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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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domenica 29 maggio 2011

FAVOLETTA DELLA DOMENICA: DEGLI SCALFAROSI di L. Mortara

di Lorenzo Mortara


LEGGENDA - Il Capitale è uno dei fattori della produzione, come il Lavoro. Fin tanto che ci sarà bisogno di produrre beni e servizi, cioè fin tanto che le risorse saranno scarse e non saremo rientrati nei giardini dell’Eden, non potremo fare a meno né del Capitale né del Lavoro”.

Eugenio Scalfari


REALTÀ - Il lavoro accumulato, alias Capitale (Cantillon, preclassici in generale; Smith, Marx, classici in generale) è l’ovvio risultato di un lavoro prodotto. Se non fai un lavoro non puoi accumulare lavoro. Lapalissiano. Fin tanto che un ciuccio dirigerà un giornale, sarà contemporaneamente necessaria un’umanità ragliante per venderlo o piazzarlo a qualcuno. Inoltre, se l’umanità finché avrà bisogno di produrre beni e servizi, in una parola il suo sostentamento, non potrà fare a meno di Capitale & Lavoro, e visto che uno più realista del re ha nominato l’Eden, ci si domanda come abbiano fatto Adamo e i suoi discendenti, una volta commesso il peccato originale, a sostenersi fino all’era capitalistica esclusa, tra l’altro in epoche non solo scarse ma addirittura scarsissime di risorse, facendo a meno dell’indissolubile binomio Capitale & Lavoro? Hanno evidentemente accumulato un lavoro che è solo un lavoro accumulato senza essere Capitale, esattamente come uno scalfaroso può accumulare inchiostro su un foglio che è sempre e solo un foglio inchiostrato senza essere un giornale!


MORALE: il profitto avrà sempre bisogno d’uno sfruttamento che va dall’operaio al direttore del giornale diretto dal padrone!


