sconfinanti addirittura nello scazzo querelante, come quello tra Sgarbi e Ingroia sulla parola “Rivoluzione” da appendersi al bavero, ma su un lavoro arduo, continuo e indefesso di risveglio della coscienza e delle energie necessarie a propiziare una azione consapevolmente e radicalmente rivoluzionaria, rispetto ad un perdurante stato di cose da cui ci si sente oppressi.

Ci si sente oppressi collettivamente, e quindi altrettanto collettivamente ci si dovrà emancipare, non potrò quindi che menzionare un altro grandissimo rivoluzionario della storia del Novecento: Ernesto Che Guevara: "Ricordatevi che ognuno di noi, da solo, non vale niente"
Bene, siamo arrivati al dunque: per intraprendere davvero un cammino rivoluzionario, non bisogna scoraggiarsi mai e non agire mai da soli.
Io, devo dire sinceramente, che solo agli albori del mio impegno, nel settantasette, non mi sono mai sentito veramente solo, perché allora si respirava una dimensione collettiva di rabbia, di rivolta e di volontà di cambiamento, anche senza appartenere a nulla, tanto meno ad un partito e ad una associazione, forse allora era Lotta Continua ad avere la fisionomia più vicina e più concreta di un autentico movimento rivoluzionario. Ma quella Lotta Continua di allora non c'è più, e francamente non ne vedo una simile nemmeno oggi.
Oggi esistono le nicchie, i “monasteri” rivoluzionari, come un tempo c'erano coloro che non potendo più contrastare la barbarie in armi, cercavano almeno di porvi un argine “spirituale”
Così anche oggi, muovendosi con attenzione, senza lasciarsi traviare dalla ricerca di una facile soluzione ad un approdo “mistico”, nel variegato panorama del “monachesimo spirituale” rivoluzionario odierno, ho trovato Utopia Rossa.
Utopia Rossa un tempo era una piccola abbazia rivoluzionaria, forse paragonabile a quelle cistercensi del Medioevo, ma ora sta diventando una vera e propria “universitas”, avendo allargato i suoi orizzonti in vari continenti in cui il “verbo” dell' “isola che, si badi non è che non c'è, ma non c'è ancora” si sta propagando rapidamente.
Grazie soprattutto all'infaticabile e abnegante cammino aperto dal suo abate priore Massari.
Grande, anzi, grandissimo nella sua straordinaria e carismatica missione, ma non meno fustigante quando all'orizzonte può spuntare un movimento ereticale come quello, ad esempio di Bandiera Rossa, frutto di un gruppo di “monaci fuoriusciti” ed itineranti, non meno ostinati nel cammino evangelico, tanto da avere una eco addirittura più vasta nelle visite del loro “monastero mediatico” di quelle di Utopia Rossa
I monaci, si sa, sono dediti alla contemplazione, a volte zappano l'orto, e per quello non è richiesta una mira infallibile, di cui il sottoscritto dall'Altissimo ha ricevuto dono beffardo, perché ce l'ho, ma non so proprio come usarla, a svantaggio di chi e a vantaggio di cosa, o meglio, un'idea precisa nel merito ce l'avrei ma, sempre osservando la massima di Guevara, per ora del tutto inapplicabile.
E prego sempre che il tempo e l'avanzare dell'età non ne riducano l'efficienza e l'effetto.

