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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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domenica 29 maggio 2011

TROTSKY E GRAMSCI: RIVOLUZIONE PERMANENTE E RIVOLUZIONE PASSIVA



di ALBERTO BELCAMINO


Il tema sulla “rivoluzione passiva”, riscoperto e messo in circolazione da Gramsci, che s'ispirava agli eventi del Risorgimento italiano (vedi il terzo "Quaderno del Carcere"), ci permette anche di fare un proficuo confronto tra la metodologia della "Rivoluzione Permanente", che animava l'azione bolscevico-leninista, e quella della "Rivoluzione passiva" che, in origine, era stata descritta da Marx ed Engels, ma che il comunista italiano richiamava in campo, operando delle modifiche sostanziali che si sono riflesse in modo contrario allo sviluppo del pensiero dialettico marxista. Gramsci, come Trotsky (che già al III° Congresso dell'Internazionale del 1921 aveva stilato un rapporto su "Dove va il capitalismo?"), si poneva il problema sulla categoria dell' "equilibrio instabile" o della " stabilizzazione relativa" del capitalismo. Esattamente come avviene oggi, nel marasma del pensiero economico internazionale fra premi Nobel dell' economia, fautori di misure anticrisi adottate dagli Stati nel tentativo di fare decantare, gradualmente, la crisi medesima; e pensatori "catastrofisti" che ritengono la crisi ingovernabile"dall'alto", ed in preda ad imminenti scenari di "guerre tra stati e rivoluzioni".
Per Gramsci, "rivoluzione passiva" equivale a una fase storica contrassegnata dai segni “Rivoluzione-restaurazione”, concetto differente da quello messo in evidenza da Marx ed Engels che, nel Sec. XIX°, si riferivano alle rivoluzioni "dall'alto" succedute alla grande rivoluzione francese che fu, invece, una rivoluzione "dal basso". I due fondatori del materialismo storico giudicavano tali (cioè: le rivoluzioni passive), quelle che la Storia aveva offerto con Napoleone III, nel 1851, e con Bismarck nel 1866! Ma, nel terzo Quaderno del Carcere, Gramsci prende a modello il periodo del Risorgimento italiano per estendere il concetto di "rivoluzione passiva", In questo paradigma, egli considera il compito progressivo della unificazione nazionale italiana come un obiettivo portato a termine dal Partito dei Moderati, dall'esercito e lo Stato piemontese, realizzato in una forma reazionaria a causa dell'alleanza, imposta alle masse democratiche, tra borghesia del Nord e grandi proprietari del Sud, che aveva accantonato l' urgente e preminente rivoluzione agraria, cosa che invece venne realizzata nella rivoluzione francese del 1789.
Il mezzo reazionario di restaurazione, più tardi (dopo il 1871), venne sostituito con quello del "trasformismo", con cui la borghesia aveva incorporato "al suo programma moderato i leader popolari, i più radicali del partito d'Azione che in luogo di giocare un ruolo giacobino attivo si sono trovati subordinati all'ala destra del processo" (inclusi i partiti socialisti operai). Questo tipo di rivoluzione passiva, quindi, si poneva il compito di imbrigliare e frenare la rivoluzione socialista! Gramsci trasferisce, per analogia, tale concetto al periodo successivo alla Prima guerra mondiale per spiegare come il capitalismo fosse riuscito a neutralizzare le rivoluzioni socialiste in Europa e creare le condizioni per una stabilizzazione relativa del capitalismo. Egli ritiene che l' "Americanismo" sia uno dei metodi utilizzati dalla borghesia monopolistica per modernizzare il capitalismo "dall'alto", pertanto assimilabile al concetto di "rivoluzione passiva". Infatti: "Americanismo" per Gramsci ha il significato di una razionalizzazione della produzione e del lavoro negli USA (la catena di montaggio fordista), che combina abilmente la forza (ad esempio, la distruzione del sindacalismo d'industria, i rivoluzionari IWW) alla persuasione ideologica e politica facendo leva sugli alti salari, i benefici diversi e la propaganda politica, onde si serve di parecchi intermediari professionali e politici che diffondano una campagna, sottile ed incessante, di conquista del consenso al sistema di sfruttamento. Questo metodo, utilizzato dal capitalismo dominante, era ritenuto capace, dal pensatore comunista italiano, di evitare la catastrofe sistemica, mediante l'aumento della produttività attraverso l'estorsione di un maggiore plusvalore relativo e, in aggiunta, associandolo alla categoria politica della rivoluzione passiva, intesa come rivoluzione-restaurazione, gettava le basi per un riadattamento riformista del capitalismo. Per Gramsci, insomma, non è sufficiente lo scoppio della crisi economica per rompere l'equilibrio capitalistico, ma occorre superare il mondo economico dei conflitti per passare alla lotta di classe sul terreno politico, dentro il cui specifico quadro, si gioca la lotta per il Potere.
Questa posizione polemica è contraria a quella del determinismo economico, il quale credeva (e crede) che le crisi economiche da se stesse avrebbero prodotto gli eventi fondamentali per la rottura degli equilibri capitalistici, ossia: che questi dipendano da cause immediate d'impoverimento di gruppi sociali che hanno interesse a mettere a repentaglio l'equilibrio delle forze. Su quest'ultimo aspetto, il comunista italiano aveva ragione ed era in sintonia con le concezioni marxiste-leniniste di Trotsky. La divergenza da quest'ultimo aveva luogo proprio sul terreno della concezione della rivoluzione permanente, a cui Gramsci sostituiva quella della "rivoluzione passiva”. Difatti, l'elemento determinante nel quadro della concezione della rivoluzione passiva, reinterpretata da Gramsci, consisteva nell' assegnare al secondo termine della coppia "rivoluzione-restaurazione", una funzione preminente, nel senso che, o sotto la forma della repressione (il fascismo), oppure della restaurazione mediante la nozione di "egemonia civile (cioè: del nuovo tipo di Stato che interviene nell'economia e che funge da impresa, holding statale, consentendo il risparmio a disposizione degli industriali e dell'attività privata), si supera la fase catastrofica della crisi dando inizio a un puro processo d'evoluzione riformista. In altri termini, con il corporativismo (passaggio da un'economia individualista a un'economia "pianificata-diretta" statale - ossia: la forma fascista) l'apparato statale razionalizza quello produttivo superando la fase catastrofica della crisi: disoccupazione di massa, guerre tra Stati, guerre doganali, blocchi etc. Il fascismo è l'altro metodo messo in atto, specie in Europa, nel primo Dopoguerra, per affermare il momento della restaurazione, all'interno della concezione di rivoluzione passiva in Gramsci. Ne discende che "Americanismo e fascismo hanno un denominatore comune: quello di rilanciare su basi nuove il capitalismo, disaggregando nel contempo le forze antagoniste, separando il proletariato dalla piccola borghesia".
Trattasi, in sintesi, di due tentativi di modernizzazione del capitalismo "dall'alto", pertanto assimilabili al concetto di "rivoluzione passiva" che implica importanti trasformazioni statali, oltre che la razionalizzazione-riorganizzazione dell'economia. L'Americanismo (= aumento di produttività) consente al nuovo tipo di Stato di intervenire con l'egemonia sin dal luogo di produzione, l'officina, utilizzando gli intermediari sindacali, politici e culturali che diffondono l'"ideologia ristretta" in mezzo ai lavoratori; e, inoltre, di giocare il ruolo d'investitore a medio e lungo termine, stabilendo una nuova relazione con le classi subalterne, cosa che gli consente di costruirsi una base sociale tra le "genti normali e gli intellettuali, mentre fa sì che la sua struttura dipenda dalla plutocrazia". È così che il nuovo tipo di Stato (che si affaccia negli Stati Uniti, nel primo Dopoguerra), assume le sembianze di uno Stato liberale nel suo significato di liberalismo economico (e non più di liberalismo doganiero), che si caratterizza per la sua società civile e per il suo sviluppo proprio al regime di concentrazione industriale e monopolistico!
Perché una tale concezione prende una deriva riformistica rispetto alla concezione bolscevico-leninista di un Trotsky, ad esempio?
Prima di tutto per l'errata analogia, con gli eventi del secolo dell'imperialismo, della teoria della rivoluzione passiva di Marx ed Engels! Per questi ultimi, infatti, "rivoluzione dall' alto" voleva dire rivoluzione sociale (con il predominio della classe borghese su quella feudale) che progrediva verso l'industrializzazione e la riforma agraria, anche se sotto la guida di governi bonapartisti e reazionari nella forma, nel senso che la classe borghese ed anche quella operaia si andavano consolidando nei loro nuovi ruoli sociali, indipendentemente dal fatto di lasciare temporaneamente la direzione delle leve statali in mano a classi reazionarie, o addirittura feudali (come gli Junker prussiani da cui proveniva Bismarck). Inoltre, il capitalismo europeo (e quello americano, dopo la guerra di secessione tra Nord e Sud negli Usa), era in una fase di ascesa storica, nel corso di tutto il XIX sec. Cioè: esso progrediva complessivamente su scala storica, non era ancora giunto alla sua fase declinante come alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra mondiale del 1914! Dopo questa data, il capitalismo entrava nella fase dell'imperialismo e dell'esportazione dei capitali nel mondo per il predominio industriale -finanziario: lo sviluppo non era più complessivo, ma solo a livello di un pugno di Paesi avanzati e di aree del mondo che si contendevano la supremazia dei mercati e delle materie prime: ora lo sviluppo riguardava solo un team di Paesi, mentre il resto del mondo scivolava inesorabilmente verso la miseria crescente! Il Fordismo, l'aumento della produttività del lavoro, le razionalizzazioni mediante intervento degli Stati e dei nuovi metodi produttivi non rientravano nel concetto di "rivoluzione dall'alto", come Gramsci travisava, perché non c'era nessuna nuova classe storica al potere, ma solo la pertinace volontà di una classe vecchia (la borghesia monopolistica) di conservare a tutti i costi il dominio con la violenza statale più la persuasione ideologica. O, come nel caso del fascismo, di alimentare il corporativismo statale mediante le repressioni generalizzate e il cambiamento delle istituzioni statali! C'era solo restaurazione sotto le forme dell'americanismo e del New Deal, o mediante le politiche autarchiche e il blocco del mercato mondiale dentro i limiti angusti degli Stati nazionali autoritari e totalitari (compresa la degenerazione in atto del regime stalinista dell'URSS). Anche il regime stalinista, con la scelta strategica del "socialismo in un solo Paese", imboccava la strada verso la "Contro-rivoluzione passiva" che doveva assorbire, molecolarmente, quel regime oppressore e totalitario verso i lavoratori, al termine della Seconda guerra mondiale (sparizione della qualità sociale di "Stato operaio" burocratizzato!) dentro il sistema della Reazione capitalistico-finanziaria mondiale, in modo graduale, e con i mezzi della più feroce repressione statale che la Storia abbia mai conosciuto, condotta per almeno 60 anni! Il concetto di "rivoluzione passiva" nel marxismo veniva così stravolto fino al punto da considerare le crisi capitalistiche non più "come condizioni dello sviluppo ulteriore del capitale (anche a livello ristretto a pochi Paesi), onde cerca di scappare dalla crisi, ripristinando un'organizzazione del lavoro nuova che estragga più lavoro "non pagato", ma come restaurazione che apre una fase di sviluppo pacifico delle relazioni capitalistiche, una stabilizzazione relativa del sistema! In questo modo si ottiene, come risultato, quello di "ridurre la dialettica a un processo d'evoluzione riformista". Con questo concetto di "rivoluzione passiva", Gramsci si pone contro la teoria della rivoluzione permanente che contiene l'idea della rivoluzione ininterrotta, a causa della sopraggiunta complessità dei fattori soggettivi per la conquista del potere statale dovuta all'affacciarsi di un nuovo tipo di Stato che esercita l'egemonia civile con cui riesce ad incanalare sulla via riformista il processo politico rivoluzionario. Subentrano, dopo le crisi, situazioni caratterizzati da stabilità sistemica che debbono essere affrontati con i mezzi della "guerra di posizione" al posto di quelli della "guerra di manovra". Ciò richiede una condotta che si soffermi su obbiettivi politici più specifici, che interrompa lo schema di continuità senza soluzione della idea di rivoluzione permanente. Questa difficoltà di portare a termine il processo rivoluzionario senza interruzioni era stato già intravvisto, sia da Lenin che da Trotsky, tant'è che proprio sulle forme da impiegare a fronte a queste fasi transitorie, vennero riadattati i programmi di lotta al Terzo e Quarto Congresso della III Internazionale! Da tutto questo, per Gramsci, discendeva la scelta di impegnare il proletariato, per primo, sul terreno della società civile e delle lotte di fabbrica di tipo "ordinovista", dove occorreva impegnarsi per la costruzione del socialismo nella società civile, da subito, ancora prima di prendere il potere statale, allungando, nella sua durata, la situazione rivoluzionaria e l'avvento della repressione violenta del nemico di classe. In attesa che si formasse il nuovo "blocco storico" attorno al proletariato di fabbrica, sul terreno sociale, per arrivare, in seguito, sul terreno politico, all'alleanza con gli altri lavoratori e strati poveri della piccola borghesia a dare l' "assalto al cielo" e instaurare la dittatura proletaria. Dal rapporto di Trotsky al Terzo Congresso della III Internazionale nel 1921, ricaviamo come i bolscevichi giudicassero, giustamente, sia le crisi capitalistiche che il rapporto tra struttura e sovrastruttura, in chiave di antideterminismo economico. A differenza di Gramsci, essi partivano dalla natura rivoluzionaria della classe operaia, anziché dall' "egemonia sociale" del nuovo tipo di Stato capitalistico. "La categoria dell'equilibrio capitalista è un fenomeno complicato", scriveva Trotsky, "il regime capitalistico costruisce questo equilibrio, lo rompe, lo ricostruisce, e lo spezza di nuovo, aumentando nel passaggio i limiti della sua dominazione. Nel campo della dominazione economica, le crisi e le recrudescenze d'attività costituiscono le rotture e la ristabilizzazione dell'equilibrio. Nel campo della relazione tra le classi", continua il Rapporto, "la rottura dell'equilibrio consiste in scioperi, licenziamenti (lock-out), lotte rivoluzionarie. Nel campo delle relazioni tra Stati, la rottura dell'equilibrio e generalmente la guerra, o meglio, in maniera più occulta, la guerra delle tariffe doganali, la guerra economica e i blocchi. “Un tale equilibrio – prosegue il documento – possiede una grande forza di resistenza. La prova migliore è l'esistenza anche del mondo capitalista".
Lungi dal determinismo economico, Trotsky sostiene che "uno deve prendere come punto di partenza l'analisi delle condizioni e delle tendenze dell'economia e dello stato politico del mondo come un Tutto, con i suoi legami e le sue contraddizioni, cioè considerando la dipendenza reciproca che oppone tutti i suoi componenti. E continua: "Sulla base del solo determinismo economico, niente ci garantisce che l'equilibrio capitalista non si ristabilisca.... Se noi annulliamo la natura rivoluzionaria della classe operaia, della sua lotta e del lavoro del partito comunista e dei sindacati, allora noi potremmo affermare che la disfatta della classe operaia, il fallimento delle sue lotte, della sua resistenza, della sua autodifesa e delle sue offensive, come conseguenze di tutto questo, il capitalismo restaurerà il suo proprio equilibrio, non il vecchio, ma un nuovo equilibrio ". Trotsky, dunque, nel periodo 1920/29, si soffermava sull'equilibrio instabile. Dopo la grande crisi, egli indica l'avvento di una fase catastrofica. Perciò era necessario aiutare le rivoluzioni che sarebbero scoppiate, negli anni '30, specie in Francia e Spagna, a trionfare. Diversamente si sarebbe crollati nella voragine della Guerra alle porte e nel declino economico e politico dell'Europa che sarebbe finita, come avverrà, sotto il dominio degli Stati Uniti e dell'Assolutismo burocratico-militare dell'URSS che ha fatto scempio del movimento comunista mondiale, aprendo la porta Scea del marxismo rivoluzionario all'invasione delle forze revisioniste ed antirazionaliste della Storia nel XX° sec. e di questo scorcio del XXI.

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