TROTSKY E GRAMSCI: RIVOLUZIONE PERMANENTE E RIVOLUZIONE PASSIVA



di ALBERTO BELCAMINO


Il tema sulla “rivoluzione passiva”, riscoperto e messo in circolazione da Gramsci, che s'ispirava agli eventi del Risorgimento italiano (vedi il terzo "Quaderno del Carcere"), ci permette anche di fare un proficuo confronto tra la metodologia della "Rivoluzione Permanente", che animava l'azione bolscevico-leninista, e quella della "Rivoluzione passiva" che, in origine, era stata descritta da Marx ed Engels, ma che il comunista italiano richiamava in campo, operando delle modifiche sostanziali che si sono riflesse in modo contrario allo sviluppo del pensiero dialettico marxista. Gramsci, come Trotsky (che già al III° Congresso dell'Internazionale del 1921 aveva stilato un rapporto su "Dove va il capitalismo?"), si poneva il problema sulla categoria dell' "equilibrio instabile" o della " stabilizzazione relativa" del capitalismo. Esattamente come avviene oggi, nel marasma del pensiero economico internazionale fra premi Nobel dell' economia, fautori di misure anticrisi adottate dagli Stati nel tentativo di fare decantare, gradualmente, la crisi medesima; e pensatori "catastrofisti" che ritengono la crisi ingovernabile"dall'alto", ed in preda ad imminenti scenari di "guerre tra stati e rivoluzioni".
Per Gramsci, "rivoluzione passiva" equivale a una fase storica contrassegnata dai segni “Rivoluzione-restaurazione”, concetto differente da quello messo in evidenza da Marx ed Engels che, nel Sec. XIX°, si riferivano alle rivoluzioni "dall'alto" succedute alla grande rivoluzione francese che fu, invece, una rivoluzione "dal basso". I due fondatori del materialismo storico giudicavano tali (cioè: le rivoluzioni passive), quelle che la Storia aveva offerto con Napoleone III, nel 1851, e con Bismarck nel 1866! Ma, nel terzo Quaderno del Carcere, Gramsci prende a modello il periodo del Risorgimento italiano per estendere il concetto di "rivoluzione passiva", In questo paradigma, egli considera il compito progressivo della unificazione nazionale italiana come un obiettivo portato a termine dal Partito dei Moderati, dall'esercito e lo Stato piemontese, realizzato in una forma reazionaria a causa dell'alleanza, imposta alle masse democratiche, tra borghesia del Nord e grandi proprietari del Sud, che aveva accantonato l' urgente e preminente rivoluzione agraria, cosa che invece venne realizzata nella rivoluzione francese del 1789.
Il mezzo reazionario di restaurazione, più tardi (dopo il 1871), venne sostituito con quello del "trasformismo", con cui la borghesia aveva incorporato "al suo programma moderato i leader popolari, i più radicali del partito d'Azione che in luogo di giocare un ruolo giacobino attivo si sono trovati subordinati all'ala destra del processo" (inclusi i partiti socialisti operai). Questo tipo di rivoluzione passiva, quindi, si poneva il compito di imbrigliare e frenare la rivoluzione socialista! Gramsci trasferisce, per analogia, tale concetto al periodo successivo alla Prima guerra mondiale per spiegare come il capitalismo fosse riuscito a neutralizzare le rivoluzioni socialiste in Europa e creare le condizioni per una stabilizzazione relativa del capitalismo. Egli ritiene che l' "Americanismo" sia uno dei metodi utilizzati dalla borghesia monopolistica per modernizzare il capitalismo "dall'alto", pertanto assimilabile al concetto di "rivoluzione passiva". Infatti: "Americanismo" per Gramsci ha il significato di una razionalizzazione della produzione e del lavoro negli USA (la catena di montaggio fordista), che combina abilmente la forza (ad esempio, la distruzione del sindacalismo d'industria, i rivoluzionari IWW) alla persuasione ideologica e politica facendo leva sugli alti salari, i benefici diversi e la propaganda politica, onde si serve di parecchi intermediari professionali e politici che diffondano una campagna, sottile ed incessante, di conquista del consenso al sistema di sfruttamento. Questo metodo, utilizzato dal capitalismo dominante, era ritenuto capace, dal pensatore comunista italiano, di evitare la catastrofe sistemica, mediante l'aumento della produttività attraverso l'estorsione di un maggiore plusvalore relativo e, in aggiunta, associandolo alla categoria politica della rivoluzione passiva, intesa come rivoluzione-restaurazione, gettava le basi per un riadattamento riformista del capitalismo. Per Gramsci, insomma, non è sufficiente lo scoppio della crisi economica per rompere l'equilibrio capitalistico, ma occorre superare il mondo economico dei conflitti per passare alla lotta di classe sul terreno politico, dentro il cui specifico quadro, si gioca la lotta per il Potere.
Questa posizione polemica è contraria a quella del determinismo economico, il quale credeva (e crede) che le crisi economiche da se stesse avrebbero prodotto gli eventi fondamentali per la rottura degli equilibri capitalistici, ossia: che questi dipendano da cause immediate d'impoverimento di gruppi sociali che hanno interesse a mettere a repentaglio l'equilibrio delle forze. Su quest'ultimo aspetto, il comunista italiano aveva ragione ed era in sintonia con le concezioni marxiste-leniniste di Trotsky. La divergenza da quest'ultimo aveva luogo proprio sul terreno della concezione della rivoluzione permanente, a cui Gramsci sostituiva quella della "rivoluzione passiva”. Difatti, l'elemento determinante nel quadro della concezione della rivoluzione passiva, reinterpretata da Gramsci, consisteva nell' assegnare al secondo termine della coppia "rivoluzione-restaurazione", una funzione preminente, nel senso che, o sotto la forma della repressione (il fascismo), oppure della restaurazione mediante la nozione di "egemonia civile (cioè: del nuovo tipo di Stato che interviene nell'economia e che funge da impresa, holding statale, consentendo il risparmio a disposizione degli industriali e dell'attività privata), si supera la fase catastrofica della crisi dando inizio a un puro processo d'evoluzione riformista. In altri termini, con il corporativismo (passaggio da un'economia individualista a un'economia "pianificata-diretta" statale - ossia: la forma fascista) l'apparato statale razionalizza quello produttivo superando la fase catastrofica della crisi: disoccupazione di massa, guerre tra Stati, guerre doganali, blocchi etc. Il fascismo è l'altro metodo messo in atto, specie in Europa, nel primo Dopoguerra, per affermare il momento della restaurazione, all'interno della concezione di rivoluzione passiva in Gramsci. Ne discende che "Americanismo e fascismo hanno un denominatore comune: quello di rilanciare su basi nuove il capitalismo, disaggregando nel contempo le forze antagoniste, separando il proletariato dalla piccola borghesia".
Trattasi, in sintesi, di due tentativi di modernizzazione del capitalismo "dall'alto", pertanto assimilabili al concetto di "rivoluzione passiva" che implica importanti trasformazioni statali, oltre che la razionalizzazione-riorganizzazione dell'economia. L'Americanismo (= aumento di produttività) consente al nuovo tipo di Stato di intervenire con l'egemonia sin dal luogo di produzione, l'officina, utilizzando gli intermediari sindacali, politici e culturali che diffondono l'"ideologia ristretta" in mezzo ai lavoratori; e, inoltre, di giocare il ruolo d'investitore a medio e lungo termine, stabilendo una nuova relazione con le classi subalterne, cosa che gli consente di costruirsi una base sociale tra le "genti normali e gli intellettuali, mentre fa sì che la sua struttura dipenda dalla plutocrazia". È così che il nuovo tipo di Stato (che si affaccia negli Stati Uniti, nel primo Dopoguerra), assume le sembianze di uno Stato liberale nel suo significato di liberalismo economico (e non più di liberalismo doganiero), che si caratterizza per la sua società civile e per il suo sviluppo proprio al regime di concentrazione industriale e monopolistico!
Perché una tale concezione prende una deriva riformistica rispetto alla concezione bolscevico-leninista di un Trotsky, ad esempio?
Prima di tutto per l'errata analogia, con gli eventi del secolo dell'imperialismo, della teoria della rivoluzione passiva di Marx ed Engels! Per questi ultimi, infatti, "rivoluzione dall' alto" voleva dire rivoluzione sociale (con il predominio della classe borghese su quella feudale) che progrediva verso l'industrializzazione e la riforma agraria, anche se sotto la guida di governi bonapartisti e reazionari nella forma, nel senso che la classe borghese ed anche quella operaia si andavano consolidando nei loro nuovi ruoli sociali, indipendentemente dal fatto di lasciare temporaneamente la direzione delle leve statali in mano a classi reazionarie, o addirittura feudali (come gli Junker prussiani da cui proveniva Bismarck). Inoltre, il capitalismo europeo (e quello americano, dopo la guerra di secessione tra Nord e Sud negli Usa), era in una fase di ascesa storica, nel corso di tutto il XIX sec. Cioè: esso progrediva complessivamente su scala storica, non era ancora giunto alla sua fase declinante come alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra mondiale del 1914! Dopo questa data, il capitalismo entrava nella fase dell'imperialismo e dell'esportazione dei capitali nel mondo per il predominio industriale -finanziario: lo sviluppo non era più complessivo, ma solo a livello di un pugno di Paesi avanzati e di aree del mondo che si contendevano la supremazia dei mercati e delle materie prime: ora lo sviluppo riguardava solo un team di Paesi, mentre il resto del mondo scivolava inesorabilmente verso la miseria crescente! Il Fordismo, l'aumento della produttività del lavoro, le razionalizzazioni mediante intervento degli Stati e dei nuovi metodi produttivi non rientravano nel concetto di "rivoluzione dall'alto", come Gramsci travisava, perché non c'era nessuna nuova classe storica al potere, ma solo la pertinace volontà di una classe vecchia (la borghesia monopolistica) di conservare a tutti i costi il dominio con la violenza statale più la persuasione ideologica. O, come nel caso del fascismo, di alimentare il corporativismo statale mediante le repressioni generalizzate e il cambiamento delle istituzioni statali! C'era solo restaurazione sotto le forme dell'americanismo e del New Deal, o mediante le politiche autarchiche e il blocco del mercato mondiale dentro i limiti angusti degli Stati nazionali autoritari e totalitari (compresa la degenerazione in atto del regime stalinista dell'URSS). Anche il regime stalinista, con la scelta strategica del "socialismo in un solo Paese", imboccava la strada verso la "Contro-rivoluzione passiva" che doveva assorbire, molecolarmente, quel regime oppressore e totalitario verso i lavoratori, al termine della Seconda guerra mondiale (sparizione della qualità sociale di "Stato operaio" burocratizzato!) dentro il sistema della Reazione capitalistico-finanziaria mondiale, in modo graduale, e con i mezzi della più feroce repressione statale che la Storia abbia mai conosciuto, condotta per almeno 60 anni! Il concetto di "rivoluzione passiva" nel marxismo veniva così stravolto fino al punto da considerare le crisi capitalistiche non più "come condizioni dello sviluppo ulteriore del capitale (anche a livello ristretto a pochi Paesi), onde cerca di scappare dalla crisi, ripristinando un'organizzazione del lavoro nuova che estragga più lavoro "non pagato", ma come restaurazione che apre una fase di sviluppo pacifico delle relazioni capitalistiche, una stabilizzazione relativa del sistema! In questo modo si ottiene, come risultato, quello di "ridurre la dialettica a un processo d'evoluzione riformista". Con questo concetto di "rivoluzione passiva", Gramsci si pone contro la teoria della rivoluzione permanente che contiene l'idea della rivoluzione ininterrotta, a causa della sopraggiunta complessità dei fattori soggettivi per la conquista del potere statale dovuta all'affacciarsi di un nuovo tipo di Stato che esercita l'egemonia civile con cui riesce ad incanalare sulla via riformista il processo politico rivoluzionario. Subentrano, dopo le crisi, situazioni caratterizzati da stabilità sistemica che debbono essere affrontati con i mezzi della "guerra di posizione" al posto di quelli della "guerra di manovra". Ciò richiede una condotta che si soffermi su obbiettivi politici più specifici, che interrompa lo schema di continuità senza soluzione della idea di rivoluzione permanente. Questa difficoltà di portare a termine il processo rivoluzionario senza interruzioni era stato già intravvisto, sia da Lenin che da Trotsky, tant'è che proprio sulle forme da impiegare a fronte a queste fasi transitorie, vennero riadattati i programmi di lotta al Terzo e Quarto Congresso della III Internazionale! Da tutto questo, per Gramsci, discendeva la scelta di impegnare il proletariato, per primo, sul terreno della società civile e delle lotte di fabbrica di tipo "ordinovista", dove occorreva impegnarsi per la costruzione del socialismo nella società civile, da subito, ancora prima di prendere il potere statale, allungando, nella sua durata, la situazione rivoluzionaria e l'avvento della repressione violenta del nemico di classe. In attesa che si formasse il nuovo "blocco storico" attorno al proletariato di fabbrica, sul terreno sociale, per arrivare, in seguito, sul terreno politico, all'alleanza con gli altri lavoratori e strati poveri della piccola borghesia a dare l' "assalto al cielo" e instaurare la dittatura proletaria. Dal rapporto di Trotsky al Terzo Congresso della III Internazionale nel 1921, ricaviamo come i bolscevichi giudicassero, giustamente, sia le crisi capitalistiche che il rapporto tra struttura e sovrastruttura, in chiave di antideterminismo economico. A differenza di Gramsci, essi partivano dalla natura rivoluzionaria della classe operaia, anziché dall' "egemonia sociale" del nuovo tipo di Stato capitalistico. "La categoria dell'equilibrio capitalista è un fenomeno complicato", scriveva Trotsky, "il regime capitalistico costruisce questo equilibrio, lo rompe, lo ricostruisce, e lo spezza di nuovo, aumentando nel passaggio i limiti della sua dominazione. Nel campo della dominazione economica, le crisi e le recrudescenze d'attività costituiscono le rotture e la ristabilizzazione dell'equilibrio. Nel campo della relazione tra le classi", continua il Rapporto, "la rottura dell'equilibrio consiste in scioperi, licenziamenti (lock-out), lotte rivoluzionarie. Nel campo delle relazioni tra Stati, la rottura dell'equilibrio e generalmente la guerra, o meglio, in maniera più occulta, la guerra delle tariffe doganali, la guerra economica e i blocchi. “Un tale equilibrio – prosegue il documento – possiede una grande forza di resistenza. La prova migliore è l'esistenza anche del mondo capitalista".
Lungi dal determinismo economico, Trotsky sostiene che "uno deve prendere come punto di partenza l'analisi delle condizioni e delle tendenze dell'economia e dello stato politico del mondo come un Tutto, con i suoi legami e le sue contraddizioni, cioè considerando la dipendenza reciproca che oppone tutti i suoi componenti. E continua: "Sulla base del solo determinismo economico, niente ci garantisce che l'equilibrio capitalista non si ristabilisca.... Se noi annulliamo la natura rivoluzionaria della classe operaia, della sua lotta e del lavoro del partito comunista e dei sindacati, allora noi potremmo affermare che la disfatta della classe operaia, il fallimento delle sue lotte, della sua resistenza, della sua autodifesa e delle sue offensive, come conseguenze di tutto questo, il capitalismo restaurerà il suo proprio equilibrio, non il vecchio, ma un nuovo equilibrio ". Trotsky, dunque, nel periodo 1920/29, si soffermava sull'equilibrio instabile. Dopo la grande crisi, egli indica l'avvento di una fase catastrofica. Perciò era necessario aiutare le rivoluzioni che sarebbero scoppiate, negli anni '30, specie in Francia e Spagna, a trionfare. Diversamente si sarebbe crollati nella voragine della Guerra alle porte e nel declino economico e politico dell'Europa che sarebbe finita, come avverrà, sotto il dominio degli Stati Uniti e dell'Assolutismo burocratico-militare dell'URSS che ha fatto scempio del movimento comunista mondiale, aprendo la porta Scea del marxismo rivoluzionario all'invasione delle forze revisioniste ed antirazionaliste della Storia nel XX° sec. e di questo scorcio del XXI.

venerdì 27 maggio 2011

IL PATTO NAZI-SOVIETICO: DOCUMENTI


IL PATTO DI NON AGGRESSIONE
TRA GERMANIA E URSS - DOCUMENTI

Mosca - 23 Agosto 1939

(dal sito MOVIMENTO OPERAIO di Antonio Moscato)



Il Governo del Reich Tedesco e il Governo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, desiderosi di rafforzare la pace tra la Germania e l’U.R.S.S. nel rispetto delle norme fondamentali contenute nel Patto di Neutralità sottoscritto tra i due Paesi nell’Aprile del 1926, hanno raggiunto il seguente accordo:
ARTICOLO 1
Entrambe le parti contraenti si impegnano a rinunciare ad ogni atto di violenza o di aggressione reciproca, condotto sia individualmente che in alleanza con altre Potenze.

ARTICOLO 2
Qualora una delle parti contraenti sia oggetto di atti di ostilità da parte di una terza Potenza, l’altra parte contraente non dovrà in alcun modo prestare il proprio appoggio a tale Potenza.

ARTICOLO 3
I Governi delle due parti contraenti manterranno tra loro uno stretto rapporto, consultandosi sulle questioni che potranno incidere in futuro su interessi comuni.

ARTICOLO 4
Nessuna delle due parti contraenti parteciperà ad alcuna alleanza con qualsivoglia Potenza che miri, direttamente o indirettamente, ad attaccare l’altra parte contraente.

ARTICOLO 5
Qualora tra le parti contraenti sorgano contrasti o divergenze di qualsiasi natura, entrambe risolveranno tali dispute esclusivamente attraverso discussioni amichevoli o, se necessario, ricorrendo a commissioni arbitrali.

ARTICOLO 6
Il presente Trattato rimarrà in vigore per un periodo di dieci anni con la clausola che qualora una delle Parti Contraenti non lo denunci un anno prima della scadenza, esso si intenderà automaticamente rinnovato per altri cinque anni.

ARTICOLO 7
Il presente Trattato verrà ratificato nel più breve tempo possibile. Le rispettive ratifiche verranno presentate a Berlino. L’accordo entrerà in vigore non appena firmato.

Per il Governo del Reich tedesco: von RIBBENTROP
Per il Governo dell’URSS: MOLOTOV







PROTOCOLLO SEGRETO
Mosca - 23 Agosto 1939

In occasione della firma del Patto di non aggressione tra il Reich Tedesco e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, i rappresentanti dei due Governi nel corso di una conversazione assolutamente confidenziale, hanno discusso del problema della delimitazione delle rispettive aree d’influenza nell’Europa orientale.

1. In caso di mutamenti politico-territoriali nei territori appartenenti agli Stati del Baltico — Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania — la frontiera settentrionale della Lituania formerà la linea di demarcazione tra le aree d’interesse della Germania e le aree di interesse dell'URSS. Le due parti riconoscono i diritti della Lituania sul territorio di Vilna.

2. In caso di mutamenti politico-territoriali nei territori appartenenti allo Stato Polacco, le aree d’interesse della Germania e dell'URSS saranno divise approssimativamente dalla linea che segue i fiumi Narew, Vistola e San. La questione se sia auspicabile, nell’interesse delle due parti, mantenere uno Stato polacco indipendente e come dovranno essere disegnate le frontiere di questo Stato, sarà successivamente affrontata alla luce dei futuri sviluppi politici. In ogni caso, i due governi risolveranno questa questione attraverso un’amichevole intesa.

3. Per quanto riguarda l’Europa sud-orientale, l’Unione Sovietica sottolinea il proprio interesse per la Bessarabia. La Germania dichiara di non avere alcun interesse in tale regione.

4. Questo protocollo verrà considerato da entrambe le parti assolutamente segreto.

Per il governo tedesco: von Ribbentrop
Plenipotenziario per il governo dell'URSS: Molotov

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DICHIARAZIONE DEL GOVERNO DEL REICH
E DEL GOVERNO DELL’UNIONE SOVIETICA -
DOCUMENTO
28 settembre 1939


Il Governo del Reich e il governo dell’Unione Sovietica, regolano definitivamente, con l’accordo sottoscritto in data odierna, i problemi conseguenti alla dissoluzione dello Stato polacco, creando così le basi sicure per una pace stabile in Europa orientale, ed esprimono il comune convincimento che corrisponderebbe davvero agli interessi di e le nazioni porre fine all’attuale stato di guerra tra la Germania, da un lato, e la Francia e l’Inghilterra dall’altro.
Entrambi i governi intraprenderanno perciò, eventualmente d’accordo con altre Potenze amiche, sforzi comuni per raggiungere il più rapidamente possibile questo scopo.
Se però gli sforzi di entrambi i governi non avessero successo, diverrebbe inoppugnabile il fatto che responsabili del protrarsi della guerra sarebbero l’Inghilterra e la Francia. Se la guerra Dovesse perdurare, i governi della Germania e dell’Unione Sovietica si consulteranno reciprocamente sulle misure indispensabili.
Von Ribbentrop, Molotov
TRATTATO TEDESCO-SOVIETICO DI DELIMITAZIONE E DI AMICIZIA – DOCUMENTO
28 settembre 1939

Il Governo del Reich e il Governo dell’U.R.S.S., dopo il crollo dello Stato polacco, ritengono loro esclusivo dovere ristabilire l’ordine e la calma in quei territori e garantire alle popolazioni che vi risiedono l’esistenza pacifica che corrisponde alla loro peculiarità etnica.
In questo quadro, entrambi i governi hanno convenuto quanto segue:

ARTICOLO 1 – Il Governo del Reich e il governo dell’U.R.S.S. stabiliscono come confine delle rispettive sfere di interessi nei territori dell’ex Stato polacco la linea tracciata nella carta allegata e che va descritta con maggior dettaglio in un protocollo aggiuntivo.

ARTICOLO 2 – Le due Parti riconoscono come definitivo il confine delle rispettive sfere d’interessi stabilito all’articolo 1, e declineranno qualsiasi interferenza di terze Potenze in questa sistemazione.

ARTICOLO 3 – Le indispensabili misure politiche di restaurazione sono prese dal Governo del Reich nei territori a Ovest della linea indicata, dal governo dell’Unione Sovietica nei territori a Est di questa linea.

ARTICOLO 4 – Entrambi i Governi considerano questa sistemazione una base sicura per lo sviluppo e il progresso di rapporti amichevoli tra le rispettive popolazioni.

ARTICOLO 5 – Il Trattato verrà ratificato quanto prima e quanto Il Trattato entra in vigore al momento della firma. prima ci si scambierà gli strumenti di ratifica.

Stilato in due originali, in russo e in tedesco.
Mosca, 28 settembre 1939
Per il Governo tedesco del Reich: von Ribbentrop
Per il Governo dell’URSS: V. Molotov


ALLEGATO

La linea di confine inizia dalla punta meridionale della Lituania: da lì, va in generale verso Occidente, dal Nord di Augustowo alla frontiera del Reich e segue quest’ultima fino al fiume Pisa.
Da lì, segue il corso della Pisa fino a Ostrolenka; segue poi il Bug fino a Keystnopol, gira verso Ovest dirigendosi a Nord di Rawa-Ruska e di Lubazcow fino al San, seguendo il fiume fino alla sua sorgente.


PROTOCOLLO CONFIDENZIALE
28 settembre 1939

Il Governo dell’URSS non frapporrà ostacoli all’eventuale volontà di nativi tedeschi, o di altri d’origine tedesca, che risiedano nella sua sfera d’influenza, di emigrare in Germania o nella sfera di influenza tedesca.
Concorda che gli spostamenti siano organizzati da agenti del governo del Reich in collaborazione con le competenti autorità locali, e che siano salvaguardati i diritti di proprietà degli emigrati. Corrispettivo dovere incombe sulle autorità del Reich per quanto riguarda le persone di origine ucraina e bielorussa residenti nella sua sfera d’influenza

Per il Governo tedesco del Reich: von Ribbentrop
Per il governo dell’URSS: V. Molotov




PROTOCOLLO AGGIUNTIVO SEGRETO
28 settembre 1939

I sottoscritti plenipotenziari confermano l’accordo intercorso tra il governo tedesco e il governo dell’URSS.
Il Protocollo aggiuntivo segreto del 23 agosto 1939 viene modificato all’articolo 1, in quanto il territorio della Lituania è annesso alla sfera di interessi dell’URSS e, per l’altra parte, la provincia di Lublino e le parti di quella di Varsavia rientrano nella sfera di interessi della Germania (v. la carta annessa al Trattato di delimitazione e di amicizia tra l’URSS e la Germania). Appena il Governo dell’URSS avrà preso in territorio lituano misure tendenti a salvaguardare i propri interessi, il confine tedesco-lituano sarà rettificato al fine di addivenire a un tracciato semplice e naturale, il territorio lituano segnato a Sud-Ovest della linea tracciata sulla carta tornerà alla Germania.
È confermato peraltro che gli accordi economici vigenti tra la Germania e la Lituania non subiranno ripercussioni per le sopraindicate misure dell’Unione Sovietica.

Per il Governo tedesco del Reich: von Ribbentrop
Per il governo dell’URSS: V. Molotov


PROTOCOLLO AGGIUNTIVO SEGRETO
28 settembre 1939

I sottoscritti plenipotenziari, a conclusione del Trattato tedesco-sovietico di delimitazione e di amicizia, si sono dichiarati d’accordo su quanto segue:
Le due parti non tollereranno nei rispettivi territori alcuna agitazione polacca suscettibile di danneggiare il territorio dell’altra parte. Esse porranno immediatamente fine a una simile agitazione e si scambieranno informazioni sulle misure prese al riguardo.

Per il Governo tedesco del Reich: von Ribbentrop
Per il governo dell’URSS: V. Molotov


PROTOCOLLO SEGRETO - DOCUMENTO
10 gennaio 1941

Il conte von Schulenburg a nome del governo tedesco del Reich, da un lato, V. M. Molotov a nome del governo dell’Urss, dall’altro, hanno concordato quanto segue:
Il governo tedesco rinuncia alle proprie pretese sulla parte del territorio della Lituania richiamata nel Protocollo aggiuntivo segreto del 28 settembre 1939 e indicata sulla carta allegata al Protocollo.
2) Il governo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è disposto a compensare presso il governo tedesco il territorio indicato all’attuale articolo 1 del presente protocollo versando alla Germania la somma di 7,5 milioni di dollari, pari a 31,5 milioni di marchi tedeschi.
Il versamento di questo ammontare sarà regolato in questo modo dal governo dell’URSS: un ottavo, e cioè 3.937.500 marchi tramite la consegna di metalli non ferrosi nei tre mesi successivi alla firma del presente protocollo; i rimanenti sette ottavi, ovverosia 27.562.500 marchi, saranno versati in oro e saranno detratti dai pagamenti in oro dovuti dalla Germania alla data dell’11 gennaio 1941, secondo lo scambio epistolare tra il signor Schnurre, Presidente della delegazione economica tedesca, e A. I. Mikoian, Commissario del popolo al Commercio estero dell’URSS, nel quadro della firma dell’accordo del 10 gennaio 1941 «sulle reciproche consegne da effettuare durante la seconda fase di applicazione dell’accordo economico dell’11 febbraio 1940 tra la Germania e l’URSS».

Mosca, 10 gennaio 1941
Per il Governo tedesco del Reich: von Ribbentrop
Per il governo dell’URSS: V. Molotov



martedì 24 maggio 2011

Il socialismo africano: brevi spunti di riflessione, di Riccardo Achilli



Per socialismo africano si intende una serie di regimi e movimenti politici, che generalmente sono emersi o hanno preso il potere in occasione, o come risultato, della lotta di liberazione nazionale contro le potenze colonizzatrici. Tali movimenti, pur se accomunati dall'intento di costruire società socialiste, sono molto diversi tra loro, come risultato, in genere, di una forte personalizzazione attorno alla figura del leader carismatico che li ha ideati, delle specificità locali e e delle alleanze internazionali che tali leader realizzarono, o non realizzarono.
In questo brevissimo saggio, senza alcuna pretesa di dare una rappresentazione esaustiva di tutte queste esperienze (ciascuna delle quali meriterebbe un'analisi a sé, che peraltro chi scrive si ripromette di fare in futuro) si cerca di identificare, quando ci sono, le radici culturali e gli elementi generali comuni, nonché le specificità di alcune delle più significative esperienze storicamente realizzatesi.
Perché imbarcarsi in un simile argomento? Non per mera curiosità storica, ma per cercare di dare qualche elemento di ulteriore riflessione su come sistemi economici poverissimi e arretrati socialmente, dominati da logiche neo-imperialiste esterne, possano intraprendere strade socialiste pur in assenza di strutture produttive e sociali di tipo capitalista. E quali gli errori da evitare.
Vorrei subito delimitare il campo di questo breve saggio. Non parlerò dei regimi panarabisti dell'Egitto nasseriano o del Destour tunisino, né dell'Algeria o della Libia. In parte perché il discorso porterebbe troppo lontano, in parte perché è molto dibattuta la natura socialista di tali regimi. Con riferimento al nasserismo, l'ideologia panarabista adottata da Nasser fu, in effetti, associata a importanti tratti tipici di un regime socialista (nazionalizzazione – ma senza socializzazione – delle attività produttive, in una chiave anti imperialista, importanti programmi sociali a favore dei ceti meno agiati e delle donne, sostanziale rigetto di qualsiasi deriva teocratica, politica estera decisamente anti imperialista, ecc.).
Tuttavia, il panarabismo è una ideologia fondamentalmente innervata di nazionalismo (lo stesso Nasser, che non amava essere definito “socialista”, quanto piuttosto “nazionalista arabo”, strinse alleanze con movimenti nazionalisti arabi quali l'ANM), decisamente ostile al partito comunista egiziano (che sotto Nasser fu sottoposto a vere e proprie repressioni), e tendente a forme di compromessi opportunistici con l'economia capitalista (come mostra il caso algerino, ma anche quello tunisino, di politica delle porte aperte verso gli investimenti esteri). Inoltre, l'opportunismo si realizza anche nell'atteggiamento nei confronti della religione. Ad esempio, Nasser, pur da laico convinto, finanziò ricostruzioni di moschee. Bourguiba, altro esponente di spicco di questo “socialismo panarabo” mantenne l'islam come religione ufficiale dello Stato, e a partire dagli anni Settanta condusse politiche economiche decisamente liberiste, tramite il primo ministro Nouira.
Quanto alla Libia, a prescindere dalle belle parole del Libro Verde, la realtà è quella di un regime basato su una filosofia corporativistica nella sua cotruzione istituzionale e nei canali con i quali viene tenuta sotto controllo la società, e che non ha disdegnato avventure militari dal sapore imperialistico (attacco all'Egitto, lunga campagna militare in Ciad, per non parlare della sua partecipazione alla guerra del Congo). Analogamente, eviterò di parlare di regimi apertamente stalinisti, come quello di Siad Barre o quello di Menghistu (benché Palmeri inserisca Menghistu nel movimento socialista africano), o di leader che ad un certo punto del loro percorso politico adottarono il socialismo per mero opportunismo, come Sékou Touré o Nkrumah.

Alle radici del socialismo africano

Si possono individuare sia fattori politici che culturali, alla radice del socialismo africano. Sul versante politico, i modelli già realizzati all'epoca dell'avvio delle lotte nazionali per la decolonializzazione sono, da un lato, costituiti dai Paesi del patto di Varsavia, dall'altro dai Paesi socialisti non allineati, guidati da Iugoslavia e Cina, che con il loro richiamo a vie nazionali e specifiche al socialismo esercitano un grande fascino sui leader dei Paesi africani, che guidano realtà connotate da forti specificità locali e caratterizzate dalla necessità di trovare una via autonoma di sviluppo sociale ed economico, diversa da quella imposta esogenamente dalle potenze colonizzatrici. Come dice Thomas Sankara, “il colonialismo culturale è molto più insidioso di quello militare. E' meno costoso, più flessibile, più efficace. Se vogliamo trovare una nostra strada allo sviluppo, dobbiamo decolonizzarci culturalmente”. Ecco perché il richiamo a vie nazionali e specifiche al socialismo riceve, nell'Africa del periodo della decolonizzazione, una attenzione così grande. Implica la possibilità di evitare la trappola di “importare” modelli economico-sociali dall'esterno, il che sarebbe un ostacolo alla decolonizzazione delle menti, come richiamata da Sankara, e la possibilità di valorizzare le potenzialità endogene.
Le radici culturali sono più complesse da individuare con correttezza e, soprattutto, in modo esaustivo. Un ruolo è giocato sicuramente dal movimento culturale della “négritude”. La négritude è stato un movimento letterario, culturale e politico sviluppatosi negli anni Trenta, con epicentro a Parigi, e che coinvolse scrittori africani e afroamericani. Gli esponenti di questo movimento (fra cui Léopold Sédar Senghor, Aimé Césaire e Guy Tirolien) si proponevano di affrancare i propri popoli dal complesso di inferiorità imposto dai colonizzatori attraverso l'orgogliosa rivendicazione delle qualità peculiari della cultura nera (Senghor arrivò a contrapporre la razionalità ellenistica del mondo occidentale al sentimentalismo istintivo tipico della cultura africana). Nel 1935, nel terzo numero della rivista L'Etudiant Noir, Césaire rivendicava l'identità e la cultura nera contro quella francese, percepita come strumento di oppressione da parte dell'amministrazione coloniale. Sartre, politicamente di fede comunista, paragona la négritude al tentativo, non solo culturale ma anche politico, da parte dell'uomo nero, di risalire alla sua identità e dunque alla sua libertà. Si tratta quindi di un tentativo culturale, che non può disgiungersi dalla volontà politica di affrancarsi dal dominio coloniale francese.
La négritude venne successivamente criticata, perché ritenuta un subdolo modo per relegare in un ghetto culturale le specificità della cultura africana. Ma ebbe l'impareggiabile merito di riunire le élite intellettuali di quelli che sarebbero stati poi i futuri Stati africani indipendenti, fornendo loro la consapevolezza del ruolo che avrebbero poi giocato nel processo di indipendenza dei loro Paesi, e quindi contribuì non poco alla creazione di una classe dirigente (Césaire fu promotore dell'autonomia della Martinica, Senghor fu leader politico del Senegal, solo per fare alcuni esempi).
Va anche evitato l'argomento secondo il quale la négritude, nella sua ricerca di una identità culturale africana, costruisse artificiosamente tale identità, che in realtà non esiste, perché l'Africa è composta da una grande varietà di identità etniche e tribali diverse fra loro. Tale argomento, in linea di principio, non è erroneo, ma dimentica che l'esercizio di tirare fuori delle direttrici culturali comuni ad un intero continente è la precondizione affinché questo continente possa contare qualcosa nello scenario mondiale. A prescindere dalle grandi differenze culturali che ci contraddistinguono, noi europei abbiamo il sentimento di possedere un patrimonio culturale comune, costitutivo di un modello socio economico che ha reso l'Europa forte politicamente, e competitiva economicamente (e che peraltro le ha consentito di realizzare imperi coloniali, giustificati, agli occhi delle opinioni pubbliche, proprio da una pretesa superiorità del “modello europeo”). Senza un modello africano da contrapporre ai modelli europeo, nordamericano e asiatico, l'Africa sarà sempre la cenerentola del mondo.

Il socialismo africano: alcuni tratti

Proprio per la sua radice culturale di valorizzazione dell'identità africana, che risale agli anni parigini della négritude, il socialismo africano si distingue per avere al suo centro il rifiuto del sistema economico capitalistico portato dai colonizzatori, a favore del recupero di valori tradizionali africani, come il senso della comunità o della famiglia o la dignità del lavoro agricolo. In questo senso, il socialismo, in questi Paesi, venne spesso rappresentato come un elemento intrinseco dell'identità africana. Un documento che rappresenta in modo molto efficace la particolare natura del socialismo africano è la Dichiarazione di Arusha, scritta dal primo presidente della Tanzania indipendente, Julius Nyerere, nel 1967: “inerente nella Dichiarazione di Arusha c'è il rifiuto del concetto della grandezza di una nazione come cosa distinta dal benessere dei suoi cittadini; e il rifiuto, anche, del benessere materiale come fine. C'è l'impegno a credere che nella vita ci sono cose più importanti dell'ammassare ricchezza, e che se la ricerca della ricchezza entra in conflitto con cose come la dignità umana o l'uguaglianza sociale, queste ultime avranno la priorità”.
Il nucleo fondamentale del pensiero del socialismo africano, quindi, non risiede nella promessa di innalzare il tenore di vita degli strati oppressi della cittadinanza come obiettivo prioritario, o esclusivo. Piuttosto, assume rilevanza la creazione di un modello di vita comunitaria, dove, anche nell'assenza di tassi di crescita economica rapidissimi (priorità che era invece tipica dello stalinismo degli anni Trenta, e dei satelliti stalinisti dell'Europa dell'Est negli anni successivi alla seconda guerra mondiale), si esaltino ideali di eguaglianza, di relazionalità (ovvero ciò che Putnam chiamarebbe “capitale sociale”), di autonomia culturale. Ideali nei quali il singolo cittadino viene posto al centro dell'attenzione, evitando quindi approcci calati dall'alto, e valorizzando le istanze dei singoli. Si possono quindi enucleare quattro elementi distintitivi di fondo del socialismo africano:
- recupero di un modello culturale, sociale ed economico autonomo, e radicale rifiuto di schemi di sviluppo tipici dell'occidente, o comunque percepiti come esogeni;
- nella costruzione di modelli di sviluppo, valorizzazione degli aspetti, per così dire, di sovrastruttura, rispetto alle questioni più direttamente legate ai rapporti sociali di produzione;
- coinvolgimento dal basso delle popolazioni nella progettazione dello sviluppo;
- panafricanismo, ovvero una visione politica mirata a unire gli interessi politici delle varie nazioni africane, nel tentativo di superare quella balcanizzazione tribale ed etnica che è da sempre un tragico punto di debolezza dell'Africa.
Con riferimento ai primi due aspetti, si tratta, ovviamente, di differenze di non poco conto rispetto all'approccio marxista, che si basa su modelli e linee-guida precisamente descritti ed elaborati, e sulla prevalenza della struttura produttiva rispetto alla sovrastruttura. Con riferimento al terzo punto, invece, va sottolineato che il panafricanismo non è, in genere, innervato di nazionalismo come il panarabismo, poiché è concepito in chiave federalista e rispettosa delle autonomie di ciascun Paese e gruppo etnico. E' quindi un concetto strumentale a costruire una maggiore forza negoziale dell'Africa nell'agone politico ed economico mondiale. Analizziamo in estrema sintesi, e senza pretesa di esaustività rispetto alle numerosissime esperienze di socialismo condotte in quel grande laboratorio a cielo aperto che è l'Africa, alcuni casi di spicco, iniziando proprio da uno degli ispiratori culturali della négritude, ovvero Senghor.

Léopold Senghor e la politica culturale

Grande uomo di cultura ed ambiguo politico, che alcuni stentano a definire socialista, Senghor fece del Senegal un caso di studio di uno sviluppo basato su una politica culturale di recupero e valorizzazione dell'identità locale. Léopold Sédar Senghor pone la cultura come fondamento della sua politica ed è un "intellettuale pubblico", come lo definisce Sidney Littlefield Kasfir. Per Senghor lo sviluppo dell’Africa è inscindibile dalla valorizzazione della arti africane; queste infatti possono sostenere la nascita di un forte sentimento nazionale e panafricano, permettere di esportare un’immagine positiva della ricchezza del continente e mostrare al mondo come l’Africa non sia stata solo influenzata dall’Europa, ma l’abbia a sua volta influenzata. In questo senso, quindi, egli si adopera per costruire quel modello africano da contrapporre al modello occidentale, che è la precondizione per un'Africa che conti qualcosa nello scenario globale.
Nonostante il budget destinato specificatamente alla cultura non sia mai stato particolarmente elevato, negli anni Sessanta e Settanta vengono create nuove strutture amministrative (il Servizio degli Archivi Culturali ed il Centro di Studi delle Civilizzazioni, la legge per la decorazione degli edifici pubblici nel 1968, l’Ufficio dei Diritti d’Autore nel 1972 e 1973, il Commissariato per le Esposizioni d’Arte nel 1977 , il fondo d’assistenza per gli artisti e per lo sviluppo della cultura nel 1978 e le borse di studio), vengono allestite numerose esposizioni (il Festival Mondial des Arts Nègres nel 1966, le esposizioni itineranti iniziate nel 1974, le esposizioni di grandi artisti occidentali in Senegal tra le quali la mostra di Pablo Picasso del 1972 e le esposizioni di artisti senegalesi), sono costruite infrastrutture (il Teatro Nazionale Daniel Sorano nel 1965, il Museo Dynamique nel 1966 e la Cité des Artistes Plasticiens a Colorane nel 1979) e sono fondate istituzioni (le Manufactures Sénégalaises des Arts Décoratifs (MSAD), la casa editrice Nouvelles Editions Africaines (NEA) nel 1972, l’Istituto Islamico di Dakar nel 1974, la Fondazione Léopold Sédar Senghor nel 1974, ed i Centri Culturali Regionali, scuole (Ecole des Arts du Sénégal nel 1961 e l’Université des Mutants de Gorée per il dialogo tra culture nel 1979), musei (il Museo Dynamique nel 1966 ed il Museo Regionale di Thiès nel 1975).
Accanto alla politica culturale, egli è tenace panafricanista. Promuove una federazione dell'Africa occidentale all'indomani della decolonializzazione, poi una federazione fra Senegal e Mali, che però si spezza nel 1960, anche a causa del carattere dispotico di Senghor.
Anche il tentativo di Senghor di creare un modello culturale senegalese che potesse essere esteso a tutta l'Africa fallisce per la sua innata propensione al dirigismo. Gli artisti sono infatti valutati e sostenuti in base alla loro aderenza ai principi del presidente e della Negritudine, non in base alla loro originalità o alla qualità delle loro opere. L’arte dell’Ecole de Dakar – con l’eccezione di alcuni protagonisti particolarmente creativi – diviene col tempo sempre più ripetitiva e sempre più sterile, cadendo nel decorativismo. Le stesse ambiguità di Senghor, che, mentre promuove lo sviluppo di un modello culturale africano autonomo, è anche sostenitore tenace dell'uso della francofonia, e della prosecuzione di un controllo post coloniale francese nell'Africa occidentale, contribuiscono ad impedire al Senegal, ed in generale all'Africa occidentale, di uscire realmente dal controllo culturale delle ex potenze colonizzatrici.

Julius Nyerere ed il socialismo rurale

In Tanzania, Nyerere intraprese un progetto di sviluppo di stampo socialista, annunciato con la Dichiarazione di Arusha del 1967: elemento caratterizzante di questo documento che rappresenta il fondamento del socialismo africano fu il processo di collettivizzazione del sistema agricolo del paese, cosiddetto Ujamaa. Nyerere riponeva completa fiducia nelle popolazioni contadine dell'Africa, nei loro valori e modi di vita tradizionali. Riteneva che la vita del paese dovesse organizzarsi intorno all'Ujamaa, o "famiglia estesa", fondata proprio su quei valori tradizionali già presenti nei villaggi originari esistenti prima della colonizzazione imperialista. Il ritorno ai costumi e ai metodi di vita e di economia preesistenti all'ingresso del capitalismo nel paese avrebbe condotto, secondo Nyerere, allo stato ideale.
Ecco cosa dice Nyerere a tal proposito: “il villaggio ujamaa è una nuova concezione, basata sulla comprensione del fatto che dobbiamo sviluppare le persone, e non le cose, e che le persone possono soltanto svilupparsi da sè...I villaggi ujamaa sono concepiti come organizzazioni socialiste create dalla gente, e governate da coloro che vivono e lavorano al loro interno. Non possono essere creati dall'esterno, né governati dall'esterno. Nessuno può essere costretto a partecipare ad un ujamaa, e nessun funzionario – a nessun livello – può andare a dire ai componenti di un ujamaa cosa dovrebbero fare insieme...Un gruppo di persone deve decidere autonomamente se avviare un villaggio ujamaa perché ha capito che solo tramite questo metodo possono vivere e svilupparsi con dignità e libertà, ricevendo pieni benefici dal loro comportamento cooperativo”.
In questo progetto è condensata l'essenza stessa della concezione socialista africana:
il capitale sociale (nella definizione di Putnam, ovvero un reticolo di relazioni cooperative e di fiducia nell'ambito degli individui che compongono una comunità locale) è visto come elemento centrale, prioritario anche rispetto alle considerazioni di carattere tecnico-produttivistico ed economico (anche se naturalmente il progetto delle ujamaa era legato alla necessità di raggiungere l'autosufficienza alimentare nelle comunità rurali del Paese);
lo sviluppo parte dal basso, valorizzando identità e tradizioni culturali preesistenti al colonialismo, di cui vengono respinti i modelli e le “terapie” convenzionali, perché non radicati nelle specificità locali;
i modelli non vengono imposti, ma si fa leva sulla volontarietà degli individui.
Il progetto fallì, soprattutto per cause esterne (l'esplosione della crisi petrolifera dei primi anni Settanta, la feroce politica di boicottaggio condotta da FMI e Banca Mondiale, l'esplosione della guerra con l'Uganda, probabilmente provocata proprio per far fallire l'esperimento), ma anche per le resistenze dei piccoli proprietari ad associarsi, e per l'imperizia nella gestione delle cooperative agricole: nel 1979, gli ujamaa contenevano il 90% della popolazione rurale del Paese, ma producevano solo il 5% dell'output agricolo nazionale. Parte di tale inefficienza è da attribuirsi ad un atteggiamento sempre più autoritario di Nyerere, che finì per costringere la gente a andare nelle ujamaa, abbandonando gli intenti volontaristici iniziali. Ciò però pregiudicò quello spirito volontaristico e cooperativo che avrebbe dovuto assicurare il successo, anche produttivo, delle comuni rurali.

Thomas Sankara e la lotta alla povertà

Leader politico di uno dei Paesi più poveri del mondo, ovvero l'Alto Volta (da lui rinominato Burkina Faso), il Che Guevara africano, come fu ribattezzato, si concentrò nella lotta alla povertà, tramite una estensiva battaglia a tutto ciò che comportava una distorta distribuzione del reddito nazionale (come la corruzione o i privilegi tribali) o ostacolare la progressione sociale delle classi più povere della società (come l'assenza di beni pubblici fondamentali, quali la sanità e l'istruzione, che inducono il persistere di diseguaglianze nelle opportunità sociali). Dichiarò: “parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.
Per combattere la povertà, la malnutrizione e l'assenza di cure sanitarie lottò contro la corruzione, promosse la riforestazione, l'accesso all'acqua potabile per tutti, e fece dell'educazione e della salute le priorità del suo governo.Soppresse molti dei privilegi detenuti sia dai capi tribali, sia dai politici, e attraverso dichiarazioni e gesti molto chiari, applicò con grande coerenza le sue idee. Ad esempio:
- il suo governo incluse un grande numero di donne, condannò l'infibulazione e la poligamia, promosse la contraccezione. Fu il primo governo africano a dichiarare che l'AIDS era la più grande minaccia per l'Africa;
- fece costruire centri sanitari in ogni villaggio burkinabé (l’Unicef definì la campagna di vaccinazione effettuata sui bambini, la più grande registrata nel mondo) e cantieri per opere idrauliche, creando un Ministero dell’Acqua;
- vendette la maggior parte delle Mercedes in forza al governo e proclamò l'economica Renault 5, l'automobile ufficiale dei ministri;
- volle realizzare la "ferrovia del Sahel", una linea che collega Ouagadougou al confine con il Niger, nonostante molti economisti non lo ritenessero un progetto redditizio. Tale opera, successivamente ampliata, costituisce tuttora la principale via di comunicazione del Paese.
Convinto, nel solco del socialismo africano, dell'importanza di far avanzare dal basso la rivoluzione, creò i CDR (comités de défense de la révolution), ai quali tutti i cittadini dell'area di competenza potevano partecipare, e che avevano il compito di gestire le questioni locali, ma soprattutto i progetti di autosufficienza alimentare e di sviluppo di interesse locale. Tali comitati territoriali di base erano coordinati, ma soltanto in una mera ottica di supporto tecnico e finanziario, dal CNR (conseil national de la révolution).
Fu anch'egli un convinto panafricanista. E il suo panafricanismo è il più chiaro esempio di un progetto che non era venato da nazionalismo, ma molto più semplicemente dall'ottica di rafforzare la possibilità dell'Africa di far valere le sue rivendicazioni internazionali. In un discorso tenuto ad Addis Abeba, suggerì l'istituzione di un nuovo fronte economico africano che si potesse contrapporre a quello europeo e statunitense, con l'obiettivo di cancellare il debito estero che strangola le possibilità di sviluppo dei Paesi africani.
Nel suo caso, le politiche che condusse non furono un fallimento ma, anzi, uno straordinario successo. La malnutrizione, la sete (tramite la costruzione di pozzi da parte dei CDR si ottenne l'obiettivo di garantire 10 litri di acqua al giorno per abitante), le malattie e l'analfabetismo (che passò dal 95% all'80% per gli uomini) si ridussero. Tanti furono i successi che le potenze imperialistiche tentarono più volte di rovesciarlo, con i governi filo francesi di Costa d'Avorio e Mali che più volte lanciarono operazioni militari contro il Burkina Faso.  Nel 1987 verrà assassinato durante un colpo di Stato militare, nel quale il Governo francese, ai tempi guidato da Mitterrand, è molto probabilmente implicato.

Kenneth Kaunda e l'umanesimo zambiano
Figura controversa, che associò elementi tipicamente stalinisti (un esasperato culto della personalità, una politica economica basata sulla nazionalizzazione dell'industria mineraria e la pianificazione quinquennale centralizzata) ad elementi tipici del socialismo africano (compendiati nello slogan “umanesimo zambiano”, e basati sulle tradizioni culturali africane, in particolare aiuto reciproco, fiducia, amore per la comunità) che portarono allo sviluppo di progetti dal basso simili alle comunità rurali di Nyerere ed a progetti locali di alfabetizzazione della popolazione, oltre che a vasti programmi di sussidi economici sui beni alimentari primari e sui fertilizzanti a favore dei piccoli contadini, Kaunda governò con pugno di ferro lo Zambia fra il 1964 ed il 1991.
L'inefficienza e la rigidità del sistema di pianificazione centralizzato, che portò ad una drastica caduta di produttività nell'industria mineraria, principale risorsa economica del Paese, l'enorme spreco di risorse in programmi mal gestiti di sviluppo dal basso, aggravati da una dilagante corruzione e dalla necessità di mantenere in piedi un apparato repressivo imponente, si combinarono con la caduta del prezzo internazionale del rame, principale voce dell'export zambiano. Con il risultato che l'esperienza di Kaunda, bizzarra combinazione mal concepita fra stalinismo e socialismo africano, fallì disastrosamente sotto il profilo economico, consegnando il Paese al FMI ed alle sue terapie neo liberiste. Si tratta forse del più terribile fallimento fra tutte le esperienze di socialismo africano.

Che lezioni trarne?

La carrellata qui presentata è largamente incompleta, però vale, a parere di chi scrive, per evidenziare alcuni aspetti di tipo generale. In particolare:
- il socialismo africano differisce, per molti aspetti, dagli elementi tipici del marxismo, poiché agli aspetti produttivi strutturali antepone aspetti sovrastrutturali di tipo culturale (esaltando in particolare una identità culturale e di relazioni sociali genuinamente africana, che questa sia reale o, in molti casi, come nel Senegal di Senghor, artificiosamente costruita);
- ciò nonostante, come mostrano l'esempio di successo di Sankara, e gli insuccessi di Senghor e Nyerere, i risultati arrivano quando ci si concentra sugli aspetti economici e produttivi, e non su quelli sovrastrutturali. In particolare, il successo arriva utilizzando approcci allo sviluppo produttivo che partono dal basso, e che utilizzano un metodo pragmatico, senza preoccuparsi eccessivamente di creare modelli ex ante, in nome di una più o meno presunta coerenza con aspetti culturali tradizionali. Sankara ha favorito la creazione dal basso dei CDR, realizzatisi su base volontaristica e flessibile, per risolvere problemi economici concreti delle comunità locali. Nyerere ha invece cercato di creare un modello idealizzato di comunità rurale, anche con una certa dose di utopismo nella ricerca di un collegamento con le tradizioni comunitarie del suo popolo. Senghor ha addirittura trascurato gli aspetti produttivi, concentrandosi su quelli sovrastrutturali;
- gli insuccessi sono venuti da una scarsa coerenza interna nella teoria sottostante: come mostra l'insuccesso di Kaunda, il tentativo pasticciato di mettere insieme elementi teorici stalinisti e di socialismo africano ha prodotto una combinazione ingestibile, che ha scontato gli aspetti peggiori di entrambi i modelli;
- gli insuccessi sono venuti anche da una incoerenza fra teoria sottostante e decisioni politiche effettivamente adottate. Come mostra il caso di Nyerere, l'incoerenza fra una teoria che voleva indurre volontariamente i produttori agricoli ad associarsi nei villaggi rurali e concreti atti politici che in molti casi hanno costretto le comunità agricole ad aggregarsi nelle ujamaa, ha impedito che si creasse quello spirito comunitario e cooperativo che avrebbe dovuto garantire il successo dell'esperimento. Senghor, dal canto suo, si muoveva con una teoria che mirava a recuperare l'identità culturale del suo popolo, ma lo fece con metodi coercitivi e rigidamente ortodossi, che finirono per realizzare il modello culturale che aveva nella sua testa, ma non quello realmente rappresentativo di una libera manifestazione culturale popolare.

L'attualità di Livorno e il gracchiare dei corvi dell'opportunismo di Onorato Damen

Da Battaglia comunista n. 1 — 1961
La scissione di Livorno ha aperto il solco invalicabile di classe; ha diviso definitivamente i riformisti dai rivoluzionari ed ha caratterizzato fin qui, e caratterizzerà fino alla loro conclusione, le forze politiche che si richiamano al proletariato.
C’è una eredità ideologica e tattica di Livorno che va ancora una volta difesa contro i ricorrenti tentativi di mistificazione che vorrebbero fare apparire quella scissione come un madornale errore politico, a cui si vorrebbe far risalire il posteriore declino dell’azione politica di un proletariato al quale sarebbe stata preclusa ogni possibilità di partecipazione diretta al governo democratico del paese.
Risalendo ai processi intentati a Livorno, bisogna ricordare che già Gramsci, agli inizi del 1924, inaugurando la nuova serie della rivista Ordine Nuovo, aveva affermato la necessità di un ritorno ad una situazione pre-Livorno, per la ragione che a quel Congresso il taglio era stato operato troppo a sinistra. Lungo tale linea di revisione si muoveranno poi, il grado dell’opportunismo non conta, tutti coloro che, come Nenni, facendo il processo alla ideologia di Livorno, intendono farlo alla dottrina e alla prassi del marxismo rivoluzionario.
L’importanza storica di Livorno sta nella nascita del Partito di classe, con la sua rigida interpretazione del marxismo, con la visione strategica della rivoluzione come il solo mezzo esistente per rompere il corso reazionario e fascista del capitalismo. La storia del ventennio non avrebbe avuto lo sviluppo che in realtà ha avuto, se dal profondo travaglio che si è concluso a Livorno non fossero usciti i quadri di combattimento e la decisa avversione di classe al fascismo, e se tutto ciò non avesse rappresentato il presupposto ideale e fisico alla lotta su due fronti, continuata fra le più grandi difficoltà materiali, contro il capitalismo a maschera fascista e contro la degenerazione stalinista che rappresenterà più tardi l’altra maschera, quella democratica e antifascista dello stesso capitalismo.
Abbiamo affermato più volte che il Partito nato a Livorno si è trovato di fronte ad una situazione obiettiva nella quale il problema strategico dell’assalto al potere era storicamente sostituito da quello concretamente più urgente di operare, combattendo con i resti di un proletariato già praticamente sconfitto, una difficile ritirata per salvare il salvabile e tenere in piedi ciò che in uomini, in organismi e in mezzi materiali, avrebbe dovuto assicurare la continuità delle idee, del programma e dello spirito di Livorno. Si aggiunga a ciò la constatazione che la lacerazione del partito socialista avveniva con due anni di ritardo per un errore di prospettiva commesso dalla Sinistra che non aveva saputo porre tempestivamente, al Congresso di Bologna, il problema fondamentale del partito rivoluzionario, disperdendo gli sforzi in un espediente tattico di dettaglio, contingente e di importanza, comunque, marginale come quello dell’astensionismo.
Nell’ipotesi opposta, quella della non scissione e della vittoria del massimalismo serratiano, la Sinistra rivoluzionaria sarebbe rimasta incapsulata nelle maglie dell’opportunismo e non si sarebbe in alcun modo evitato quello che poi è storicamente avvenuto nella situazione nazionale e internazionale del ventennio nazifascista. La Sinistra rivoluzionaria si sarebbe così esaurita in una sterile posizione nell’interno del partitone; le sue idee e la sua azione sarebbero rimaste senza eco di fronte al proletariato e infine sarebbe stata messa nella impossibilità di ancorarsi ad un saldo centro di iniziativa rivoluzionaria nella fase storica precedente il Secondo conflitto mondiale.
Nenni non equivochi coscientemente nel criticare la scissione di Livorno partendo dal bilancio negativo che gli ha offerto e gli offre il partito di Togliatti. Nenni sa perfettamente che tale partito è stato ed è ben lontano dal rappresentare la continuità di Livorno da quando, almeno, ha fatto proprie le idee e le posizioni tattiche del massimalismo serratiano di allora e del minimalismo… nenniano di oggi.
A quarant’anni di distanza questo è il bilancio delle forze politiche presenti al Congresso di Livorno del 1921. Il PSI continua in senso peggiorativo la posizione del centrismo serratiano; il PCI ha cambiato bandiera lungo la sua strada, cessando di essere guida del proletariato rivoluzionario per divenire strumento passivo degli interessi del capitalismo di Stato che ha il suo centro vitale nella esperienza russa.
A quarant’anni da Livorno c’è una convergenza ideale e tattica sul piano della rivoluzione democratica; la stessa convergenza esiste ed è operante in una aperta e concreta avversione alle idee, alla tattica e alle forze politiche che si richiamano al marxismo rivoluzionario. Questi due partiti apparentemente disuniti a Livorno, hanno atteso il momento giusto per manovrare sullo stesso piano di fronte all’antifascismo, tipo Fronte Popolare; di fronte alla guerra di liberazione; di fronte alla loro partecipazione al governo della repubblica. Sempre con l’obiettivo di imporre una soluzione democratico-parlamentare contro quella rivoluzionaria e socialista; per imporre il governo di sua maestà la repubblica contro il potere del proletariato e della sua dittatura di classe.
E Nenni, in nome del PSI, è sincero nella sua affermazione di controrivoluzionario quando scrive sull’Avanti:
E tuttavia non è arbitrario dire che la scissione di Livorno concorse a dilacerare le forze proletarie proprio nel momento in cui la loro unità era un fattore indispensabile di resistenza; non è arbitrario pensare che se il movimento operaio avesse conservato la propria unità e avesse nel 1920-21 impostato il solo problema risolvibile, che era quello della Costituzione e della Repubblica e cioè della rivoluzione democratica, tutta la storia del quarantennio sarebbe stata diversa.
Togliatti, al contrario, si avvale del ricordo di questi quarant’anni che ci dividono da Livorno per mascherare la merce avariata del suo partito sotto il manto degli ideali e del ruolo storico dell’autentico Partito di Livorno.
Tale mistificazione è così grossolana da sembrare persino infantile e ridicola. Tuttavia trova ancora credito la panzana che attribuisce a Gramsci e Togliatti la paternità della costruzione del Partito di Livorno, come trova credito una supposta coerenza del PCI alle indicazioni teoriche e tattiche della piattaforma di Livorno.
Davvero che non è ancora giunto il tempo del crollo di tanti falsi idoli e di tante stupide frottole…

Fonte:http://www.leftcom.org/it/articles/1999-10-01/l-attualit%C3%A0-di-livorno-e-il-gracchiare-dei-corvi-dell-opportunismo

lunedì 23 maggio 2011

CHI E' PISAPIA di Antonio Moscato


pubblichiamo le osservazioni del Profesor Moscato
sul candidato sindaco di Milano
pubblicate sul suo sito col titolo

Sono rimasto stupito per l’attacco della Moratti al “terrorista” Pisapia. Non solo perché era così inverosimile che sicuramente ha danneggiato soprattutto lei, ma perché contrastava grottescamente con l’immagine tranquilla e pacata di questo avvocato figlio d’arte che conosco da anni. Con Pisapia eravamo stati insieme in Libia negli anni Ottanta in un gruppo di studio composto da storici e giuristi per indagare sulle conseguenze dell’aggressione italiana, e mi aveva colpito la sua ingenua curiosità che gli faceva sopportare perfino le più vacue e grossolane apologie del Libro Verde che i propagandisti di regime ci propinavano periodicamente, mentre noi (ricordo tra gli altri scettici il caro Guido Valabrega, ad esempio) eravamo andati soprattutto per utilizzare la preziosa documentazione dal Markaz al Jihad, l’ottimo Centro Studi sulla guerra e la resistenza della Libia. Ritrovai poi Giuliano in Rifondazione, come indipendente abbastanza estraneo alle lotte di fazione. Era stato proposto come Ministro della Giustizia, ma la nomina fu bloccata – pare - dal veto delle associazioni dei magistrati che lo ritenevano troppo “garantista” e favorevole a una limitazione del loro potere.
La vicenda precedente tirata fuori dalla Moratti non la conoscevo, ma è tipica di quegli anni Settanta: Pisapia era stato arrestato con altri 160 (centosessanta!) compagni due anni dopo i fatti addebitati, in seguito alla tardiva testimonianza di due pentiti (anzi di un pentito e di un vero provocatore), ed era stato prosciolto subito dall’accusa di partecipazione a banda armata, anche se era stato condannato inizialmente per la complicità morale nel furto di un furgone, che doveva servire per un agguato a un picchiatore della Statale. Pisapia però aveva rifiutato l’amnistia e chiesto di essere processato: fu assolto con formula piena, come ha ricordato Armando Spataro, il magistrato che gli aveva inflitto la prima condanna, oggi con una punta (non di più) di autocritica per quella montatura.

