KARL MARX
AI GRANDI MAGAZZINI
Nel romanzo “Al
Paradiso delle Signore”, del 1883, Emile Zola mescola Marx e gli
utopisti, affermando la necessità storica del Socialismo
di
Norberto
Fragiacomo
Émile
Zola, francese di padre veneziano, va annoverato fra i romanzieri più
socialmente impegnati della seconda metà dell’Ottocento.
Scrittore
di straordinaria prolificità, mostra interesse per le condizioni di
vita dei ceti umili che - impersonati da figure maschili e femminili
(quasi sempre) psicologicamente riuscite - penano, lavorano e
soffrono nell’universo/affresco dedicato ai Rougon-Macquart,
un’immaginaria famiglia francese. Zola crede (finge di
credere?) che l’essere umano sia determinato nei suoi comportamenti
dal contesto sociale e – diremmo oggi – dalla genetica: la buona
ed attiva Gervaise de L’Assommoir sarà tratta alla rovina
dall’ambiente sfavorevole e, inevitabilmente, dalla tendenza
all’alcoolismo ereditata dagli avi. L’osservatore imbevuto di
positivismo non riesce, in verità, a celare la propria benevola
simpatia nei confronti di creature più o meno sventurate: il
progetto studiato a tavolino, fattosi pagina, si contamina con la
vita reale, con le aspirazioni e la passione civile dell’autore.
Un’opera,
in particolare, sembra contraddire gli intenti programmatici,
stravolgere gli schemi: alludo a Au Bonheur des Dames (Al
Paradiso delle Signore, del 1883), che precede di due anni il più
celebre Germinal. Si tratta qui di grandi magazzini, anzi
dell’inarrestabile espansione di uno di essi che, guidato da un
imprenditore geniale, ambiziosissimo e cinico (ma neanche troppo, a
paragone di certi campioni della categoria!) riduce sul lastrico
tutti i dettaglianti del quartiere. Parlavo di schemi stravolti, di
eccezione ad una regola peraltro non sempre seguita: qui abbiamo un
lieto fine ed una protagonista – la bionda, angelica Denise –
che, benché arrivata a Parigi senza un soldo e con due fratelli da
accudire, si farà strada nella vita senza mai tradire i suoi saldi
principi ed una serena, commovente onestà. Sarà premiata, e farà
del bene a chi le sta intorno – nella buona e nella cattiva sorte.
Cenerentola
a Parigi? No, perché a scrivere la storia è pur sempre Zola che
rivela, in meno di trecento pagine, una modernità stupefacente.
Leggendo alcune frasi, alcuni passaggi mi sono sorpreso a pensare: ma
questo è Marx! Chiarisco: Al Paradiso delle Signore sembra
(secondo me, è) la trasposizione romanzesca del Capitale,
ovvero Karl Marx mirabilmente spiegato alle masse da chi l’aveva
studiato e ben compreso. Ci sono tutti gli ingredienti: il ciclo
denaro-merce-denaro (D-M-D), teorizzato con passione dal padrone
Mouret nel salotto dell’amante; l’affermarsi del nuovo modello
produttivo basato sulla concentrazione che, grazie alle economie di
scala, ai finanziamenti bancari e alla pubblicità, soppianta
l’antico; lo sfruttamento “scientifico” delle maestranze;
guerra dei prezzi, valore e profitto. Lo spregiudicato Octave Mouret
svolge la sua “funzione sommamente rivoluzionaria”: cambia il
mondo, dopo aver individuato il target (le donne, sia ricche che
indigenti) ed aver suscitato nella clientela bisogni che rapidamente
si trasformano in dipendenza assoluta. Sullo sfondo si muovono, come
larve, gli ultimi, pallidi rampolli di un’aristocrazia che ha
smarrito la vitalità, incapace persino di quei sentimenti genuini
che animano i dipendenti del grande magazzino e i vecchi, ammirevoli,
testardi bottegai votati a sparire. Mai mi sono imbattuto in così
tanta gente buona in un libro di Zola, ma attenzione: dal
punto di vista umano le figure più nobili le incontriamo tra i
negozianti schiacciati dal “mostro”, cui vanamente si oppongono
(mi vengono in mente l’ombrellaio Bourras e la stessa disgraziata
famiglia Baudu, che accoglie all’inizio la nipote Denise), mentre i
salariati si segnalano soprattutto per meschinità e cattiveria, si
fanno le scarpe l’un l’altro, opprimono il sottoposto e si
chinano docili al padrone anche quando, causa il calo fisiologico
delle vendite in estate, costui li fa licenziare con un secco “alla
cassa!”, che mr. Renzi potrebbe riciclare in un tweet. Eh sì,
perché a Zola – e in questo è sicuramente un “realista” –
stanno a cuore i fatti veri, il comportamento umano: lui di storielle
agiografiche sul lavoratore virtuoso non sa che farsene (neppure
Marx, se è per questo), anche se ritiene, un po’ owenianamente,
che alle radici della malvagità stia l’ignoranza.
Nel
grande magazzino si cerca di sopravvivere e magari di prospericchiare
a spese del collega: il perfido Hutin si fa largo con la maldicenza
fino alla responsabilità del reparto, ma poi – boicottato dal suo
vice invidioso – è lui stesso a tremare; le compagne di Denise la
angariano in ogni modo, godono della sua iniziale cacciata, ma infine
devono fare buon viso a cattivo gioco; e poi, chi può ruba o
approfitta altrimenti delle briciole di potere concessegli. Mouret sa
che la competizione fra i sottoposti va a suo esclusivo vantaggio e
la incentiva, garantendo ai commessi una percentuale in denaro su
ogni vendita effettuata (premio di produttività o salario accessorio
la chiamerebbero oggi); affascina, sorride e ostenta bonomia, ma al
momento giusto manda avanti il fido alterego Bourdoncle (il
tagliatore di teste); guadagna sulla scadentissima mensa e sul caffè
a tre soldi, impone una disciplina ferrea, ordina – da dietro le
quinte – punizioni che talora hanno il solo scopo di compiacere
clienti viziate e stupidamente snob. Zola non lo dipinge come un
demonio, al contrario: ce lo rende simpatico, in qualche maniera. Non
è suo intento, infatti, fare del moralismo: leggiamo che la grande
impresa (nel caso di specie, commerciale) è il futuro, che la dote
principale del padrone o manager è la spregiudicatezza, che l’unica
legge, in affari, è quella del profitto. Dati di fatto, non queruli
lamenti o pistolotti umanitari: l’autore descrive. Certo,
qualche volta la descrizione assume i contorni di un’allegoria:
così il funerale dell’infelice Genevieve Baudu, uccisa dagli
stenti e dall’amore tradito, simboleggia quello di una classe
intera, di un sistema basato su autofinanziamento e conduzione
familiare. E’ lo stesso Zola a suggerircelo, dopo aver schizzato i
volti emaciati, il pallore dei commercianti sul lastrico: “La
dimostrazione diventava quasi una sommossa (…) Quel povero cadavere
di giovinetta era così portato su e giù intorno al grande
magazzino come la prima vittima caduta sotto le fucilate in
tempo di rivoluzione (pag. 250)”.
Eppure,
stranamente, Mouret non ottiene una vittoria completa – cioè, non
la ottiene il capitalista che egli interpreta. La dolcezza, la
caparbietà e l’acume di Denise (che allo zio e a Bourras decisi a
resistere prova a far capire, con argomenti razionali, che il futuro
è della grande distribuzione) lo seducono, lo piegano – e lei,
così apparentemente fragile, così diligente, quieta e rispettosa
trasformerà il “mostro” dall’interno: “qualche volta
(Denise) si accendeva, e vedeva l’immenso bazar ideale, il
falanstero del negozio, dove ciascuno avrebbe la sua parte degli
utili secondo i suoi meriti, con la certezza dell’avvenire regolato
da un contratto. Mouret allora, per quanto soffrisse, si metteva
a ridere. L’accusava di socialismo, e le chiudeva la
bocca mostrandole la difficoltà della pratica: perché lei
parlava nella semplicità dell’anima sua, e si abbandonava con
coraggio all’avvenire quando si accorgeva d’uno strappo
pericoloso nella sua pratica di cuore buono. Ma intanto egli era
scosso e sedotto da quella voce giovane, fremente ancora
dei mali sofferti, tanto convinta quando indicava le riforme che
dovevano rafforzare il magazzino; e la stava a sentire mentre
scherzava; a poco a poco la sorte dei commessi era migliorata,
i licenziamenti in massa erano sostituiti da un sistema di congedi
dati nelle stagioni di minor vendita, si stava perfino studiando
una cassa di mutuo soccorso che avrebbe messo gli impiegati al
sicuro, e avrebbe dato loro una pensione a una certa età. Era
il germe delle grandi società del ventesimo secolo (pag. 242).”
Io
penso che questo passaggio-manifesto racchiuda il senso del libro, e
ci dica chi è veramente Denise per Zola. Denise è il
Socialismo, che con la forza dell’esempio, del ragionamento e
della prassi trasforma radicalmente la società, eleva gli esseri
umani, assicura pace, armonia e giustizia. Tutt’altro che un vago
auspicio, assicura lo scrittore, che non casualmente chiude il
paragrafo con una frase lapidaria all’indicativo: “Era il
germe delle grandi società del ventesimo secolo.” Così sarà,
perché così deve essere – semplicemente perché il Socialismo è
conforme alla natura umana.
Avvertiamo
qui echi oweniani o fourieriani, che svelano il mistero dell’ostilità
di Zola a La Comune: il nuovo mondo non potrà nascere da un
bagno di sangue – pensa, perché solo uomini liberi, in armonia coi
propri simili, intimamente persuasi della sua necessità potranno
edificare la società socialista.
Utopismo?
Ammettiamolo pure, ma queste pagine hanno un impatto fortissimo, ci
chiariscono molti dubbi. “Ogni volta che intraprendo uno studio mi
trovo di fronte il socialismo”, affermò in un’occasione il
grande scrittore. Allora il Socialismo seduceva con “voce
giovane, fremente ancora dei mali sofferti”; com’è possibile
che sia oggi considerato un rimasuglio di epoche passate, vecchiume?
In fondo, ha appena duecento anni, che per la Storia sono un periodo
breve. Il problema è che la ditta è passata nelle mani di
Bourdoncle, spietato e calcolatore, o forse è sempre stata sua. Zola
si è confuso: l’imprenditore tipo (specialmente oggi) non è
Mouret, bensì il suo vice, e Denise è stata sbeffeggiata, cacciata
sulla strada – nei reparti regna il terrore, con telesorveglianza e
codici comportamentali affissi ovunque. Le parole sono usate al
contrario, l’eroina contemporanea è una droga – o un’escort a
cinque stelle. Anche oggi politici e padroni ridono, ma non
stanno a sentire.
Rileggiamo
quello splendido passaggio a rovescio – anzi, aggiorniamolo al Jobs
Act: la sorte dei commessi era peggiorata, i congedi e le tutele
erano spariti, sostituiti da un sistema di licenziamenti in massa, si
prendevano i soldi dai TFR e si innalzava l’età per l’accesso
alla pensione, anche se la pensione, in realtà, non sarebbe stata
pagata. Era il germe delle disumane società del ventunesimo secolo.
La
“modernità” di Renzi e dei blairismi assortiti è un lugubre
regresso al 1883, perché le regole antidiluviane del Paradiso delle
Signore sono tornate o stanno tornando in vigore. Forse Denise
avrebbe fatto meglio a seguire il lontano parente Étienne Lantier,
incamminatosi verso La Comune.
1 commento:
Molto efficace e ben scritto. Non conoscevo questo romanzo di Zola e mi e' venuta voglia di leggerlo. Complimenti.
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