Or dunque, tali “monasteri” rivoluzionari molto di rado scendono in processione, almeno per far sentire al volgo la parola altisonante del Verbo dell'Altissimo Rivoluzionario, per scuotere anche a viva voce le coscienze addormentate, alla lotta di classe, ovviamente non dico a quella armata, perché potrei, rebus sic stantibus, incorrere in blasfemia o bestemmia.
E allora è già tanto essere ammessi come “novizi” al lungo tirocinio monacale, ovviamente sempre sorvegliato dall'Abate superiore, nel caso in cui il monastero si possa degnare di considerare il cammino del “peccatore” almeno un po' intenzionalmente confacente a quello dell'ordine supremo.
Più facile perdurare come “eretici” magari tollerati, ed esortati continuamente alla penitenza, piuttosto che sperare nella grazia suprema del vestimento talare.
Ma noi sappiano, nonostante ciò, che la Grazia dell'Altissimo (Sempre sia Rivoluzionario) è comunque sovrabbondante, che anche un povero e ostinato nonché brutto anatroccolo, un bel giorno avrà il suo canto, il suo assolo finale, magari anche solo sognando, e non essendo quel cigno che avrebbe ambito sempre di essere.
Il panorama rivoluzionario italiano è desolatamente mistico e altrettanto disorganicamente carismatico, e ciò vuol dire, in poche parole, che il cammino va intrapreso solo seguendo fedelmente quello degli abati priori, mettendosi, in itinere, in fila dietro di loro e sotto le loro ali, a covare le loro uova. Che, si badi, non si aprono nemmeno a Pasqua.
Inutile menzionare i nomi di tutti gli “abati” in Italia, talmente sono numerosi e vari, e purtroppo anche piuttosto bellicosi gli uni contro gli altri, quando dovrebbero esserlo invece insieme e contro lo stesso nemico.
Sarà forse per questo che una vera rivoluzione qui non c'è mai stata, e chissà mai se ci sarà.
Anche qui ci viene in aiuto Rosselli quando dice: “né l'ulcera al duodeno, né i carabinieri del re, e neppure l'intervento straniero, risparmieranno alle masse popolari italiane, nel loro insieme, l'ardua, lunga e spossante fatica di conquistarsi la loro libertà e di conquistarsela da sole; di conquistarsela conquistando il socialismo
Inutile quindi farsi venire anche solo le coliche da infervoramento mistico.

Senza quelle masse, senza provare a starci dentro almeno nelle occasioni in cui si affacciano nelle strade e nelle piazze, ogni prece sarà vana, ogni monaco o abate che sia, è destinato a perdurare nelle sue asfittiche giaculatorie.
Chi dunque dentro quelle strade, quelle piazze e quelle masse, quei luoghi in cui si sciopera, si occupa e si prendono anche delle sonore manganellate, c'è stato sempre e senza soluzione di continuità, magari più con la veste del giullare che con quella del monaco, forse avrà peccato, anzi sicuramente ha peccato, ma di sicuro non è mai stato solo. E se la salvezza è sempre il frutto maturo della condivisione, non dovrà certo disperare. Mai.
Ovviamente.. fino alla vittoria, sempre !
Carlo Felici


lunedì 31 dicembre 2012

Perché Giorgio Napolitano è il peggiore Presidente della storia della Repubblica




di Giuseppe Angiuli


Quello che ascolteremo nelle prossime ore sarà l’ultimo discorso di fine anno di Giorgio Napolitano pronunciato dalla scrivania di Presidente della Repubblica italiana. 
È mia ferma impressione che egli sia stato senz’ombra di dubbio – da Enrico De Nicola fino ad oggi - l’uomo peggiore tra tutti coloro i quali hanno ricoperto la carica di Capo dello Stato dal 1948 ad oggi. 
Provo a spiegarne il perché. 


Il settennato di “Re George” (2006-2013) verrà verosimilmente identificato con la fase storica in cui la cosiddetta Costituzione materiale del nostro Paese ha subito il suo più clamoroso stravolgimento e le più evidenti manomissioni, con conseguenze purtroppo destinate a lasciare un segno indelebile (oltreché nefasto) nella vita democratica dei cittadini italiani, per un periodo lungo di qui a venire. 

Intendo affermare che lo spirito con il quale il vecchio (post)comunista napoletano, da sempre sospettato di genealogia regale (1,) ha interpretato il ruolo di Capo dello Stato in questi sette anni, ha finito per imprimere una svolta in senso oligarchico all’assetto dei Poteri dello Stato al punto da porre Giorgio Napolitano aldilà e al di fuori di qualsiasi confronto con tutti coloro i quali lo avevano finora preceduto, facendoci rimpiangere finanche le figure presidenziali più “opache” tra quelle passate dal Quirinale in questi 60 anni, vale a dire Antonio Segni, Giovanni Leone e Francesco Cossiga. 



Per comprendere appieno la reale gravità delle responsabilità storiche che penderanno a lungo sul capo di Napolitano occorre soffermarsi attentamente sulla locuzione Costituzione materiale
La nozione di Costituzione materiale fu introdotta grazie all’elaborazione del giurista Costantino Mortati in contrapposizione a quella di Costituzione scritta o formale
Accanto alle regole scritte – intendeva spiegare il Mortati – esiste tutta una serie di prassi, atti e comportamenti adottati dagli organi costituzionali, che contribuiscono progressivamente ed inesorabilmente a trasformare di fatto l’assetto dei rapporti civili, sociali e politici tra i cittadini di uno Stato-nazione. 
In sostanza, oltre alle norme scritte, l’assetto dei poteri di uno Stato soggiace costantemente all’influenza data dai comportamenti concretamente posti in essere dai singoli detentori delle cariche che si avvicendano nella loro effettiva gestione. 
E dunque, nella storia istituzionale di un Paese, accanto alle norme codificate, si afferma col tempo un insieme di princìpi che, quantunque non presenti formalmente nel corpo della carta costituzionale, assurgono al rango di diritto vivente, assumendo un’importanza che spesso può anche travalicare lo stesso significato letterale delle norme scritte. 
Pertanto, per verificare quale sia il grado di effettiva democrazia all’interno di un Paese, non è soltanto alla carta costituzionale formale che tocca guardare bensì anche alla Costituzione materiale (2). 

Orbene, se si analizzano attentamente alcuni comportamenti messi in atto dall’attuale Presidente della Repubblica nel corso del settennato che sta per volgere al termine, non è difficile convincersi che costui abbia attuato dei clamorosi strappi con prassi istituzionali che solo fino a poco tempo fa erano unanimemente considerate intoccabili all’interno delle nostre istituzioni repubblicane. 

Non è mancato in questi anni chi ha accusato apertamente Napolitano di avere agito non soltanto in violazione delle prassi della nostra Costituzione materiale ma di avere di gran lunga travalicato i confini delle sue stesse funzioni e prerogative formali, così come codificate all’art. 87 della nostra Carta fondamentale (3): a tal proposito, merita di essere quanto meno menzionata la clamorosa azione di cui si è resa protagonista l’avvocatessa sarda Paola Musu, che il 2 aprile del 2012 ha denunciato penalmente Giorgio Napolitano per diversi reati, tra i quali spicca quello di attentato contro la sovranità, l’indipendenza e l’unità dello Stato Italiano, previsto dall’art. 241 del codice penale.




La coraggiosa professionista cagliaritana, prendendo spunto dal controverso passaggio politico-istituzionale che nel novembre 2011 aveva visto il tecnocrate Mario Monti proiettato, nel giro di poche ore, dalla cattedra del tempio accademico del pensiero neo-liberista italico (la Bocconi) direttamente a Palazzo Chigi, ha addebitato a Giorgio Napolitano la responsabilità per avere promosso un percorso politico-istituzionale che ci starebbe conducendo da essere una Repubblica democratica, in cui la sovranità appartiene al popolo (come icasticamente recita l’art. 1 della Costituzione) ad una Repubblica aristocratica, cioè quella in cui “alcune famiglie vi godano la suprema potestà” (Montesquieu, “l’èsprit des lois”). 

Ma senza volere avventurarci nell’esaminare la fondatezza del rilievo penale adombrato dalla Musu nei comportamenti assunti dall’inquilino del Quirinale, è fuor di dubbio che questo settennato si sia caratterizzato per delle situazioni inedite che mai prima d’ora avevano contraddistinto l’operato di un Presidente della Repubblica. 

Nel nostro ordinamento, la figura del Capo dello Stato, pur rivestendo anch’essa una natura (ovviamente) “politica”, fu concepita dai padri costituenti come quella di un mero arbitro, di un soggetto primus inter pares estraneo alla competizione tra le forze politiche proprio in quanto supremo garante del funzionamento dei meccanismi della democrazia parlamentare. 
Nessuna norma scritta o prassi prevedono, ad esempio, che il Presidente della Repubblica possa intervenire nel dibattito tra le forze democratiche del Paese, prendendo posizione a favore o contro una particolare scelta politica; men che meno, nessuna norma o prassi prevedono che il Capo dello Stato possa interagire direttamente con gli altri organi costituzionali a carattere decisionale (il Parlamento e l’Esecutivo) al fine di orientarne le scelte fondamentali attorno alle quali si deve sviluppare la libera discussione da cui fare infine scaturire la decisione democratica (4). 
Giorgio Napolitano, purtroppo per noi, ha fatto entrambe le cose: non soltanto ha agito da vero e proprio attore politico, condizionando pesantemente il “libero agire” delle forze politiche in momenti delicatissimi della dialettica democratica (in cui egli avrebbe dovuto limitarsi ad essere un silenzioso osservatore) ma ha avuto perfino l’ardire di rivolgersi direttamente al Parlamento ed al Governo (creando un precedente gravissimo), intimando loro l’adozione di precise scelte politiche attorno a questioni fondamentali in materia macroeconomica! 




Due su tutti gli episodi che segnano una rottura con una lunga prassi a cui tutti i precedenti inquilini del Quirinale ci avevano abituati: la guerra di Libia (marzo 2011) e la formazione del Governo dei banchieri a guida Mario Monti (novembre 2011). 
Quanto alla prima vicenda, difficilmente potremo dimenticare l’immagine di un Presidente della Repubblica che, in occasione dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nel retrobottega del Teatro dell’Opera a Roma, intima al riluttante Berlusconi di dare il suo pieno avallo ai bombardamenti NATO sulla Libia di Gheddafi. 

Lo so, era già avvenuto che l’Italia partecipasse all’assalto militare ad una nazione sovrana, spacciando ipocritamente tale crimine per una “missione di pace”. Ma mai era avvenuto che lo sfregio all’art. 11 della Costituzione fosse perorato, incoraggiato e vivamente caldeggiato in prima persona proprio da colui il quale dovrebbe ergersi a supremo garante della nostra grundnorm
È vero, già nel 1999 era accaduto che il primo governo guidato da un ex comunista (D’Alema) fornisse il proprio avallo all’assalto imperialista alla Jugoslavia di Milosevic ma in quel caso lo scaltro Ciampi si era limitato a chiudere tutti e due gli occhi, senza essere l’artefice diretto di una scellerata decisione politica già presa da D’Alema medesimo col pieno apporto di Francesco Cossiga (il quale nelle sue memorie parla apertamente di una scelta assunta nel corso di una “cena a tre” con l’ambasciatore U.S.A. a Roma). 


Ma anche la sfrontata risolutezza con la quale Napolitano si è rivolto al Governo-Berlusconi ed allo stesso Parlamento italiano per invitarli ad ossequiare il prima possibile i contenuti della lettera-diktat dell’agosto 2011 a firma Draghi-Trichet grida giustizia. 
Contrariamente a quanto viene fatto credere all’opinione pubblica, le scelte di cosiddetta austerity economica “suggeriteci” dalla Troika B.C.E.-F.M.I. e dalla “sergente di ferro” Angela Merkel, lungi dal costituire degli impegni cui l’Italia doveva necessariamente tenere fede in ossequio a non ben precisati princìpi superiori, costituivano delle decisioni di politica economica che, in una democrazia che è tale non solo sulla carta, non possono che costituire il frutto di una meditata e prolungata discussione tra le forze parlamentari, anziché il risultato di una mera imposizione autoritaria: è sotto gli occhi di tutti, dunque, che Giorgio Napolitano, in tale precisa occasione, ha agito apertamente - come mai prima d’ora era accaduto nella storia d’Italia – non già da supremo garante degli interessi del popolo italiano bensì da curatore degli interessi del capitalismo finanziario europeo e dei suoi organismi tecnocratici sovranazionali. 

La gravità senza precedenti dello strappo istituzionale di cui si è reso protagonista Napolitano sta tutta qui: se alcuni suoi predecessori avevano forse trescato nell’ombra per condizionare l’andamento della vita politica del Paese, egli ha agito sfrontatamente e spudoratamente, alla luce del sole. 
E così, mentre il vecchio Antonio Segni, nel 1963, aveva avuto il pudore istituzionale di “amoreggiare” dietro le quinte coi Carabinieri del Generale De Lorenzo al fine di scoraggiare con ogni mezzo l’insediamento del gabinetto di centro-sinistra a guida Moro-Nenni (pagandone poi le conseguenze con la sua improvvisa defenestrazione dal Quirinale), Lord George non ha avuto alcun timore di dettare al Parlamento, davanti alle telecamere, quale dovesse essere il Governo da insediare a Palazzo Chigi al posto di Berlusconi, da chi tale nuovo Esecutivo dovesse essere diretto e quale programma politico esso dovesse pedissequamente perseguire. 

Se il vecchio Leone, negli anni ’70 del secolo scorso, aveva dovuto reagire con pudico imbarazzo alle aggressioni della stampa dell’epoca che lo volevano protagonista di ogni sorta di scandalo, il nostro King George non ha avuto alcun pudore nell’intimare al C.S.M. l’inutilizzabilità di scottanti intercettazioni telefoniche che lo vedevano come (indiretto?) protagonista. 


Sì, lo so a cosa pensate. 
Anche Francesco Cossiga, il “gattosardo”, si era caratterizzato, specie nell’ultima parte del suo settennato, per l’utilizzo di un linguaggio poco consono a quello di un arbitro imparziale nella contesa politica. Ma, a ben rivedere i fatti dell’epoca del crepuscolo della Prima Repubblica (1991-92), si capisce che i latrati disordinati del Presidente dell’epoca costituivano un grido quasi irrazionale di un uomo ferito nell’orgoglio il quale, avendo bene compreso che qualcuno “molto in alto” stava azzerando tutti i protagonisti di primo piano della scena politica del tempo, cercava disperatamente di ritagliarsi almeno un posto al sole all’interno della nascente Seconda Repubblica, evitando di fare la fine riservata a Craxi e ad Andreotti. Questo era, a mio avviso, il reale intento delle sue “picconate”. 
Ma è difficile affermare che Cossiga, con le sue esternazioni spesso scriteriate (ed anche probabilmente favorite da una psiche caratteriale non proprio immune da squilibri), ebbe ad influenzare in modo decisivo gli eventi di quella fase della storia repubblicana: ben altre erano allora le forze in campo a dirigere le danze. 

Quel che colpisce dell’attivismo di Napolitano è che costui, a differenza di Cossiga, è sempre apparso lucidissimo nei suoi freddi intenti di mestatore del gioco politico. 
Soltanto i poco e male informati possono sorprendersi di un atteggiamento così servizievole e zelante verso i Poteri Forti come quello messo in atto da Re Giorgio nel corso del suo settennato. 
Non tutti sanno che a costui toccò il compito, nel 1978, di compiere il primo viaggio negli Stati Uniti di un uomo del Comitato Centrale del P.C.I., inaugurando una lunga stagione di fiancheggiamento che avrebbe portato il (fu) Partito della classe operaia italiana a diventare il supremo garante in Italia degli interessi del capitalismo finanziario trans-nazionale. 


Dopo avere trovato gli “agganci” giusti negli States, il Nostro fu battezzato da Henry Kissinger come “il mio comunista preferito” e compì un lungo lavoro di limatura dei rapporti che avrebbe portato i dirigenti dell’ex-PCI, tra il 1989 ed il 1992, a stipulare degli accordi strategici di lunga durata con i Poteri Forti (non solo americani) della politica e dell’economia: da una parte gli ex comunisti garantirono la loro inerzia silenziosa di fronte all’avvio del ciclo delle privatizzazioni, dall’altra parte ottennero in cambio quella legittimazione a partecipare al governo del Paese che fino ad allora non avevano potuto avere a causa del loro legame storico con l’Unione Sovietica. 
Dio solo sa quanti e quali sciagure sono derivate al nostro Paese da questo genere di “patti”. 
Dio solo sa quante altre ne deriveranno prima che la massa critica degli italiani possa iniziare davvero a capire tutto ciò. 

Voglio chiudere ricordando un’ultima perla lasciataci dal “comunista preferito da Kissinger” (ed anche dagli israeliani): in un incauto discorso pubblico pronunciato nel gennaio 2007, il Nostro ebbe a dichiarare il proprio sdegnato No all’antisemitismo, “anche quando esso si travesta da antisionismo”, contribuendo così ad alimentare una imperdonabile e dannosissima confusione semantica tra due concetti che è sempre bene tenere distinti, quelli di ebraismo e sionismo (5). 


Domenica 30 Dicembre 2012
Giuseppe Angiuli




1 E’ abbastanza noto il pettegolezzo che vorrebbe Giorgio Napolitano figlio di Re Umberto II di Savoia, il quale lo avrebbe generato nel corso di una relazione extraconiugale avuta con una delle dame di compagnia della regina Maria Josè.

2 Operando un parallelismo non del tutto fuori luogo, i sostenitori ideologici della recente destabilizzazione della Libia di Gheddafi ad opera della NATO facevano spesso riferimento ai poteri autocratici che il colonnello esercitava di fatto nel sistema politico della nazione africana (ossia nella Costituzione materiale di quel Paese), ancorchè egli non ricoprisse formalmente alcuna carica istituzionale se non quella simbolica di “leader della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista”.

3 Art. 87: “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale. Può inviare messaggi alle Camere. Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione. Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo. Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere. Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere. Presiede il Consiglio superiore della magistratura. Può concedere grazia e commutare le pene. Conferisce le onorificenze della Repubblica”.

4 L’unico strumento che la Costituzione affida al Capo dello Stato per interloquire direttamente col Parlamento è costituito dal messaggio alle camere, al quale diversi Presidenti sono ricorsi in passato per raccomandare il rispetto di meri princìpi a carattere generale, come ad esempio fece Ciampi nel 2002 perorando il rispetto della democrazia nell’informazione.

5 Una memorabile risposta alle improvvide parole di Napolitano pervenne da Mauro Manno, compianto studioso napoletano del sionismo, cfr. G. Angiuli, La fondamentale differenza tra ebraismo e sionismo, pubblicata su questo stesso blog



sabato 29 dicembre 2012

Il fiscal cliff è un diversivo, di Paul Craig Roberts


Per gentile concessione del blog "Memorandum di uno Smemorato" del compagno Francesco Salistrari pubblichiamo questo interessante articolo. 



Il “fiscal cliff” è un'altra bufala per distogliere l'attenzione di politici, dei media e del pubblico più attento, sempre che ce ne sia, da problemi piccoli e grandi.
Il fiscal cliff è un taglio automatico alla spesa ed un incremento delle tasse, con il fine di ridurre il deficit di una cifra insignificante nei prossimi 10 anni, se il Congresso non prenderà direttamente l'iniziativa di tagliare la spesa ed aumentare le tasse. In altre parole, il fiscal cliff ci sarà comunque.
Guardando il problema dal punto vista dell' economia tradizionale il fiscal cliff consiste in una doppia dose di austerità in un' economia già vacillante ed in recessione. Da John Maynard Keynes in poi molti sono gli economisti che hanno capito che l' austerità non è la risposta a recessioni e depressioni.
In ogni caso, il fiscal cliff è poca roba se comparato allo tsunami dei derivati, o alla bolla del mercato azionario o a quella del dollaro. Il fiscal cliff richiede tagli da parte del governo federale di 1,3 trilioni di dollari in 10 anni. Il Guardian riporta che questo significa che il deficit federale deve essere ridotto di 109 miliardi di dollari ogni anno cioè del 3% del budget annuo. Più semplicemente basta dividere 1300 miliardi per 10 e otteniamo i 130 miliardi di dollari di saving richiesti ogni anno. Ma si potrebbe ottenere tranquillamente lo stesso risultato se Washington si prendesse tre mesi di ferie l'anno dalle sue guerre.
Lo tsunami dei derivati e la bolla delle obbligazioni e del dollaro invece hanno un peso diverso.
Lo scorso 5 giugno, su “Collapse At Hand”, feci notare che secondo il rapporto del quarto trimestre dell’ Office of the Comptroller of Currency del 2011, circa il 95% dei 230 trilioni di dollari di esposizione sui derivati degli Stati Uniti erano detenuti da quattro istituti finanziari statunitensi: JP Morgan Chase Bank, Bank of America, Citibank e Goldman Sachs.
Prima della deregolamentazione finanziaria, in pratica l' abolizione del Glass-Steagal Act e la non-regolamentazione dei derivati – un risultato ottenuto dalla collaborazione tra l'amministrazione Clinton con il Partito Repubblicano – Bank of America e Citibank erano le banche commerciali che prendevano i versamenti dei depositanti e facevano prestiti al mondo degli affari e ai consumatori poi, con i fondi residui, compravano i titoli del Tesoro .
Con l' abolizione del Glass-Steagall queste oneste banche commerciali hanno cominciato a giocare come in un casinò, come la Goldmann Sachs che, pur essendo una banca di investimenti, si è messa a scommettere non solo i suoi soldi, ma anche quelli dei depositanti facendo scommesse senza avere i soldi, sui tassi d' interesse, sul mercato dei cambi, sui mutui, sulle materie prime e sulle azioni.
Questo giochetto in breve tempo non solo ha superato di molte volte il PIL degli Stati Uniti, ma addirittura il PIL mondiale. Infatti le scommesse della sola JP Morgan Chase Bank sono pari al valore di tutto il PIL mondiale.
Stando al rapporto del primo quadrimestre del 2012 del Comptroller of the Currency, l'esposizione delle banche statunitensi sui derivati è diminuita, a 227 trilioni di dollari, in modo insignificante rispetto al trimestre precedente. E l'esposizione delle 4 banche statunitensi ammonta quasi al totale dell’esposizione e supera di molte volte il loro asseto il loro capitale di rischio.
Lo tsunami dei derivati è il risultato della manipolazione di un gruppo di ufficiali pubblici pazzi e corrotti che hanno deregolato il sistema finanziario statunitense. Oggi soloquattro banche americane hanno una esposizione sui derivati pari a 3,3 volte il PIL mondialez. Quando ero un funzionario del Tesoro USA , una circostanza come questa era considerata fantascienza.
Se tutto andrà bene, gran parte delle esposizioni sui derivati in qualche modo si compenseranno tra loro, così che l'esposizione netta, che rimarrà comunque sempre superiore al PIL di molti paesi, non è dell'ordine di centinaia di miliardi di dollari. Comunque, la situazione sta preoccupando molto la Federal Reserve che dopo aver annunciato un terzo QE, che consiste nello stampare soldi per comprare titoli – sia del Tesoro degli Stati Uniti che dei derivati-a-fregatura delle banche – ha appena annunciato che raddoppierà i suoi acquisti del QE3.
In altre parole, l' intera politica economica degli Stati Uniti è basata sul salvataggio di quattro banche troppo grandi per fallire. Le banche sono troppo grandi per fallire solo perchè la deregolamentazione ha permesso una concentrazione finanziaria, come se l' Anti-Trust Act non fosse esistito.
Lo scopo del QE è quello di mantenere alti i prezzi dei debiti, che supportano le scommesse delle banche. La Federal Reserve dichiara che lo scopo di questa massiccia monetizzazione del debito è quello di aiutare l' economia facendo scendere i tassi di interesse ed facendo aumentare la vendita delle case. Ma la politica della Fed sta facendo male all'economia perché sta togliendo ai risparmiatori, e sopratutto ai pensionati, il reddito dei loro interessi sui risparmi, forzandoli a prosciugare il loro castelletto di risparmi. Infatti i tassi reali di interesse pagati sui certificati di deposito, sui fondi di investimento e sui titoli sono inferiori al tasso d' inflazione.
Inoltre, i soldi che la Fed sta creando nel tentativo di salvare le quattro banche sta facendo innervosire i possessori di dollari, sia in patria che all’estero. Se gli investitori abbandoneranno il dollaro ed il suo cambio crollasse, anche il prezzo degli strumenti finanziari che gli acquisti della Fed stanno sostenendo crollerebbe ed il tasso di interessi aumenterebbe. L' unico modo che ha la Fed per sostenere il dollaro è quello di aumentare il tasso di interesse. In quel caso, i detentori di titoli verrebbero spazzati via, e l'indebitamento per interessi del debito del governo esploderebbe.
Con una catastrofe come quella che seguirebbe al collasso della borsa e della bolla immobiliare, la residua ricchezza della popolazione verrebbe spazzata via. 
Ma gli investitori stanno già abbandonando le azioni per “salvare” il Tesoro. È per questo che la Fed può mantenere i prezzi dei titoli così alti mentre il tasso di interesse reale è negativo.
La paventata minaccia del fiscal cliff è nulla se comparata con il rischio che incombe con i derivati, con la minaccia sulla tenuta del dollaro e con quella di un mercato azionario che dipende dall’impegno della Fed a salvare le quattro banche americane.
Ancora una volta, i media e il loro maestro, il governo degli Stati Uniti, nascondono il problema vero dietro un problema fasullo.
Il fiscal cliff per i Repubblicani è diventato l'unico modo di salvare la nazione dalla bancarotta, distruggendo così la rete di aiuti sociali messa in piedi negli anni '30 e migliorata dalla “Great Society” di Lyndon Johnson a metà degli anni '60.
Ora che non c'è lavoro, che i redditi delle famiglie sono stagnanti se non addirittura in declino da decenni, ed ora che i redditi e la ricchezza sono concentrati in poche mani è il momento, dicono i Repubblicani, di distruggere la rete di aiuti sociali: in questo modo si eviterà di cadere sotto il fiscal cliff.
Nella storia umana, questo modo di governare ha prodotto rivolte e rivoluzioni, e questo è quello di cui gli Stati Uniti hanno disperatamente bisogno.
Forse, dopo tutto, i nostri stupidi e corrotti politici ci stanno facendo un favore. 

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