Contrariamente a quel che raccontano Berlusconi e i cerchiobottisti del “Corriere della sera”, la magistratura anche allora non era proprio “rossa”, e gli anni Settanta sono pieni di processi così. Anch’io d’altra parte, per il mio impegno non accademico a fianco del movimento operaio a Bari, ho conosciuto nel biennio caldo 68-69 una dozzina di processi assurdi, cancellati nel 1971 da un’amnistia, contro cui non feci ricorso dato che non avevo la stessa fiducia di Pisapia nella magistratura, e soprattutto non avevo un padre “principe dei penalisti”. La mia sfiducia era comunque ben fondata: subito dopo l’amnistia mi arrestarono al termine di un corteo sindacale attribuendomi la responsabilità (che non avevo minimamente) di una protesta delle commesse della Standa, per imputarmi i reati di radunata sediziosa e grida sediziose. Il magistrato, che era di sinistra e sapeva perfettamente che si trattava di una montatura, mi inflisse ugualmente una lieve condanna (mi pare di ricordare di sei mesi con la condizionale), e spiegò a quattr’occhi al mio avvocato che doveva farlo, perché se mi assolveva, la procura avrebbe fatto ricorso in appello…

Ma torniamo a Giuliano Pisapia, oggi. Sono contento che con la sua faccia pulita abbia contribuito a far fallire il grosso investimento di milioni e di bugie fatto dal pessimo sindaco affarista di Milano e dai suoi avidi sostenitori. Non sono la stessa cosa. Mi aveva fatto anche piacere che lui, outsider, avesse battuto la potente macchina elettorale del PD nelle primarie. Se lo meritavano… Ma ho qualche timore che possa essere presto delusa la fiducia riposta in lui da tanti compagni, giovani o vecchi militanti in letargo resuscitati dalla speranza. Un po’ come quella in Vendola, in calo tra chi lo conosce da vicino, e non ascolta solo le sue fantasiose “narrazioni”…
Il dubbio viene anche da chi si è schierato al fianco di Pisapia: ad esempio Piero Bassetti, il “capofila della borghesia milanese”, nonché primo presidente democristiano della regione Lombardia; l’ex sindaco socialista Carlo Tognoli; Roberto Mazzotta, banchiere ed ex ministro democristiano, e tanti altri dello stesso genere. Di solito i capitalisti e un certo ceto politico borghese non si sbagliano nel giudicare gli uomini...

Ma c’è un altro personaggio chiave della vita politica milanese che ha sostenuto Pisapia: l’ex magistrato e oggi senatore PD Gerardo D’Ambrosio, protagonista di primo piano dei processi di “Tangentopoli” negli anni Novanta, ma anche autore nell’ottobre 1975 della scandalosa sentenza sulla morte “accidentale” di Giuseppe Pinelli che assolveva Luigi Calabresi e gli altri uomini della Questura milanese.

Un appoggio che si spiega però abbastanza facilmente: Pisapia ha avuto il coraggio di sostenere: “È da tutti ormai riconosciuto il fatto che Luigi Calabresi è un servitore dello Stato e ha fatto il suo dovere senza avere responsabilità sulla morte di Pinelli come di fatto ha ricostruito con estrema correttezza il magistrato D'Ambrosio che non a caso è al mio fianco in questo impegno comune per il cambiamento di Milano". Da tutti? Parla per te!

E quanto ai meriti acquisiti nei processi di Tangentopoli da D’Ambrosio (e anche da Di Pietro e altri magistrati “democratici”), sarebbe bene ricordare che gran parte della corruzione che fu “scoperta” in quegli anni era ben nota da tempo, ma veniva tollerata fino a quando si decise che era diventata troppo costosa e non sopportabile, e si diede via libera a un settore della magistratura per un operazione di pulizia. È una precisazione che non intende negare l’utilità di quella campagna moralizzatrice (anche se a volte condotta con metodi spettacolari da telefilm americano), ma semplicemente ricordare che anche in quel caso l’indipendenza della magistratura era relativa.

In ogni caso la cautela nel valutare il “fenomeno Pisapia” (che ha affascinato anche settori dei centri sociali o di “San Precario”) ha una ragione molto più semplice, ma concretissima: come ha fatto Vendola in Puglia e come spera di fare oggi a livello nazionale, Giuliano Pisapia (che però non ha la stessa esperienza di politico navigato che ha l'immaginifico Nichi), ha conquistato la testa di una coalizione in cui la parte del leone la fa e la farà il Partito Democratico, a cui in caso di vittoria la legge elettorale garantisce automaticamente una maggioranza assoluta insieme ai partiti minori moderati, liste civiche, Bonino, ecc., anche senza l’apporto della Federazione della sinistra, a cui si offrirà solo l’alternativa tra ingozzare altri rospi o essere tagliata fuori da una coalizione su cui ha puntato molto. Non è difficile immaginare cosa potrà accadere. O dovremo medicare le piaghe di una nuova amara “sorpresa”, in realtà tutt’altro che imprevedibile?

(a.m. 19/5/11)

L'internazionale di Mao...?di Onorato Damen

Col crollo della III Internazionale Comunista, i partiti che si richiamano al proletariato hanno cessato di fatto di avere legami internazionali, ancorati saldamente agli interessi di classe e nel cuore delle masse operaie. La IV Internazionale, sorta per iniziativa di Trotzky, per il modo come è nata e si è sviluppata, non ha mai rappresentato una seria possibilità per la costruzione dl una vitale organizzazione rivoluzionaria e doveva finire, come è finita, ingloriosamente perché concepita in una fase di deflusso del moto operaio e, quel che è peggio, sotto la spinta di necessità contingenti in cui erano prevalenti i motivi d’una polemica che non investiva i problemi fondamentali determinati da una svolta della storia, ma si perdeva nelle strette di una problematica russa incapace di saldarsi ad una esigenza della lotta internazionale dei lavoratori. Le vicende ulteriori del trotzkismo hanno dimostrato come sia impossibile ed inutile dar vita ad organizzazioni internazionali se non è in atto una vasta e profonda ripresa del conflitto di classe. Anche questo ha insegnato il trotzkismo, che il ripetersi di tentativi del genere finisce per creare organismi privi di vita e di avvenire, destinati a vivacchiare stentatamente, a far da greppia al funzionarismo più deteriore e in definitiva a generare disorientamenti e sfiducia tra le masse lavoratrici.
Nella eventualità, non impossibile, che il dissidio Russia-Cina tenda a radicalizzarsi, perché non trattasi di dissidio di ideologia, ma di contrasti di interessi e di politica di potere, è legge politica che debba tradursi sul piano organizzativo col formarsi, ciò che attualmente è ancora allo stato potenziale, di un nuovo centro di potere nello schieramento delle forze internazionali che pretendono richiamarsi alla classe lavoratrice.
E si avrebbe così una nuova Internazionale, quella di Mao, che farebbe seguito a quella tentata da Trotzky. Se non altro, con tutti i suoi errori e i suoi limiti, la IV Internazionale aveva alla sua testa, all’atto della sua costituzione, l’uomo che, a fianco a Lenin, aveva avuto un ruolo fondamentale e determinante nella Rivoluzione d’Ottobre e portava con sé le ragioni ideali e l’immensa vitalità e suggestione d’una opposizione rivoluzionaria che sotto molti rapporti rappresentava la continuazione d’Ottobre.
In prospettiva, dunque, l’ipotesi di un nuovo centro di potere che si trasformerà di fatto in un nuovo centro di confusione. Perché? Perché non vi può essere organizzazione internazionale di classe se non è espressa da una profonda lacerazione rivoluzionaria del tessuto della società capitalista e se da tale lacerazione non si è strutturata una società socialista, garantita dall’esercizio della dittatura di classe del proletariato. Ma nella Cina di Mao non vi è stata rivoluzione proletaria, non vi era ancora una vera e propria economia capitalista e la stessa rivoluzione agraria deve ancora uscire, per buona parte, dalla fase della produzione pre-capitalista.
La «grande marcia» trovò il suo presupposto in una istanza nazionalistica fatta di sentimenti nazionali offesi dal tradimento del Kuomintang che si era fatto strumento delle classi feudali. Mao-Tsè-tung ha fatto leva su questo spontaneo sentimento popolare, ha operato nelle campagne con la tecnica del moto partigiano inserendosi profondamente e concretamente nella società contadina in crisi, chiamandola alla duplice lotta per la liberazione nazionale contro l’invasore straniero e dall’oppressione dei feudatari interni. Non sono questi i segni caratteristici propri della rivoluzione nazionale borghese?
E allorché Mao si troverà a dover ricostruire l’organismo dello Stato lo farà col suo empirismo metodologico piegando alle esigenze «nazionali», alla realtà di una economia arretrata, un marxismo spurio, per una via a cinese» al socialismo.
Si ha in una parola una strumenta-alone presa a prestito dallo stalinismo e adattata sul suolo cinese con metodi e finalità che si identificano con lo sforzo, certo notevole, di portare fino in fondo la rivoluzione borghese corredata da una teologia di osservanza comunista, tolta, in quanto a tecnica e terminologia, dall’arsenale dello stalinismo più deteriore e si avrà la fugace apparizione delle «comuni agricole» sorte per disposizione dall’alto, nel quadro di una economia tesa nello sforzo della costruzione del capitalismo di Stato. Una edizione, quindi, sotto molti rapporti peggiorata in confronto a quella offertaci dall’esperienza russa. E quando Mao parlerà in termini di internazionalismo proletario, state certi che lo farà avendo sulle labbra i termini della dialettica marxista, ma nel cuore la «grande armonia» intonata alla filosofia confuciana come sintesi delle contraddizioni che vivono nel seno della immensa società cinese. Chi non ricorda, in funzione di questa «grande armonia», la sua dottrina delle «diverse scuole», la dialettica liberale dei «cento fiori?».
Quel che è certo, comunque, è che una internazionale rivoluzionaria, la nuova internazionale per la quale noi marxisti ci battiamo, non potrà mai nascere ed aver vita da una realtà storica in cui si agitano interessi propri dell’economia capitalista, lo sfruttamento del lavoro, la politica di potere e di dominio imperialista e la guerra. Questo è il caso della Cina di Mao, Il nuovo centro di potere dopo la Russia e l’America.

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