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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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lunedì 25 luglio 2011

ACCORDO CAMUSSO-MARCEGAGLIA: DOMANDE DI FERRANDO A VENDOLA E FERRERO


di Marco Ferrando
dal sito del PCL
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A tutti i militanti operai e attivisti d'avanguardia, risulta chiara la valenza sindacale profondamente regressiva dell'accordo Camusso- Marcegaglia- Bonanni- Angeletti. Ma è bene chiarire sino in fondo il suo significato squisitamente politico.
Paradossalmente l'accordo è figlio indiretto della sconfitta di Berlusconi alle elezioni amministrative e nel referendum. Quella sconfitta ha infatti materializzato agli occhi di Confindustria, come a quelli delle burocrazie sindacali, la chiusura di una stagione politica e il delinearsi di una prospettiva politica nuova. Da qui l'esigenza, da entrambi avvertita, di un cambio di registro.


CONFINDUSTRIA SI PREPARA AL CENTROSINISTRA

Confindustria sa che si avvicina la probabile “svolta” di centrosinistra. E sa che il nuovo governo dovrà gestire una stretta sociale drammatica: non solo il grosso del lavoro sporco ereditato da Berlusconi e Tremonti in ordine al pareggio di bilancio ( 2013-2014); ma anche la successiva cura da cavallo- dettata dai banchieri europei e fatta propria da tutti i partiti dominanti- in ordine all'abbattimento accelerato del debito pubblico sino al 60% del PIL. Come sarebbe possibile gestire una simile stretta appoggiandosi sulle fragili spalle di Bonanni e Angeletti, senza un coinvolgimento della Cgil? L'apertura di Marcegaglia a Camusso ha esattamente questo significato. Non solo cercare di imbrigliare e subordinare la Fiom dentro un nuovo patto sociale, restringendo e possibilmente annullando ogni suo spazio di manovra. Ma preparare la strada della ennesima compromissione della Cgil nella politica antioperaia del futuro governo confindustriale di centrosinistra.

LA BUROCRAZIA CGIL SI PREPARA A GESTIRE I SACRIFICI

Per la burocrazia CGIL è valso un giudizio analogo e speculare. La sua vocazione al patto sociale è strategica ed organica. Ma nei due anni passati, a fronte di un governo Berlusconi stabilmente in sella (e attestato sul blocco pregiudiziale con la Cisl ), questa vocazione non poteva svilupparsi come avrebbe voluto. Oggi la crisi verticale del berlusconismo apre alla burocrazia uno spazio nuovo di reinserimento nel “gioco”. La Cgil si offre preventivamente a Confindustria e al futuro probabile governo di centrosinistra, come ammortizzatore indispensabile del conflitto sociale a fronte della nuova annunciata stagione di sacrifici. Il suo accordo con Confindustria, naturalmente, offre anche un vantaggio contingente al governo decrepito di Berlusconi. Ma l'interlocutore vero e strategico dell'accordo non è il Cavaliere, bensì il centrosinistra. Che infatti, a partire da Bersani, si spertica di lodi nei confronti della “responsabilità” della Cgil. Infatti proprio la sponda della Cgil, come già in passato, potrà permettere al “governo amico” di cercare di bastonare pesantemente i lavoratori, col minimo di reazione sociale. Se così stanno le cose- e così stanno- poniamo alle sinistre italiane un interrogativo molto semplice: come possono continuare a perseguire come se nulla fosse un accordo di governo col PD, grande sponsorizzatore dell'accordo antioperaio Marcegaglia- Camusso?

IL SILENZIO DI NICHI VENDOLA È IL SUO PEGGIOR COMIZIO

Nichi Vendola, così loquace nei pubblici comizi, tace totalmente sul nuovo accordo Camusso- Marcegaglia. E' un caso? Una disattenzione? O magari una forma di rispetto della cosidetta “autonomia sindacale”, come spesso si dice in questi casi? Nulla di tutto questo. Quando si trattò di criticare pubblicamente le ( sacrosante) contestazioni degli operai alle sedi Cisl, Vendola fece ben sentire la propria voce. E così quando lamentò il mancato coinvolgimento della Cisl nello sciopero generale del 6 Maggio.. Peraltro non è proprio l'autonomia sindacale della Cgil da Confindustria che andrebbe difesa contro la burocrazia dirigente del sindacato? Invece, silenzio tombale. La ragione vera è assai semplice. Un candidato premier ( in pectore) del centrosinistra- tanto più in tempi di stretta sociale- non può contrastare la concertazione, cioè la subordinazione dei lavoratori ai padroni. Perchè la concertazione è esattamente la ragione costitutiva del centrosinistra. E un suo Presidente del Consiglio, comunque si chiami, dovrebbe semplicemente gestirla, nel nome di quei poteri forti che sono fisiologicamente i veri mandanti del governo e del suo programma. Del resto, perchè mai lo stesso Vendola che tace sull'accordo, ha recentemente dichiarato sul Corriere della Sera che “la sinistra non può più attestarsi sulla difesa del vecchio Welfare”? Oppure perchè ha più recentemente affermato che “ solo una classe dirigente moralmente legittimata può chiedere sacrifici”? Non sono proprio i sacrifici dei lavoratori ad essere immorali, dopo 20 anni di arretramenti? Evidentemente la preparazione al premierato è lastricata di segnali inequivoci. Inclusa la rivendicazione di una possibile unificazione di Sel col PD liberale. Ma tutto questo non è forse una pugnalata preventiva alla FIOM, contro tutte le recite elettorali sulla propria vicinanza ai metalmeccanici? Nel momento in cui la burocrazia della Cgil si accorda coi padroni contro i metalmeccanici e il loro principale sindacato, il silenzio di Nichi Vendola non è forse un avallo alla politica della burocrazia? E' indubbio. Ma è appunto il prezzo pagato- senza particolare sofferenza- alla propria ambizione presidenziale. Se tutto questo accade già oggi, quando il premierato è ancora un'ambizione virtuale, ognuno può immaginare casa accadrebbe quando Vendola si trasformasse in un Presidente reale del Consiglio, a braccetto di Bersani e D'Alema. Siamo al Bertinottismo parte seconda. Altro che nuova speranza a sinistra!

LE ACROBAZIE DELL’EX MINISTRO FERRERO

Ma una domanda s'impone anche alla FDS e a Paolo Ferrero. A differenza di Vendola, Ferrero ha attaccato l'accordo tra Cgil e Confindustria, con parole inequivoche. Così come pochi giorni or sono ha attaccato, senza ambiguità, la macelleria poliziesca in Val di Susa. Bene. Anzi, benissimo. Ma poiché resta il fatto che sia la strage di democrazia sindacale, sia l'aggressione militare ai No Tav abbiano avuto il benestare determinante del PD- che anzi è stato per molti aspetti il vero ispiratore di entrambe- chiediamo pubblicamente a Ferrero: come puoi continuare a rivendicare “il patto democratico” col PD per la prossima legislatura? Come puoi ricercare l'accordo programmatico con un PD che è dall'altra parte della barricata rispetto ai movimenti sociali, persino nella stagione di Berlusconi, (figuriamoci col centrosinistra)? Sostieni che non si può avere una posizione pregiudiziale. Ma la vera posizione pregiudiziale non è forse quella che ignora “pregiudizialmente” la vera natura del PD, la sua collocazione confindustriale, i suoi rapporti col potere finanziario, sino alla corruzione fisiologica che non a caso attraversa i suoi ambienti dirigenti e le loro commistioni d'affari ( v. D'Alema e la Fondazione Italiani Europei)? Dunque perchè Paolo Ferrero parla in un modo e agisce in un altro? Perchè l'ex ministro non ha cessato di vivere sotto le spoglie dell'oppositore sociale o dell'amico dei movimenti. E se per avere la speranza di un pugno di parlamentari eletti, si deve accordare col PD, firmare il programma borghese della sua coalizione di governo, sostenere il candidato premier di quella coalizione, impegnarsi a votare la fiducia a quel governo confindustriale, ben venga questo “sacrificio”. I metalmeccanici possono aspettare. E la verità con loro.

O DI QUA O DI LA, IN MEZZO AL GUADO NON SI PUÒ STARE
L’accordo Camusso Marcegaglia non è solo un fatto sindacale. E' il biglietto da visita del nuovo centrosinistra che si prepara. Contestare in ogni sede quell'accordo, impegnarsi a contrastarlo tra i lavoratori, creare le condizioni di massa per farlo saltare non è solo un impegno sindacale. E' il primo atto di opposizione preventiva al nuovo governo confindustriale in gestazione. Per questo a tutte le sinistre diciamo :” O di qua o di là,in mezzo al guado non potete stare”. Né ripiegando in un assordante silenzio. Né usando parole biforcute, contraddette dalla realtà dei fatti. Rompere col PD e il Centrosinistra, grandi sponsorizzatori del tradimento sindacale; unire tutte le sinistre politiche e sindacali in una mobilitazione vera contro governo e il padronato; preparare per questa via un'alternativa di classe a Berlusconi e alle classi dirigenti del Paese. Questa è la proposta e la linea di massa del Partito Comunista dei Lavoratori, nei luoghi di lavoro, nei sindacati, in tutti i movimenti.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

MARX: PRIMA DI TUTTO UN RIVOLUZIONARIO




Pubblichiamo questo articolo di OLYMPE DE GOUGES che nel suo blog, DICIOTTOBRUMAIO, riprende ancora il nostro scritto BENTORNATO CARLO MARX in risposta al libro del Fusaro

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di Olympe De Gouges


Intervengo brevemente su un’obiezione sollevata da Andrea in un suo commento a questo post nel sito di Bentornata Bandiera Rossa. Egli scrive, tra l’altro: leggendo i testi di Marx si trovano tante teorie che cambiano da un testo all'altro”. Per quanto riguarda certi dettagli, inevitabilmente, Marx si è espresso talvolta anche con posizioni e accenti diversi. È normale per un autore che ha scritto così tanto e nel corso di quattro decenni sui più disparati argomenti.

Ma noi dobbiamo badare alla sostanza del lascito marxiano, alle sue grandi scoperte. Come critico dell’idealismo e del vecchio materialismo ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana e con essa la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata; con una profondità d’analisi ineguagliata ha scoperto il plusvalore, gettando un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti; conseguentemente ha rivelato il meccanismo dell’accumulazione e la legge sulla caduta tendenziale del profitto.

Su tali capisaldi teorici si è innestato il movimento, certamente e necessariamente variegato, che chiamiamo marxismo. In questo senso, anche senza l’avvallo di un notaio o di Fusaro, possiamo considerare Marx il fondatore di quel movimento, così come consideriamo Darwin il fondatore del variegatissimo darwinismo. È questa una polemica speciosa tesa a sottrarre Marx dalla sua realtà storica per farne un santino ad uso delle camarille accademiche e mediatiche, in definitiva per disinnescarlo e renderlo potabile per altri progetti.

Non è un caso, infatti, che in questa operazione a tavolino si dimentichi del tutto volontariamente che Marx ­– come ebbe a sottolineare Engels – “era prima di tutto un rivoluzionario”. La sua azione era volta a contribuire, in un modo o nell’altro, all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, quindi all’emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria liberazione.

domenica 24 luglio 2011

TRE BORDIGA PER UN MILIONE DI GRAMSCI di L. Mortara



di Lorenzo Mortara


Nell’ultimo numero di N+1 (Aprile 2011), la rivista di una delle migliori frazioni della sinistra bordighista, sono trascritte alcune relazioni inedite esposte da Amadeo Bordiga, il nostro grande padre fondatore, a una delle riunioni del Partito Comunista Internazionale del 15-16 Luglio 1961.
In una di queste, Bordiga ripassa la lezione marxiana sui grandi uomini della Storia, ricordando che lui è solo un «buon manovale del muscolo cervello». A differenza di Gramsci che credeva che la forza di un solo grande compagno potesse moltiplicarsi per un milione con l’abnegazione e la dedizione assoluta alla causa rivoluzionaria, Bordiga riteneva che uno come lui non potesse andare più in là del lavoro di tre uomini. Ma anche così, uno e trino, Bordiga restava sempre insignificante per i destini della Storia, e come lui tutti noi. Forzando la lezione marxista, anche per Bordiga gli uomini fanno la Storia tutti insieme, ma dalle azioni e reazioni di milioni di loro che si annullano a vicenda, scaturisce una Storia che non è voluta praticamente da nessuno. Fedele al nichilismo settario, Bordiga pensava che gli uomini non contassero nulla, sovrastati com’erano e come sono dagli eventi che li determinano in tutto e per tutto. Il marxismo, ovviamente, non è proprio così. È un po’ meno estremista, ma non per questo meno a sinistra. Se il bordighismo appare più a sinistra, è soltanto perché il marxismo è tanto centrato a sinistra quanto il bordighismo è solo un marxismo scentrato a sinistra che non va mai a bersaglio.
Bordiga accusava di idealismo l’equazione gramsciana di uno uguale a un milione. Per il suo materialismo, un uomo poteva fare al massimo per tre. Grande scienziato del marxismo, da un punto di vista strettamente scientifico, aveva ragione. Ma in Gramsci non c’era solo lo studioso e il rivoluzionario come in Bordiga, c’era anche il poeta visionario del marxismo. Bordiga giudicava troppo severamente le metafore di Gramsci. Un cervello muscoloso come il suo, non poteva capire fino in fondo che un rivoluzionario come Gramsci, non scriveva solo col cervello, ma anche e soprattutto col cuore. Entrambi portentosi e rivoluzionari, i muscolosi cervelli di Gramsci e Bordiga, differivano nel battito del muscolo cardiaco che li irrorava: più caldo e sanguigno quello del primo, più freddo e distaccato quello del secondo.
Se trascuriamo gli effetti eccezionali di grandi sconvolgimenti, come la grande glaciazione, gli effetti degli animali, delle piante e di tutti gli altri accidenti più o meno insignificanti, possiamo dire che, ai tempi del capitalismo, per il marxismo ogni uomo incide sulla Storia in base al rapporto 1 fratto N numero degli uomini che gli fanno da contemporanei. Probabilmente in altre epoche non era così. Quando, nel comunismo primitivo, gli uomini vivevano ancora in piccole tribù isolate le une dalle altre, le potenzialità individuali erano maggiori, anche se probabilmente il concetto di un qualunque tipo di individualismo non c’era nemmeno. È man mano che l’economia degli uomini si intreccia che le potenzialità individuali diminuiscono. Più aumentano le relazioni sociali, più si annacqua la possibilità che un singolo uomo decida qualcosa. L’incidenza individuale, sotto il capitalismo, è qualcosa di così infinitesimale da essere quasi trascurabile. Col socialismo tornerà a pesare e peserà sempre di più. Per intanto, che sotto il capitalismo si sia in genere impotenti, è un qualcosa che il borghese non può accettare perché anche quando non vi veda la negazione del libero arbitrio, bollerà lo stesso noi di determinismo meccanicistico. Un marxista, invece, in tutto questo non vede ragione alcuna per scoraggiarsi, al contrario ci trova maggior consapevolezza per far anzitutto al meglio la propria parte. Di conseguenza, invece di star lì a crogiolarsi in stupide obiezioni da cacadubbi, agisce e basta, felice come una pasqua di aver trovato la libertà, non nel libero arbitrio, ma nell’essersi liberato dai pregiudizi borghesi di stampo medievale, religioso e superstizioso sul libero arbitrio.
Il rapporto 1 fratto N, d’altra parte, è una regola generale che non tiene conto dei tempi e dell’accelerazione della Storia. Nei momenti di calma piatta, la volontà degli uomini è una semplice sommatoria aritmetica delle loro azioni e reazioni. La modificazione che ogni uomo può apportare agli eventi è solo quantitativa, per di più sommersa e cancellata dalle modificazioni quantitative degli altri. In quei momenti, tre Bordiga per un milione di Gramsci sparsi per il mondo, possono anche contare per nessuno. Ma solo per l’intelligenza scolastica degli storici libri dei bidelli della Storia. Per noi invece, che negli angoli dimenticati del presente intravediamo il retaggio del miglior passato ancora gravido di futuro, tre Bordiga per un milione di Gramsci contano sempre per tutti. Quando infatti la Storia si rimette prepotentemente in marcia, quando le azioni degli uomini si riallineano dietro un’azione comune, quando il mondo è pronto per un salto di qualità, basta che un Gramsci o un Bordiga si trovi alla testa delle masse in ascesa, per fare di un muscoloso cervello che vale per tre, l’organo centrale che muove milioni di gambe e braccia che rispondono ai suoi comandi.
Sommando Bordiga a Gramsci non vengono sempre fuori sei manovali del cervello, a volte viene fuori l’intera gigantesca industria della rivoluzione socialista. L’impresa, però, non riesce se gli apprendisti di tutti i grandi manovali del pensiero rivoluzionario, non comprendono come i due calcoli non siano due conti diversi, ma le due operazioni, altrettanto necessarie in tempi diversi, che portano ad un solo, identico risultato.
Bordiga, coi suoi tre cervelli ultra deterministi, finiva con l’allontanare il loro ricongiungimento coi milioni di gambe e braccia che gli avrebbero dato la forza di far fare il salto di qualità alla Storia; Gramsci, invece, come tutti i visionari dell’utopia, avvicinava un po’ troppo quel momento nei suoi articoli più ispirati. Ma anche Marx ed Engels s’erano sbagliati, prevedendo con troppo anticipo il rivolgimento proletario. S’erano sbagliati, non per errori di metodo, ma per il troppo amore, per la virulenza della loro passione. La Storia ha dimostrato, però, che tra tutti i tipi rivoluzionari, solo questi riescono a farla. Solo ai poeti delle rivoluzioni, e nemmeno a tutti, si presenta davanti la più grande ispiratrice della Storia. Solo chi l’anticipa spesso nei suoi sogni, è in grado di non presentarsi in ritardo quando la rivoluzione arriva davvero. Agli altri, manovali del cervello, grandi scienziati della nostra dottrina muscolosa, tocca un ruolo minore ma nient’affatto secondario: quello di preparare il sognatore più accecato dall’utopia che la farà diventare realtà.

Stazione dei Celti
Domenica 24 Luglio 2011
Lorenzo Mortara
Delegato Fiom

venerdì 22 luglio 2011

Nessun si illuda, di Riccardo Achilli



E' fresco di stampa il cosiddetto nuovo piano di salvataggio della Grecia, già pomposamente battezzato "Piano Marshall" dalla stampa borghese. Una analisi di tale piano nei suoi dettagli operativi è ancora prematura, ma già le linee generali evidenziano che è pieno di contraddizioni e funzionale più ad obiettivi politici di controllo del consenso che all'obiettivo di salvare l'euro (non parliamo poi di quello di "salvare la Grecia", che in realtà non c'è mai stato, poiché la Grecia, nelle intenzioni della Germania e della Francia, nonché dei mercati finanziari in generale, andava soltanto dissanguata come quei maiali sgozzati e appesi ad un gancio a testa in giù, per far sgocciolare tutto il sangue nella tinozza, al fine di ripagare fino all'ultimo euro i crediti concessi a tale Paese, che negli anni buoni, ovvero quelli in cui si faceva window dressing dei conti pubblici greci, hanno fruttato redditizi tassi di interesse ai creditori).
Il meccanismo di intervento volontario delle istituzioni finanziarie private è il più evidente segnale di sostanziale fallimento del fondo "salva-Stati" (Efsf), inadeguato per dimensioni ad affrontare l'enorme compito di salvare intere economie che già si trovano, tecnicamente, in default (nel senso che già sono nelle condizioni di non poter più onorare a scadenza le rate del proprio debito pubblico - Grecia, Irlanda, Portogallo, a breve entreranno nel club anche Spagna ed Italia, entrambe economie singolarmente "too big to be bailed out"). Dando per assodato che i privati parteciperanno, nel momento in cui questi presteranno denaro alla Grecia si genererà automaticamente un default selettivo, perché gli interventi previsti, ovvero il rollover, il prestito per operazioni di buyback di titoli del debito pubblico invenduti alle aste, per non parlare di ipotesi di vero e proprio haircut di una quota del debito sovrano circolate durante il vertice europeo, configurano casi di default secondo le agenzie di rating, che automaticamente abbasseranno il rating sovrano greco ad un livello al quale la Bce non potrà più utilizzare i titoli del debito pubblico greco come garanzia per le operazioni di rifinanziamento del sistema bancario greco, portando quindi al collasso il sistema dei pagamenti e l'economia. Per ovviare a ciò, si prevede, nel piano, di utilizzare lo stesso Efsf come garanzia. Tuttavia l'Efsf "vale" circa 255 miliardi di euro, con il livello attuale di garanzie prestato dagli stati membri (ovvero 440 miliardi di euro). Si calcola che circa 10-15 giorni di default selettivo della Grecia costerebbero 20-30 miliardi di euro in termini di garanzie da prestare al fine di rifinanziare il sistema bancario greco. Nel giro di pochi mesi di default selettivo, dunque, l'intero ammontare delle garanzie alla base dell'Efsf verrebbe mangiato, senza contare che tali garanzie devono servire anche per erogare prestiti all'Irlanda, al Portogallo, e fra non molto anche ad Italia e Spagna. E' significativo infatti che si prevede, ora, la possibilità per l'Efsf di prestare denaro anche a governi che non attuano piani di aiuti. Tale possibilità è pensata proprio per Italia e Spagna. Ad aggravare la situazione, vi è che ora l'Efsf potrà intervenire anche per acquistare titoli del debito pubblico di Paesi in difficoltà sul mercato secondario (quindi non soltanto all'atto delle aste di emissione dei titoli, ma anche acquistando titoli già emessi, e rivenduti sul secondario dalle istituzioni finanziarie che li detengono nei loro portafogli). Tale meccanismo è pensato per dare sollievo alle banche che detengono titoli tossici del debito pubblico greco, irlandese o portoghese, ma di fatto opera una traslazione del rischio di default dalla banca al fondo Efsf. In tal caso, sarà inevitabile un abbassamento del rating del fondo. Poiché l'Efsf funziona emettendo bond (ovvero attività finanziarie) sui mercati, un abbassamento del suo rating (che oggi è AAA) di fatto lo paralizzerà, rendendolo inoperante. Quindi non potrà più sostenere i Paesi in difficoltà, e l'intero meccanismo andrà in corto circuito. Il punto di debolezza di fondo è che gli Stati non sottoposti ad aiuti si accollano l'onere di garantire i finanziamenti ai Paesi in crisi. Già oggi, però, il rapporto fra debito pubblico e PIL, nell'area Euro-17, è pari all'85,1%, con una dinamica di forte crescita (era del 69,2% nel 2000, dato Eurostat). Il rapporto deficit/PIL è già pari al 6%. Sostanzialmente, già oggi l'area-euro è ampiamente fuori dai parametri del patto di stabilità e crescita, che prevede un tetto del 3% al deficit e del 60% al debito. Con la prosecuzione dell'attuale fase di debolezza della crescita (per non parlare di un vero e proprio rischio di recessione double dip che si profila) tali parametri peggioreranno ulteriormente, nel breve e nel medio periodo, per cui anche il valore della garanzia che un'area sempre più indebitata potrà offrire si ridurrà rapidamente, rendendo sempre meno appetibili i bond emessi dall'Efsf (anche perché, man mano che l'operatività di detto fondo si espanderà, come prevede il raffazzonato "piano Marshall", l'entità delle emissioni non potrà che aumentare, richiedendo sempre maggiori garanzie, e di qualità sempre migliore).
Gli artefici di questo ennesimo trucco hanno poco da festeggiare per l'euforia odierna delle borse. La storia dei mercati borsistici insegna che tali fasi di euforia sono del tutto momentanee, e dettate più da effetti emotivi o speculativi, che da ragionamenti razionali. Il piano ha tutto l'aspetto del tentativo un pò patetico, un pò da ultima spiaggia, di contenere la deriva del dissenso sociale che infiamma la Grecia in questi giorni, allungando, tramite il nuovo prestito di denaro e il prolungamento fino ad un minimo di 15 anni della scadenza di rimborso dello stesso, l'agonia dell'economia ellenica e l'inevitabile impoverimento del popolo greco. Che il proletariato sappia che tutto questo è solo fumo negli occhi, frutto di disperazione, non di lungimiranza politica. Nessuno salverà la Grecia dalla sua tragica nemesi, se non il proletariato greco stesso. Nessun "piano Marshall" salverà il progetto neo-monetarista alla base dell'euro, giunto ai suoi ultimi rantoli.

giovedì 21 luglio 2011

PCL-PDAC: FRATELLI COLTELLI



PCL-PDAC: FRATELLI COLTELLI
di Stefano Santarelli

Nel pubblicare il documento del Partito comunista dei lavoratori “A proposito del Pdac fenomenologia di una setta” eravamo perfettamente consapevoli di entrare nella durissima polemica che caratterizza fin dalla loro nascita i rapporti fra queste due formazioni, rapporti che definire pessimi è un vero e proprio eufemismo.
Una situazione questa ben strana visto che sia il Pcl che il Pdac hanno un programma ed una origine politica comune. Per comprendere bene i rapporti che intercorrono tra questi due partiti siamo costretti a fare un breve cenno di storia.
Queste due formazioni costituivano fino al 2006 la tendenza di opposizione più coerente e più conseguente dentro Rifondazione comunista. Questa tendenza denominata “Progetto comunista” è stata per molti anni la vera alternativa dentro il Prc alla direzione di Bertinotti raggiungendo ampi consensi tra gli iscritti a Rifondazione.
Consensi e riconoscimenti che permisero, durante la formazione delle liste elettorali dell’Ulivo nel 2006, la candidatura ad un collegio senatoriale sicuro da parte della Segreteria nazionale di Rifondazione per Marco Ferrando nella sua qualità di massimo esponente di Progetto comunista.
Era questa la prima volta nella storia di Rifondazione che la formazione delle liste elettorali veniva aperta in modo formale anche alle minoranze congressuali.
Ma questa scelta della S.N. viene inesplicabilmente contestata dai membri del Comitato Politico Nazionale facenti riferimento proprio a Progetto comunista, ben 10 su 17, guidati da Francesco Ricci i quali volevano un candidato diverso da Ferrando per avere un ricambio politico.
Una tesi francamente risibile visto che Ferrando non aveva mai ricoperto incarichi pubblici dentro Rifondazione comunista. Infatti se era pacifico dare a Progetto comunista un collegio sicuro in lista, altrettanto pacifico era darlo al dirigente storico più rappresentativo di questa corrente.
E questo dirigente storico era Ferrando non certamente Ricci. E la Segreteria Nazionale decide proprio in questo senso.
Ma Ferrando è un personaggio scomodo e quando rilascia per il Corriere della Sera nel febbraio del 2006 una intervista sui fatti di Nassirya in cui esprimeva il diritto del popolo irakeno alla resistenza armata contro gli eserciti imperialisti, compreso ovviamente anche quello italiano, si scatena una durissima reazione da parte di tutto il quadro politico del nostro paese. Infatti sia da sinistra che da destra si chiede alla direzione di Rifondazione di togliere Ferrando dalle liste elettorali.
Una richiesta che viene esaudita immediatamente da Bertinotti.
E’ un atto questo antidemocratico per la vita interna di Rifondazione che vede la contrarietà delle altre correnti di minoranza: da Grassi per “Essere comunisti” a Malabarba e Cannavò per “Sinistra critica” e da esponenti della stessa maggioranza come Raul Mantovani.
Paradossalmente sono proprio favorevoli quei rappresentanti di Progetto comunista guidati da Ricci che daranno poi vita al Pdac e che non esprimono nessuna solidarietà a Ferrando.
La Segreteria toglie Ferrando da questo collegio senatoriale per mettere al suo posto la pacifista Lidia Menapace la quale eletta, da buona pacifista voterà in parlamento tutti i crediti e tutte le missioni militari tanto da meritarsi il soprannome di “Menaguerra”.
Ora la domanda da porre ai compagni del Pdac è se Ferrando come senatore avrebbe votato tutte queste operazioni militari, personalmente riteniamo che non avrebbe votato tali provvedimenti e fosse solo per questo sarebbe stato un parlamentare migliore della Menapace.
Ed è questo in fondo il peccato originale del Partito di alternativa comunista.
Nella metà del 2006 nascono quindi da Rifondazione comunista questi due partiti all’apparenza gemelli: il Pdac ed il Pcl. Entrambi si richiamano alla Quarta internazionale pur aderendo a due differenti correnti trotskiste. Sono due formazioni con un programma politico ed un patrimonio teorico simile che fanno apparire sin dall’inizio letteralmente incomprensibile tale divisione non solo per gli addetti ai lavori, ma per i suoi stessi militanti.
La loro separazione però non deriva, come abbiamo visto, dalla storia certamente travagliata del trotskismo, ma risale a questo scontro dentro il Comitato politico di Rifondazione comunista.
Questa profonda rivalità fa sì che impedisce al Pcl e al Pdac di potere arrivare, se non ad una unificazione di difficile attuazione, almeno ad una alleanza politica o ad un patto federativo che dir si voglia. Cosa questa che sarebbe stata la mossa più logica.
Oltretutto entrambe queste formazioni sono caratterizzate da un profondo elettoralismo, frutto di più di un quindicennio di entrismo nel Prc, che si scontra però con le attuali leggi elettorali che di fatto ostacolano la formazione di liste elettorali autonome.
Ovviamente un po’ di buon senso vorrebbe, lì dove è possibile, vedere l’unificazione di tali sforzi. Invece questi due gruppi, specialmente il Pdac, vedono nell’altro il vero nemico.
Certamente è veramente ridicolo che due partiti, se così li vogliamo chiamare visto lo scarso numeri di aderenti, con programmi simili ed in una situazione politica gravissima per i lavoratori ed i ceti più poveri del nostro paese si diano una battaglia così feroce paragonabile a quella dei poveri capponi di Renzo destinati alle pentole di Azzeccagarbugli.
Ora tale scontro non può vedere la nostra neutralità od indifferenza proprio perché riguarda due forze che si rivendicano alla migliore tradizione della sinistra rivoluzionaria.
E veniamo ai documenti che abbiamo pubblicato nel nostro sito.
Il Pcl pubblica una interessante analisi sul Pdac utilizzando la teoria della psicopatologia politica ideata da Roberto Massari.
Certamente “la scissione del 2006 non dipese da divergenze programmatiche” visto che entrambe queste formazioni si riconoscono nel programma della Quarta internazionale ed in fondo la scissione dipese dalla volontà del responsabile organizzativo della AMR Progetto Comunista (nome della nostra frazione dentro il PRC) e del gruppo dei suoi fiduciari, di conservare ad ogni costo la propria funzione di comando in fatto di organizzazione contro i principi della democrazia interna e della collegialità delle decisioni.”
E’ questa una chiave di lettura che in fondo condividiamo della spaccatura provocata dentro la corrente di Progetto comunista e di cui le responsabilità maggiori sono proprio da addebitare al Pdac.
Ma non condividiamo la definizione del Pdac come setta.
Il Pdac non è una setta al contrario di Socialismo rivoluzionario o di Lotta comunista, la trasformazione di un soggetto politico in una setta non avviene in poco tempo. Infatti Sr o Lc si sono trasformate in una setta dopo un processo durato circa una decina d’anni.
Oltretutto i dirigenti ed i militanti del Pdac provengano da Rifondazione comunista di cui si può dir tutto tranne che è una setta.
Certamente non si può negare che il Pdac presenta dei sintomi estremamente preoccupanti con una organizzazione ultracentralista non giustificata dalla realtà della lotta di classe in Italia ed in cui l’avversario per antonomasia è divenuto il Pcl.
Il Pdac sta attraversando una crisi profonda che non viene neanche smentita dall’articolo di Ricci “Volgare attacco del Pcl al Pdac”, infatti non è un segreto che alcune sezioni e dirigenti di questa organizzazione sono passati con armi e bagagli nel Pcl e francamente queste pesanti perdite non possono essere compensate dall’entrata in Alternativa comunista del giovane compagno Siciliani.
Tale situazione non viene affrontata dalla direzione del Pdac e quando non si affronta una situazione nei fatti la si nega.
Non vede la sua profonda crisi organizzativa e politica che l’attanaglia, ma invece accusa di riformismo e menscevismo il Pcl. E’ proprio vero che chi guarda la pagliuzza nell’occhio del fratello non vede la trave nel proprio occhio. (Mt 7.3)
L’accusa di riformismo e menscevismo che lancia il Pdac al Pcl è francamente ingiusta ed ingiustificata. Appoggiare criticamente Pisapia a Milano o votare Si ai referendum sono per esempio posizioni tattiche oltretutto anche corrette.
Ma le posizioni tattiche non sono sufficienti per definire una forza politica come riformista o peggio come menscevica. E francamente abbiamo trovato disgustoso mettere la fotografia di Ferrando insieme a quella di Bersani, di Di Pietro e della Bonino come ha fatto il Pdac nel suo giornale.
Ma cari compagni del Pdac credete veramente che Ferrando sia la stessa cosa di Bersani?
Certamente alcune critiche espresse da Ricci nel suo “Lo strano caso di un partito virtuale” sono fondate.
Vi è stato sicuramente un atteggiamento mediatico nel Pcl molto pronunciato che ha sicuramente contribuito ad una aspettativa di risultati che non hanno avuto purtroppo nessuna corrispondenza con la realtà. Purtroppo la costruzione di un partito rivoluzionario non è così veloce e l’attuale clima politico non è certamente tra i migliori e questo la direzione del Pcl aveva il dovere di dirlo con chiarezza, non farlo ha contribuito a provocare una profonda delusione fra i suoi iscritti e militanti.
Oltretutto vi è anche il problema della formazione dei quadri quasi tutti cresciuti in una formazione, questa sì veramente riformista come quella di Rifondazione comunista.
A questo punto da osservatori esterni al Pcl e al Pdac i quali non hanno nessuna intenzione di fare i “maestrini” proprio perché non hanno la presunzione di insegnare nulla a questi compagni, possiamo solo augurare e ricordare che in questa grave fase di debolezza ed impoverimento dei ceti medio-bassi del nostro paese che quindi provoca un aumento della proletarizzazione, una maggiore unità fra le forze anticapitaliste diventa non solo necessaria, ma doverosa.
A maggior ragione quando questa frattura, che non esprime nessuna seria argomentazione teorica o politica, riguarda due organizzazioni che si richiamano ad una delle migliori tradizioni rivoluzionarie come quella trotskista.

20/07/2011

mercoledì 20 luglio 2011

Il vero volto della Comunità Europea: da Hitler a Hitler di S. Zecchinelli

1. Parlare del processo di integrazione europea è di certo un compito non semplice, che richiede un attento studio dei processi politici e sociali che hanno portato alla nascita dell’Unione Europea. Quindi è necessario dire, almeno a livello introduttivo, che furono gli Stati Uniti a finanziare, versando circa 50 milioni di dollari a tutti i movimenti europeisti, questo processo di integrazione.
Una Europa debole e asservita all’imperialismo più forte, era un modo per frenare dall’altra parte, una possibile espansione dell’Assolutismo Burocratico sovietico.
Cerchiamo di fissare le coordinate che porteranno alla nascita dell’ipotetico ‘’Stato unico europeo’’ e (solo molto poi!) potenziale imperialismo europeo. L’approvazione del ‘’Piano Marshall’’ voleva dare un doppio colpo micidiale ai partiti comunisti: 1) mantenere in vita le aziende che rischiavano di fallire, e quindi le multinazionali americane potevano continuare a fare affari in Europa; 2) attraverso lo ‘’Stato sociale’’ creare un tenore di vita relativamente buono, congelando le rivendicazioni sociali.
Operazione complessa, cito un passaggio chiave: per fare questo gli Usa si affidarono a Franck Wisner Jr, ex agente dell’OSS, incaricato di portare avanti una ‘’guerra psicologica anticomunista’’.
Nel 1956 l’Europa era secondo gli strateghi Usa, un baluardo nella lotta al comunismo; correggiamo: nel ’56, l’Europa era un baluardo (imbevuto di ideologia anticomunista) nella lotta all’Urss, regime burocratico ma, di certo, lontano dal socialismo.
Già all’epoca le parole, i termini (si noti: contenimento, pluralismo, dittatura), avevano un significato importantissimo.

2. Vediamo i principali movimenti europeisti, che, nella lotta frontale ai comunisti, si vennero a creare nell’immediato dopoguerra.
Churchill, il vecchio mafioso filo-fascista, il 19 settembre 1946 a Zurigo cerca di mettere in piedi un asse Inghilterra, Francia, Germania. Nel maggio 1948 ‘’il loro’’ crea il Movimento Europeo, di cui diviene presidente onorario insieme ad Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Paul Henri Spaak, e il ‘’socialista’’ (chiedo perdono!) massone Leon Blum.
Un altro uomo della massoneria regolare, Altiero Spinelli, fondò, nel ’43, il Movimento dei Federalisti Europei.
La CIA sostiene questi movimenti in modo molto sporco: dal ’49 al ’51 versa una somma pari a 5 milioni di euro, fondi speciali concessi dal Dipartimento di Stato Usa. Ma non finisce qui: fino al 1953 la cifra sale a 15 milioni di euro. Ormai era chiaro che lo Stato unico europeo doveva essere un cuscinetto, a parole, contro l’espansionismo sovietico (contenere cosa?), ma nei fatti è stato la ‘’porta area’’ dell’imperialismo yankee nell’esercitare la sua egemonia nel mondo unipolare.
Nel 1956 Jean Monnet si vede versare, dalla Fondazione Ford, una somma pari a 150 milioni di euro, somma che poi verrà girata ad Henri Rieben, professore di Losanna, per fondare un Centro di ricerche europeo.
Queste sono alcune tappe importanti, esposte in estrema sintesi. Adesso elencherò i passaggi principali, quelli più conosciuti, che hanno portato alla svolta, recentissima di Lisbona.

3. Nel 1957 con il Trattato di Roma nasce la Comunità Economia Europea (CEE), che nel 1967 diventa Comunità Europea.
Nel 1979 si cercò di dargli un contenuto politico, da marxista direi assestamento sovrastrutturale, e si elesse il primo Parlamento Europeo. Adesso abbiamo un punto di svolta, e prima di trattare il problema del Trattato di Lisbona dovrò ritornare su quello che è successo in questi anni: nel 1993 con il Trattato di Maastricht inizia ad essere smantellato lo stato sociale; si stabilisce l’approvazione, nel 2002, della moneta unica europea. L’Europa con le Commissioni e il Consiglio Europeo ha già il suo governo sovranazionale, mentre la Corte di Giustizia funge da magistratura internazionale. Muta tutta la sovrastruttura politica degli stati, in una chiara direzione socio-economica: si gettano le basi per la nascita di un imperialismo contrapposto (o in modo alterno alleato) a quello yankee. Ritorniamo ora al 1993, per poi fare qualche passetto indietro.

4. Nel 1993 nasce ufficialmente Transparency International a Berlino, fondata da Peter Eigen. Come già detto (ad esempio nell’articolo-saggio sui neoconservatori yankee) le fasi che porteranno alla sua nascita sono, principalmente, tre: 1) fase di incubazione 1984-1989; 2) fase organizzativa 1989-1993; e poi dal 1993 diventa operativa.
A monte di ciò ci sono gli incontri fra Filippo Duca di Edimburgo con i massimi esponenti delle tre religioni monoteiste (cattolicesimo, ebraismo, islamismo), nel tentativo di ‘’moralizzare l’economia’’.
Eigen in un suo saggio del 1996 ‘’Combattere la corruzione’’ racconta che deve essere la Banca Mondiale del Commercio a combattere la corruzione come nemica del buon governo. Tutto questo, però, deve avere un ampio sostegno sociale, quindi è bene creare grossi movimenti popolari che promuovano tutto ciò. Si gettano le basi per le ‘’rivoluzioni colorate’’ che gli Usa e l’Unione Europea utilizzeranno contro i governi che non privatizzano le risorse.
La lotta per la ‘’trasparenza’’ passa, secondo Eigen, attraverso un ‘’legale’’ colpo di stato: i capi degli ‘’stati canaglia’’ vengono screditati, e i ‘’movimenti colorati’’ in nome di democrazia e libertà, chiedono la svendita dell’industria nazionale. Insomma Eigen sta all’imperialismo europeo come Samuel Huntington sta all’imperialismo yankee: interessante notare come alla base del pensiero di entrambi, ci sia il pensiero del giurista nazista Carl Schmitt.
La moralizzazione dell’economia trova una facile lettura anche davanti l’enciclica di Karol Woytila in ricordo dei cento anni dalla Rerum Novarum di Leone XIII; nel 1991 Woytila scrive questa enciclica, dove, in nome di una economia sociale di mercato, attacca frontalmente il socialismo. 1
Dal testo dell’enciclica (solo per fare un esempio) si legge:

‘’ Inoltre, la società e lo Stato devono assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e della sua famiglia, inclusa una certa capacità di risparmio. Ciò richiede sforzi per dare ai lavoratori cognizioni e attitudini sempre migliori e tali da rendere il loro lavoro più qualificato e produttivo; ma richiede anche un'assidua sorveglianza ed adeguate misure legislative per stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento, soprattutto a danno dei lavoratori più deboli, immigrati o marginali. Decisivo in questo settore è il ruolo dei sindacati, che contrattano i minimi salariali e le condizioni di lavoro’’.

E ancora:

‘’Infine, bisogna garantire il rispetto di orari «umani» di lavoro e di riposo, oltre che il diritto di esprimere la propria personalità sul luogo di lavoro, senza essere violati in alcun modo nella propria coscienza o nella propria dignità. Anche qui è da richiamare il ruolo dei sindacati non solo come strumenti di contrattazione, ma anche come «luoghi» di espressione della personalità dei lavoratori: essi servono allo sviluppo di un'autentica cultura del lavoro ed aiutano i lavoratori a partecipare in modo pienamente umano alla vita dell'azienda’’.

Penso che l’ultimo passaggio, prima di tentare di mettere su un blocco imperialistico continentale, passi attraverso questa ripresa strisciante del rotarismo delle origini (abbiamo visto l’influenza decisiva delle logge franco-tedesche), forte dell’ideologia fabiana, ''socialisteggiante'' e violentemente anti-marxista.
Adesso dirò qualcosa su quello che per me è l'atto consacrante: il Trattato di Lisbona.

5. Il Trattato di Lisbona è un tentativo di assestamento sovrastrutturale forte, dato che si tratta della prima Costituzione Europea. E’ un testo lungo la bellezza di 2800 pagine, che nessun giurista o politologo si è preso la briga di spiegare. Cerco di essere più preciso.
Il Trattato di Lisbona non è propriamente una Costituzione, mancando la ‘’ratifica’’ popolare, ma ha tutti i poteri di una Costituzione. Il testo è estremamente complesso, pieno di termini tecnici e inaccessibili ai non addetti ai lavori. In Italia è stato ratificato, all’insaputa di tutti, l’8 agosto 2008, mentre in Europa abbiamo avuto una eccezione per l’Irlanda, dove ci fu un referendum popolare che, inizialmente bocciò il Trattato. Questo ‘’trattato’’ porta alla massima realizzazione il disegno di Eigen: ci sarà, quindi, un nuovo governo sovranazionale a cui dovranno attenersi gli stati membri. La Commissione, che poi ha una ramificazione burocratica oggettivamente complessa, e il Consiglio saranno l’esecutivo, il Parlamento non avrà nessun potere effettivo, e la Corte di giustizia si premurerà, tramite sentenze vincolanti, l’esecuzione delle direttive.
La nuova Unione avrà frontiere esterne, e deciderà a maggioranza chi potrà entrare nei nostri territori. Insomma si pongono le basi per la precarizzazione del processo produttivo.
Ancora due parole sulla nuova macchina burocratica: le leggi verranno emanate da Commissioni e Consiglio, mentre il Parlamento, di fatto, non ha nessun compito. Il Trattato stabilisce che se i parlamentari vorranno contestare una legge, dovranno ottenere una maggioranza qualificata nel Consiglio dei Ministri e una maggioranza assoluta dei deputati. Interessante come dietro lo stato borghese-liberale si allunga sempre di più l’ombra della svastica.
Un’altra cosa: il Principio di Sussidiarietà. Nel caso ci sia confusione fra gli organi della UE su chi deve eseguire un compito, in questo caso si fa riferimento all’organo che garantisce maggiore efficienza, e quindi il Consiglio dei Ministri.

6. In campo internazionale si stabilisce la cittadinanza europea, e si inizia a creare un esercito europeo, attraverso il ricorso alle società per azioni. Secondo me, è chiaro che siamo davanti ad un blocco imperialista continentale.
In Francia questa ‘’costituzione’’ fu bocciata nel 2005 perché ritenuta ‘’socialmente frigida’’. Per dirla tutta uno dei suoi principi fu ‘’libera concorrenza senza distorsioni’’, interpretiamo la neo-lingua: pluralismo nel mercato, carta bianca alle multinazionali, schiacciamo i diritti dei lavoratori. Il Trattato, ad esempio, aumenta la produzione agricola, sovvenzionata con un miliardo di euro al giorno, ma non tutela i diritti dei braccianti. La sanità pubblica viene totalmente distrutta, e i diritti dei pazienti vengono inseriti fra le normative per il funzionamento del Mercato Interno. Cosa c’entra la sanità con il mercato? Mercificazione dei corpi? Ormai la svastica si vede chiaramente. Il Trattato non prevede nessun modo per finanziare il Capitolo Sociale, e la Banca Centrale Europea può imporre a tutti la stabilità dei prezzi contro la piena occupazione.
Per finire: il sistema giudiziario. Il Trattato adotta la Carta dei diritti Fondamentali che verrà imposta a tutti gli stati membri dell’unione. L’organo che interpreta questa carta è la Corte di Giustizia che ha sede a Lussemburgo. Ora – e qui è chiara la bestialità della macchina imperialistica – chi elegge questi giudici? Semplice, li eleggono i governi, mettendo in chiaro la brutale coercizione del nuovo nazismo comunitario.

7. Insomma, tirando le somme, per ciò che riguarda il potere politico abbiamo un potenziamento dei vecchi apparati burocratici, che ben si possono spiegare con l’analisi leniniana dello Stato:

‘’ L'onnipotenza della "ricchezza" è, in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo. La repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito (grazie ai Palcinski, ai Cernov, agli Tsereteli e consorti) di questo involucro - che è il migliore - fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell'ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo’’. (Lenin ‘’Stato e rivoluzione’’)

Mentre, da un punto di vista socio-economico, il passaggio dal fordismo al post-fordismo (fine della piena occupazione), comporta una nuova egemonia culturale, ben compresa da Debord:

‘’ Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità te­orica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione; frammento strappato al suo contesto, al suo movi­mento, e infine alla sua epoca come riferimento globale e all’opzione precisa che era all’interno di quel riferimento, esattamente riconosciuta o erronea. Il détournement è il lin­guaggio fluido dell’anti-ideologia. Esso si manifesta nella comunicazione che sa che non può pretendere di detenere al­cuna garanzia in sé e definitivamente. Esso è, nel suo punto più alto, il linguaggio che non può essere confermato da nes­sun riferimento antico e sovra-critico. È al contrario la pro­pria coerenza, in sé stesso e con i fatti praticabili, che può confermare l’antico nucleo di verità che esso richiama. Il détournement non ha fondato la sua causa su niente di esterno alla propria verità come critica presente’’. (Guy Debord ‘’La società dello spettacolo’’)

Difficile dare una chiara idea del nuovo nazismo morbido, ma, con i dovuti limiti e collegamenti, ho provato a dare una idea del compito che spetta agli anticapitalisti.

Note:

1) Si veda l’articolo ‘’Karol Woytila: da Hitler a Bush’’ pubblicato nel blog marxismo libertario e nel blog Bentornata Bandiera Rossa

Siti consultati:

1)      http://sitoaurora.splinder.com/post/21164506/Mani+Pulite+International
2)     http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=139


martedì 19 luglio 2011

IL PDAC RISPONDE AL PCL

Dopo aver pubblicato ieri l’articolo del Partito Comunista dei Lavoratori “A proposito del Pdac: Fenomenologia di una setta” pubblichiamo oggi la risposta del Partito di Alternativa Comunista.
Nei prossimi giorni pubblicheremo la risposta della nostra Redazione in merito a questa vicenda sicuramente grottesca, ma che non può essere passata sotto silenzio da parte di compagni che come noi fanno parte di quella sinistra anticapitalistica di cui il Pcl e il Pdac costituiscono una componente importante.

La Redazione

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VOLGARE ATTACCO DEL PCL AL PDAC
A seguire la lettera di un giovane dirigente che lascia il Pcl per aderire al Pdac


I massimi vertici del Pcl fanno girare un lunghissimo testo pieno di sgrammaticature e di brani di irresistibile (ancorché involontaria) tragica comicità contro il Pdac.
Scopo contraddittorio del testo è quello, dopo aver ripetuto con insistenza che il Pdac sarebbe isolato, di fare un pubblico appello a tutte le forze politiche e di movimento "a isolare il Pdac" (forse perché godiamo di relazioni e radicamento ben superiore al Pcl?).
Il testo prosegue con una lunga sequenza di calunnie, insulti a singoli compagni, rievocazioni di vecchie vicende legate al 2006, quando la maggioranza dei quadri giovani e il grosso della parte più attiva e militante dell'allora Progetto Comunista ruppe con l'ala ferrandiana per dare vita al Pdac.
La cosa più significativa del testo è che, nonostante la lunghezza spropositata, non contiene una sola critica politica al Pdac. Solo insulti, bugie, vere e proprie calunnie.
I capi del Pcl non sono nuovi a questi metodi contro di noi. E' dal 2006 che si sono inventati una presunta cassa di Progetto Comunista con cui saremmo scappati. Per l'uso di questi metodi calunniosi hanno già subito da tempo la condanna della gran parte delle organizzazioni internazionali che si richiamano al trotskismo. La calunnia è un metodo che nella storia è stato usato più volte contro i comunisti: prima dai menscevichi, poi dagli stalinisti. Certo ognuno si sceglie i suoi maestri. Stavolta però si è passato il segno. Infatti nel farneticante testo la abituale calunnia è accompagnata da richiami alla polizia: un fatto davvero inquietante da parte di un gruppo che si proclama "leninista".
Per parte nostra, non ci abbassiamo a rispondere su questo livello. Non replichiamo alle calunnie: sia perché il nostro metodo è quello della polemica politica, anche aspra, ma sempre priva di insulti e falsità; sia perché servirebbe un libro per rispondere punto per punto alla sistematica falsificazione che viene operata, a cumuli di bugie o anche di semplici sciocchezze. Non facciamo il gioco di chi vorrebbe parlare di fatti inventati per tacere di quelli reali.
Tantomeno replichiamo alle loro minacce legali. Se avessimo voluto rispondere ai capi del Pcl con i loro stessi mezzi, in questi anni avremmo più volte dovuto denunciarli alla magistratura borghese per calunnia e diffamazione. Ma noi, a differenza dei capi del Pcl, non frequentiamo le questure.
Il nostro giudizio politico sul Pcl lo abbiamo espresso in dettaglio in un articolo pubblicato qualche tempo fa, che ripubblichiamo qui. Essendo stato scritto prima delle amministrative, non contiene nessun riferimento al sostegno che il Pcl ha dato al secondo turno a Pisapia, principale candidato dei banchieri e degli industriali a Milano. Vicenda che conferma quanto avevamo scritto e che è il degno coronamento della inevitabile deriva di una politica semi-riformista.
Sul Pcl non abbiamo altro da aggiungere. Peraltro non siamo stati noi a coniare la definizione di "clamoroso bluff" per il gruppo di Ferrando. Una definizione ormai diffusa. Un giudizio aspro ma in gran parte condiviso persino dai pochi militanti attivi rimasti lì dentro.
Prima dell'articolo pubblichiamo però un testo che ci sembra significativo. Due settimane fa, Andrè Siciliani, un giovane dirigente del Pcl di Roma è uscito dal Pcl e ha chiesto l'adesione al Pdac. Ieri, avendo letto le calunnie dei capi del Pcl, ci ha mandato il testo che riportiamo qui sotto. Fornendoci una visione da parte di chi è stato all'interno del Pcl, vale più di tante analisi.

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PERCHE' ESCO DAL PCL
E ADERISCO AI GIOVANI DEL PDAC

lettera di Andrè Siciliani (Roma)

Nel novembre de 2009, aderIì con entusiasmo e impegno al Partito Comunista dei lavoratori. Il motivo della mia adesione è che vedevo nel PCL l unico partito in grado di non fare compromessi né dare sostegni critici a forze borghesi e socialtraditrici. Insomma vedevo nel PCL delle posizioni dure e pure di un partito marxista, di un partito in grado di partecipare alla lotta e al confronto ma che allo stesso tempo manteneva le sue posizioni, vedevo nel PCL un partito dalle posizioni estremiste, "ultrasinistre", radicale e combattivo, il tutto sempre in un'ottica trotskista e non bordighista!! Oggi a quasi due anni dalla mia adesione al PCL, sono molto deluso del PCL per una serie di motivi soprattutto politici e organizzativi che mi hanno portato alla scelta, difficile devo dire, di abbandonare il PCL, all' inizio di questo mese.

I motivi politici sono che io mi dissocio completamente dalla scelta di dare in tornate elettorali sostegni critici ai partiti socialtraditori (FED e SEL) quando si presentano indipendenti dal centrosinistra, in quanto per me si può avere un confronto con i sinceri compagni di queste organizzazioni ma partecipando a dibattiti e discussioni, non dare un sostegno critico elettorale a organizzazioni che hanno votato le missioni militari, finanziarie massacro lacrime e sangue e leggi xenofobe e schifezze varie contro i lavoratori ecc., come è accaduto nel 2010 in Lombardia e nelle Marche, e sostegni critici al centrosinistra radical chic di Pisapia (candidato di Profumo, De Benedetti e Unicredit) e De Magistris (candidato giustizialista anti-camorra di sicuro ma che non rappresenta affatto gli interessi dei lavoratori), il tutto sotto lo slogan frontista, seppur in salsa di sostegno critico, di "battere le destre"!! Il compito dei comunisti è quello di fare chiarezza, cioè devono disilludere i lavoratori dall'illusione che i vari candidati del centrosinistra e socialtraditori creano, invece con queste scelte si tende a confermare l'illusione e si alimenta confusione tra i lavoratori. Un comunista non può dire ai lavoratori: "votare centrosinistra o i socialtraditori così quelli ti massacrano e allora capirete da che parte stare". La conseguenza diretta di questa tattica è che il lavoratore manderà a cagare sia il centrosinistra sia chi gliel'ha fatto votare. E tornerà a votare il Berlusconi di turno!!
Si giustificano queste scelte dicendo che è una tattica "leninista", cioè si cita sempre Lenin e che nel 1905 e in altre occasioni avrebbe dato sostegno critico ai menscevichi e alla borghesia liberale dei cadetti, insomma a ogni scelta che si fa si deve sempre citare Lenin. Ebbene non si può ragionare pensando che l'Italia attuale è la Russia del 1905, perché le motivazioni di quelle scelte era per il fatto che in Russia c'era una Monarchia assoluta, qui in Italia invece siamo in una democrazia borghese e siamo nel 2011 e poi se vogliamo proprio fare paragoni i menscevichi, per quanto socialtraditori, erano molto più a sinistra degli attuali FED e SEL e persino i cadetti erano più a sinistra dell'attuale PD!! Insomma Lenin non ha dovuto, per sua fortuna, conoscere chi sono quelli di rifondazione e SEL, che sono ben peggiori dei menscevichi!!
Non condivido poi che si debbano considerare le elezioni come il principale strumento di radicamento del partito rivoluzionario, le elezioni sono solamente uno strumento secondario di propaganda e niente più, visto che un partito si costruisce partecipando alle lotte di classe per propagandare le proprie idee rivoluzionarie e guidare la classe lavoratrice alla vittoria, se c' è possibilità di presentarsi alle elezioni, ci si presenta autonomamente da tutte le parti, se non c'è possibilità, non ci si presenta e si fa una campagna di astensionismo contro i candidati di centrodestra,centrosinistra e socialtraditori, non insistendo facendo pressione sui compagni affinché si debbano presentare assolutamente alle elezioni.
Inoltre non condivido il metodo federalista adottato dal PCL che in elezioni provinciali, comunali e regionali lascia la scelta alle singole sezioni venendo quindi a mancare un partito centralizzato!! Che sia chiaro, io non dico che in questo tipo di elezioni, si debba discutere solo di politica nazionale, anzi si deve discutere e fare campagna sui problemi locali ma comunque ci deve essere una posizione centralizzata e chiara del partito che indica la direzione alle singole sezioni, ovvero non dare sostegno critico ai socialtraditori da tutte le parti, non lasciare la scelta alle singole sezioni!!

Le motivazioni organizzative sono legate invece al fatto che all'interno del PCL c'è una minoranza dichiaratamente riformista, ultradestra, socialdemocratica e unionista (Edo Rossi e i suoi 8 seguaci di Mantova) e che ci sono tesserati, inclusi alcuni coordinatori cittadini, che hanno posizioni che vanno dall'unionismo con gli altri "partiti comunisti", a chi difende la costituzione borghese e sostiene la magistratura, a chi celebra i 150 anni di unità, a chi è un acceso sostenitore di Castro e Chavez, a nostalgici del socialdemocratico Berlinguer fino alla presenza di anarchici e chi propone l'unità con gli anarchici, il tutto !!!
Per il primo caso, cioè legato alla minoranza di Edo Rossi, come è possibile che un partito che si dichiari marxista permetta la presenza di una minoranza socialdemocratica al suo interno, con buona pace della condizione che l'Internazionale di Lenin e Trotsky poneva come preliminare all'adesione, ovvero separarsi dai riformisti? Il tutto il nome di un democraticismo piccolo-borghese?
Per quanto riguarda la presenza dei tesserati che hanno quelle posizioni, chiarisco, è normale che ci sono compagni che hanno fatto esperienze politiche differenti e che hanno posizioni confuse, è una cosa normale, nessuno nasce comunista e né tantomeno con posizioni rivoluzionarie, l'anomalia è che il partito, invece di acculturare e portare su posizioni rivoluzionarie questi compagni (basta che siano giovani o al massimo quarantenni, visto che chi è sopra i cinquant' anni di età tende a non imparare) li lascia alle loro idee confuse che ho citato e quindi si crea il partito contenitore alla rifondazione, dove i 4 punti sono solo una facciata per dare all'esterno la sensazione di avere a che fare con un partito leninista trotskista ma così nei fatti non è. Insomma nel PCL c'è una sorta di quello che chiamo " rifondarolismo", cioè quel modo di fare, di comportamenti che invogliano chi è dentro ad andarsene.
Inoltre concludo che c'è un' accanimento e una calunnia contro il PDAC, dicendo che sono dei "banditi" "settari", "guidati dal padre-padrone", il tutto grazie a coordinatori regionali, provinciali e comunali che inculcano queste idee a militanti che non hanno idee sulla divisione fra PCL e PDAC, causando quindi l'odio di questi militanti e iscritti nei confronti del PDAC, quale nemico, mentre i veri nemici sono altri!!

Tutto ciò mi ha portato all'abbandono del PCL, visto che io mi sento tradito per questa serie di motivi dal PCL e all'adesione come tesserato ai giovani del Partito di Alternativa Comunista, in quanto io ho trovato nel PDAC ciò che mi aveva portato all' adesione al PCL, cioè delle posizioni dure e pure di un partito marxista, di un partito in grado di partecipare alla lotta e al confronto ma che allo stesso tempo mantenga le sue posizioni, cioè quelle posizioni che vedevo nel PCL, un partito dalle posizioni rivoluzionarie, radicali e combattive!!

Inoltre faccio un appello ai compagni del PCL che hanno coscienza critica e che non hanno un odio, inculcato dai vari Ferrando e coordinatori regionali, provinciali e delle singole sezioni, a seguirmi nel Partito di Alternativa Comunista per cercare di costruire insieme con entusiasmo e impegno il partito rivoluzionario che deve guidare la classe lavoratrice alla vittoria.

Andrè Siciliani
(Roma)

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(riportiamo qui di seguito un articolo pubblicato qualche mese fa sul nostro sito)


Polemica. La deriva a destra del Pcl di Ferrando
LO STRANO CASO
DI UN PARTITO VIRTUALE
A cinque anni dalla rottura di Progetto Comunista:
due concezioni opposte alla prova dei fatti


di Francesco Ricci

Fanno cinque anni da quando la sinistra di Rifondazione (Progetto Comunista) si ruppe in due parti, dando vita al percorso che avrebbe portato alla costituzione di due organizzazioni distinte fuori da Rifondazione: il Pdac e il Pcl di Ferrando.
A cinque anni di distanza, se si trattasse solo del Pcl, non metterebbe conto di dedicare al tema un articolo, perché quel partito in crisi non rappresenta ormai più niente nel disastrato panorama della sinistra. Ma parlare di quel progetto (fallito) è interessante perché significa affrontare una concezione della costruzione del partito che il Pcl ha incarnato. L'ampia visibilità mediatica di cui ha goduto Ferrando ha fatto sì che per un periodo quel modello di costruzione non bolscevica suscitasse un certo interesse a sinistra. Si proponeva come una scorciatoia per fare in quattro e quattr'otto un partito, saltando la costruzione di strutture, radicamento, quadri: tutto sostituito dalla visibilità mediatica del leader.
Parlare della concezione ferrandiana del partito (e di quella, opposta, che ha seguito il Pdac) significa allora riflettere su tutto quanto devono evitare di fare coloro che sono interessati a costruire quel partito comunista, rivoluzionario, con influenza di massa che ancora manca. Dunque il tema interessa non solo alcune centinaia di compagni e compagne che hanno partecipato a questa storia ma anche tutti coloro che oggi vogliono costruire il partito rivoluzionario, essendo consapevoli che è questo il problema dei problemi.

Tremila, anzi duemila, o forse quattrocento? Le bugie hanno le gambe corte
Uno dei punti che ha sempre caratterizzato il Pcl è stato quello di presentarsi come "la principale forza a sinistra del Prc". Per fare questo Ferrando ha fatto girare per anni numeri fantasiosi. Faceva parte di un metodo per accreditare il partito presso la stampa borghese.
All'assemblea fondativa il Pcl vantava 1300 iscritti. Numeri contestati dall'allora minoranza interna, raccolta intorno a posizioni mao-staliniste. Di quei presunti 1300 iscritti solo 500 parteciparono alle assemblee congressuali; gli altri (se esistenti) erano dunque solo simpatizzanti. L'anno dopo, nel 2007, Ferrando informava la stampa, in occasione del congresso fondativo, di aver raggiunto i "2000 militanti". E, incredibilmente, in un'intervista sul manifesto di tre settimane dopo (1) comunicava di aver già superato questo numero (che per un partito "rivoluzionario" è davvero grande: sono due o tre i partiti che si richiamano al trotskismo che arrivano a queste cifre): la nuova cifra annunciata era di 3000 (tremila) militanti.
Erano tempi in cui Ferrando, godendo ancora dell'immagine giornalistica conseguente alla sua mancata candidatura al Senato, poteva permettersi di raccontare balle di ogni tipo a una stampa in cerca di figure "scandalose".
A inizi 2011 il Pcl ha tenuto il suo II Congresso. I documenti del congresso (fatto curioso) non sono stati pubblicati né prima né dopo. Tuttavia, siccome è difficile custodire segreti nell'era di internet, questi testi sono comunque circolati.
Il Regolamento congressuale all'articolo 2.2. recita: "Ogni componente del Comitato Politico, o in alternativa, almeno il 2% dei militanti al 30 giugno 2010 (cioè 8 compagni/e), ha diritto..." L'articolo si riferisce alla soglia necessaria per presentare posizioni alternative e, involontariamente (il Regolamento doveva rimanere segreto), fornisce il numero degli iscritti: infatti se 8 iscritti costituiscono il 2% del partito, gli iscritti complessivi sono 400 (quattrocento). Cioè non 3000 e nemmeno 2000 e nemmeno 1300. Essendo escluso che nelle comunicazioni interne il Pcl giochi al ribasso, significa che i numeri detti in precedenza erano tutti falsi; ancora peggio se fossero stati veri: significherebbe che nel giro di quattro anni il Pcl avrebbe perso circa il 90% degli iscritti.
Ciò spiega il commento autocritico di un membro della Direzione del Pcl, Edo Rossi, presidente del congresso, che nel suo contributo scritto rileva: "Dopo 4 anni dalla nascita del Pcl, questa esperienza (...) non solo non vive e si sviluppa come auspicavamo, ma stenta anche a sopravvivere."
I 400 (quattrocento, ripetiamo i numeri in lettere per evitare fraintendimenti con gli zeri) non sono peraltro "militanti" nel senso bolscevico del termine: infatti nel Pcl per essere considerati tali non è necessaria nessuna delle tre condizioni di un partito di tipo leninista: né prestare attività quotidiana, né finanziare regolarmente il partito, né condividere un programma.
Ciò è confermato dal contributo di un altro dirigente del Pcl, Flavio Stasi ("Brevi riflessioni sul partito e sul congresso"), che lamenta "congressi territoriali con pochi militanti reali ed una folta schiera di militanti formali". Indirettamente segnalando così che persino quei 400 (dichiarati segretamente all'interno) sono frutto di un tesseramento "gonfiato".
Se abbiamo parlato fin qui di numeri non è perché pensiamo che siano in primo luogo i numeri a determinare la qualità di un partito. Questa è una convinzione di Ferrando (ereditata dal menscevismo), non nostra né di Lenin e Trotsky, i quali ultimi hanno spiegato infinite volte (e lo hanno dimostrato nella pratica) che valgono di più qualche centinaio di militanti reali che migliaia di iscritti passivi. Il problema del Pcl è che, a prescindere dai numeri diffusi falsamente per anni, non ha né migliaia di iscritti passivi né centinaia di iscritti reali. Visti i numeri degli "aventi diritto" al voto al recente congresso (numeri, ripetiamolo, che dovevano rimanere rigorosamente segreti e che vengono segnalati comunque come gonfiati) si può presumere che gli effettivi partecipanti siano stati grossomodo circa 200 o 300; dal che si ricava, infine, che gli attivisti che prestano una regolare militanza quotidiana e pagano quote sono tra 100 e 150 (3).
Questi numeri non sorprendono chi negli ultimi anni ha partecipato a manifestazioni e assemblee. La novità sta nel fatto che oggi le supposizioni sono confermate, ripetiamolo, dai dati interni del Pcl stesso che, involontariamente trapelati, fanno giustizia di anni di decine di comunicati di Ferrando in cui, sbeffeggiando le altre forze politiche a sinistra del Prc (definite sprezzantemente "poca cosa"), si vantavano numeri fantasiosi.

Quaranta programmi diversi in un solo partito
Per noi, a differenza che per Ferrando, la questione centrale non sono comunque i numeri ma il programma su cui si costruisce un partito e la sua pratica quotidiana. Ma qui le cose non vanno meglio che con i numeri.
Il fatto è che per il Pcl bisogna parlare di programmi al plurale. Infatti, a parte i brevi comunicati stampa di Ferrando, che costituiscono l'unica produzione teorica pubblica della direzione del partito, ognuna delle sezioni cittadine esprime posizioni programmatiche differenti.
Chiariamo: non parliamo della provenienza diversa dei militanti. Anche nel Pdac ci sono compagni che hanno fatto esperienze politiche differenti. E' una cosa normale. L'anomalia è quando si mettono insieme programmi diversi per comporre un arlecchino di posizioni in sostituzione di un partito fondato su assi programmatici fondamentali condivisi.
Per farsi un'idea di questo guazzabuglio di posizioni basta leggere i documenti congressuali (semi-segreti) del Pcl o farsi un giro sui siti web delle sezioni cittadine.
La prima cosa che balza all'occhio leggendo i documenti congressuali è che in un partito che pure si auto-definisce "leninista" è ammessa la presenza di una minoranza che si definisce esplicitamente riformista. