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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 2 novembre 2017

OLTRAGGIO ALLA CATALOGNA di Norberto Fragiacomo




OLTRAGGIO ALLA CATALOGNA
di
Norberto Fragiacomo



Alcuni giorni fa ho rilanciato, sulla mia pagina Facebook, “Omaggio alla Catalogna” di Giorgio Cremaschi, un post in cui il glorioso leader sindacale riprendeva la sinistra pedante - sempre alla ricerca di rivoluzioni da manuale - provando a ricordarle che le c.d. rotture di sistema avvengono alle condizioni e nei luoghi più impensati, che i moti popolari mischiano sovente rivendicazioni schiettamente borghesi ad altre più avanzate, che una dose di ambiguità e contraddizioni è fisiologica; che, in ogni caso, «lo stato confusionale dei poteri forti UE» dinanzi alla vicenda catalana «dimostra che la rottura c’è», e dunque la causa di Barcellona va sostenuta. Citando una frase napoleonica spesso ripetuta da Lenin (on s’engage, et puis on le verra) Cremaschi ha inteso dire che quasi sempre i primi passi sono al buio, ma vanno fatti – perché l’alternativa è l’immobilismo, l’attesa beckettiana di un’irrealistica insurrezione perfetta.
Condivido l’analisi e l’appello, ma la reazione al post di stimati compagni (più dell’ozioso chiacchiericcio che intasa la rete) suggerisce che la mia posizione, all’interno della c.d. estrema, è controversa e forse manco maggioritaria.
Quali obiezioni vengono mosse alla visione cremaschiana, che mi risulta coincidere con quella di Risorgimento Socialista? Le esternazioni anti-indipendentiste sono riconducibili a due posizioni diverse: la prima è quella di coloro che tacciano i catalani di avarizia, perché vogliono tenersi la ricchezza prodotta in loco tutta per sé, senza spartirla con i poveracci dell’Andalusia o dell’Estremadura – il movente dell’indipendentismo sarebbe insomma grettamente economico, i suoi fautori borghesi meschini e “di destra”. La seconda tesi è più articolata: si dubita della genuinità del movimento e lo si ricollega ad oscure trame di destabilizzazione europea. Assisteremmo all’ennesima “Rivoluzione colorata” di marca sorosiana.
Ora, non escludo a priori che in alcuni settori della società catalana possa allignare un atteggiamento leghista prima maniera: la regione è economicamente molto sviluppata e il suo popolo potrebbe, in teoria (solamente in teoria, come già abbiamo visto), trarre profitto da una secessione, specie se morbida. Ridurre l’indipendentismo catalano alla micragna è però una puerile semplificazione, che non tiene conto della Storia. La contrapposizione tra Barcellona e Madrid data almeno dalla guerra di successione spagnola, combattuta tre secoli fa. Fu una lunga e sanguinosa lotta per il predominio europeo, che vide contrapporsi l’Inghilterra e l’Austria a Francia e Spagna: il pretendente asburgico, futuro Carlo VI, s’insediò proprio nella capitale della Catalogna, e da lì si oppose al candidato dei Borbone francesi. Il conflitto durò anni, finché – liberatosi il più appetibile trono viennese – l’Asburgo abbandonò baracca e burattini per tornarsene a casa; i suoi sostenitori inglesi fecero lo stesso. Gli orgogliosi catalani rimasero tuttavia in armi, e affrontarono il loro 11 settembre: quel giorno «un esercito franco-spagnolo formato da trentacinquemila soldati di fanteria e cinquemila di cavalleria si è battuto contro sedicimila soldati e cittadini. Berwick, al comando degli eserciti di Filippo V, ha raso al suolo la città (Barcellona), mettendola a ferro e fuoco[1]». Seguirono lunghi anni di oppressione e reiterati tentativi di sradicamento dell’identità nazionale che si ripeterono nel ‘900, dopo che Franco ebbe trionfato sul sentimento repubblicano fortissimo soprattutto in Catalogna. La popolazione, malgrado tutto (compresa la forte immigrazione promossa dal governo a partire dal dopoguerra), ha conservato nei secoli fisionomia e tradizioni e difeso la propria lingua, affine all’occitano, marcando – ogniqualvolta se ne presentasse l’occasione – le distanze anche culturali da Madrid: si pensi alla messa al bando della corrida, cui va riconosciuto un significato eminentemente politico. Ad ogni modo è sufficiente visitare una sola volta la bellissima capitale (io l’ho fatto) per rendersi conto dell’enorme differenza di mentalità e di abitudini che separa gli abitanti della Catalunya dai castigliani, se vogliamo assai più estroversi e festaioli. Neppure bisogna dimenticare la tradizionale – e motivata - avversione dei catalani per la Casa di Borbone, in cui si mescolano le già citate reminiscenze storiche con l’afflato repubblicano sempre vivo e che spiega la rabbiosa reazione popolare all’arrogante e infelice discorso di un re percepito come straniero ed erede del franchismo (Felipe, al pari del nemico di tre secoli fa!) e la decisione degli amministratori dell’importante Girona di dichiararlo persona non grata in città.
Questo schematico riassunto storico è più che sufficiente a mettere in ridicolo chi, senza sapere ciò che dice, sostiene l’estemporaneità/novità della passione indipendentista; a quanti ne affermano la natura “di destra” ci limitiamo a ribattere che i principali sostenitori dell’indipendenza sono – oggi come ieri - Esquerra Republicana de Catalunya, un partito di centro-sinistra (ma assai meno centrista dei vari MDP e Pisapia italiani), e Candidatura d’Unitat Popular (CUP[2]), che si batte per l’uscita dall’Unione Europea e dalla NATO; lo stesso Puigdemont , ex sindaco di Girona e fervente indipendentista, è considerato un esponente “di sinistra” del moderato Partito Democratico Europeo Catalano. Travestitismo, replicherà il complottista irriducibile – ma con i dogmatici discutere è tempo sprecato: i matti hanno sempre ragione.
Per altri commentatori non ha alcun ha senso domandarsi se gli “insorti” siano di destra o di sinistra: saremmo alle prese con un moto artificiale, eterodiretto – una classica “rivoluzione colorata”. Qualche indizio in tal senso ci sarebbe: Fusaro cita, ad esempio, un contributo di venticinquemila euro versato da un ente della galassia Soros a un’organizzazione catalana, e che dire del video anglofono in cui una graziosa ragazza affranta (che poi si è scoperto essere un’attrice, pagata per la “prestazione”) invoca l’aiuto della comunità internazionale dopo i pestaggi di ottobre[3]? Una copia dell’appello videoregistrato ai tempi di piazza Majdan, sostengono gli spagnoli – e non hanno davvero torto. Personalmente sono stato incuriosito da uno striscione apparso in piazza la sera della votazione: “non picchiate mio nonno”, diceva pressappoco – naturalmente in inglese. Uno slogan ben congegnato – fin troppo – che come “Aiutate la Catalogna, salvate l’Europa” ha fatto il giro del globo. Tre indizi fanno una prova? Dipende. Le finte rivoluzioni cui ci hanno abituato gli americani seguono un copione immodificabile: una marea di giovani riempie una piazza per presidiarla stabilmente, dopo averla colorata di verde, arancio o verde – le tivù del “mondo libero” si appropriano dell’evento, sottolineando invariabilmente la natura “pacifica” della protesta (anche a Kiev?) e stigmatizzando la brutalità di governi andati al potere “con la frode” – emergono due o tre eroi fotogenici, meglio se martirizzati – le parole d’ordine della rivolta, pronunciate in ottimo inglese, sono facili e orecchiabili – la passione dei ragazzi e l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale (con l’aiuto magari di qualche squadraccia addestrata, che però resta nell’ombra) costringono tiranni e usurpatori alla fuga, quando gli va bene.
Nella zuppa catalana mancano quasi tutti questi ingredienti: il luogo simbolo si anima di folla soltanto nei momenti topici, e i media danno maggior rilievo alle manifestazioni “unioniste”, moltiplicando a dismisura il numero dei partecipanti; ben lungi dall’assediare il governo (locale), i dimostranti pro secessione lo cingono in un abbraccio protettivo; la gente per le strade si esprime nella lingua madre ed è vestita normalmente, le uniche tinte riconoscibili sono quelle del vessillo catalano. C’è di più: fino ad oggi le rivoluzioni colorate hanno avuto luogo in Paesi osteggiati dal blocco occidentale (Iran, tentativo fallito in Russia anni fa) oppure “contesi” (Ucraina due volte, Georgia, Kirghizstan ecc.), mai in Stati inseriti nel sistema NATO.
A ben vedere, gli stessi indizi citati prima si rivelano labili – o comunque non gravi, precisi e concordanti come si vorrebbe: dopotutto l’esperienza ucraina ha fatto scuola, non occorre essere sponsorizzati/addestrati dalle ONG di Soros per riprodurre tecniche che, alla prova fattuale, si sono rivelate efficacissime.
Inoltre le c.d. rivoluzioni colorate hanno un costo, sia in termini organizzativi che strettamente economici (dello scialo di vite umane non frega nulla a nessuno), e dunque non vengono cantierate senza un valido motivo. Quale potrebbe essere, nel caso in esame? La convinzione, ormai diffusa tanto a destra quanto nella sinistra c.d. sovranista, che lo Stato nazionale sia oggidì l’unico possibile “soggetto rivoluzionario” in grado di opporsi al sistema: questo implicherebbe, per le èlite economiche, l’esigenza di sopprimerlo al più presto, disintegrandolo in “piccole patrie” impotenti da consegnare (qui da noi) al potere sovranazionale impersonato dall’Unione Europea. La tesi ha un suo pregio, sebbene io non la condivida; il problema è che gli Stati non sono ipostasi libresche, entità astratte, bensì organizzazioni concrete che, a seconda dei circostanze e dei tempi, si comportano in maniera diversa. Esistono oggi nazioni europee “ostili” alla globalizzazione di marca statunitense e, dunque, candidate a una rivoluzione colorata? Probabilmente sì: l’Ungheria di Orban, per esempio, che ha dichiarato una (lodevolissima!) guerra “preventiva” al magnate Soros; la Polonia, il cui governo “autoritario e antidemocratico” ha abbassato l’età pensionabile; fuori dai confini UE la Serbia che, malgrado gli avvertimenti americani, sembra restia a rompere con la Russia di Putin. E la Spagna? Membro fedele della NATO fin dai giorni della dittatura franchista, si è dimostrata di recente un allievo modello della Commissione europea: i suoi esecutivi hanno attuato alla lettera le politiche di austerità, cancellando diritti e tutele, e alle proteste popolari hanno reagito con inequivoca fermezza. Che senso avrebbe destabilizzare un volonteroso vassallo? La stessa Unione Europea, ipotetico beneficiario della frammentazione del regno, non sembra aver gradito le velleità catalane: al contrario, ha sostenuto il governo Rajoy senza esitazioni, anche quando, per salvare le forme, sarebbero stati consigliabili inviti alla moderazione. Esercizio di dissimulazione? Tutto è possibile, ma le teorie dovrebbero basarsi su fatti, non su supposizioni avulse dalla realtà. Possibile alternativa colorata: anziché a rafforzare le istituzioni europee il sostegno al secessionismo catalano mirerebbe ad innescare un effetto domino teso a indebolire l’Europa nel suo complesso. Cui prodest? Non certo alla NATO (cioè agli USA), che dietro l’Unione si nasconde: ai fini del mantenimento del controllo globale è più utile un pugno di alleati-servi mediamente forti che una miriade di staterelli deboli e recalcitranti. Quindi? Potremmo trovarci di fronte a un avvertimento lanciato dall’èlite finanziaria globale ai reggitori dei Paesi europei: continuate a rigare dritto, siamo in grado di colpirvi in qualsiasi momento. Inutile spreco di denari e risorse, obbietto: l’esperienza insegna che basta un’alzata di spread per ridurre qualsiasi establishment continentale all’obbedienza cadaverica – pertanto i soldini spesi per il video catalanista sarebbero una sorta di danno erariale. Avventuriamoci in ipotesi al limite del machiavellico: l’insurrezione sarebbe stata finanziata e guidata da Soros&co. al precipuo scopo di provare ai cittadini l’impossibilità di qualsiasi insurrezione – tecniche di psyops utilizzate .per persuaderci irrefutabilmente dell’irreversibilità della situazione attuale. Un complotto orchestrato da menti sopraffine, non c’è che dire: vi pare plausibile? Prima di rispondere domandiamoci se sia disponibile una chiave di lettura alternativa: se c’è, presenta i crismi della ragionevolezza e non implica l’intervento di forze diaboliche toccherà impugnare il rasoio di Occam e far giustizia delle ipotesi fantapolitiche.
Una possibile ricostruzione è questa, basata su una premessa che è un fatto notorio: il PPE al potere in Spagna è una forza reazionaria e nazionalista, figlia putativa del franchismo e nemica delle autonomie. Appena giunto al potere Rajoy si è rimangiato le promesse fatte dal predecessore Zapatero ai catalani: siamo (anzi: eravamo) allo stallo. Veniamo al passato prossimo: per indurre il governo nazionale a sedersi al tavolo delle trattative i dirigenti catalani indicono il referendum, il secondo in pochissimi anni. Il Tribunale costituzionale ne dichiara l’illegittimità, ma fa niente: non è una questione tecnico-giuridica, l’obiettivo è schiettamente politico. Puigdemont, sincero indipendentista ma uomo accorto, sa che non otterrà mai quello che afferma di volere (metà dei catalani è contraria): lo scopo è un maggior margine di autonomia. E’ conscio che Rajoy potrebbe sventolargli sotto il naso il verdetto della Corte e irriderlo: il vostro referendum è niente più che un sondaggio, non me ne importa nulla – in tale evenienza la mossa si rivelerebbe inutile, ma l’ex sindaco di Girona confida in una reazione “di pancia” del premier. Quest’ultimo però lo spiazza: invitato al braccio di ferro, di ferro esibisce il pugno. Non semplice sdegno: tracotanza. Il governo centrale, impersonato dalla terribile Santamaria, trascina con sé una magistratura la cui indipendenza è solo nominale: l’arresto dei deputati sorprende un po’ tutti, mentre le strade di Barcellona iniziano a brulicare di poliziotti della Guardia civil. Puigdemont e i suoi sono stati messi con le spalle al muro, ma non possono fare marcia indietro: la causa e loro stessi perderebbero ogni credibilità. Vanno avanti, col freno a mano tirato. L’Europa, vanamente invocata, si schiera senza indugi con Madrid, e non trova nulla da ridire neppure quando, nella domenica del voto, la polizia nazionale infierisce su cittadini inermi. Nessun paragone con Bolzaneto, d’accordo, ma pure la cornice è diversa: qui si pesta gente di mezza età che ha il solo torto di voler esprimere un’opinione. In queste condizioni l’esito della consultazione (oltre il 40% dei cittadini si reca alle urne di fortuna) è stupefacente. Puigdemont ha vinto, ma è una vittoria di Pirro: banche e multinazionali (i suoi presunti sponsor…) si incaricano di rammentarglielo, votando con i piedi. Lui, non essendo sciocco, lo sa e con mossa da prestigiatore sospende l’indipendenza appena dichiarata: desidera disperatamente trattare, ma Rajoy e la UE non gliene offrono la possibilità. Di fronte al commissariamento, approvato da Bruxelles, e all’attivismo dei procuratori – che scagliano accuse da dittatura hard - non resta che l’ultima carta, simbolica più che disperata: Catalogna indipendente, festa in piazza e inno a tutto volume. Segue quella che viene descritta come una fuga ignominiosa, e a parer mio non lo è. Il Presidente ha sempre rifiutato l’opzione del ricorso alla violenza; d’altra parte, l’immediata normalizzazione dei Mossos d’Escuadra (il cui comandante, rammentiamolo, viene oggi perseguitato per non aver voluto impartire ordini criminosi) renderebbe il confronto non impari: improponibile. Scorrerebbe il sangue, quello dei suoi: Puigdemont si fa da parte, ma non fugge – attenzione! – in un accogliente Paese dell’America latina, bensì a Bruxelles, la capitale UE, e non è affatto un caso. Cosa vuole dirci, cosa ci ha detto in conferenza stampa? Che lo Stato spagnolo non è democratico, che la sua magistratura è tutt’altro che imparziale, che l’Unione Europea non rispetta affatto i propri “principi fondativi” (tutela dei diritti umani, autodeterminazione dei popoli ecc.), pur sbandierati a ogni piè sospinto – in sintesi, che l’odierna democrazia liberale è una grottesca finzione, una pagliacciata.
Il messaggio sarebbe – ed è – dirompente, ma nessuno lo ascolta, nemmeno nella sinistra marxista: tutti a ironizzare sull’armiamoci e partite o a inventarsi complotti da pochade; una minoranza, più seriosa ma altrettanto miope, soppesa col bilancino dell’etica i pro e i contro dell’indipendentismo.
Non ci siamo, cari compagni: non spetta a me né a voi sentenziare se le rivendicazioni dei catalani siano fondate o meno, ci pensino loro – noi dovremmo invece valutare se questa crepa apertasi nel sistema (parlare di “rottura” è, a parer mio, eccessivamente ottimistico) possa costituire una minaccia per il medesimo e, in caso affermativo, provare ad allargarla. Dovremmo denunciare la nudità del re (non solo quello di Spagna), condannare le violenze poliziesche e quelle giudiziarie, screditare – basandoci su crudi, incontrovertibili fatti – istituzioni autoritarie, ipocrite e antipopolari. Istituzioni che sono il sistema liberalcapitalista.
Dovremmo, e invece seguiteremo ad aspettare la rivoluzione “ideale”, con l’irrompere sulla scena di gioiose masse operaie marcianti al suono de L’Internazionale. Evitiamo dunque, il sette novembre, di celebrare con troppa enfasi la presa del Palazzo d’Inverno: anche Lenin, a un certo punto, scappò per non essere arrestato, e quel suo slogan “la terra ai contadini!” mica era tanto ortodosso… senza contare che la tinta rosseggiante delle bandiere, esibite senza parsimonia, richiama alla nostra mente smaliziata i trucchi delle rivoluzioni colorate… o no?


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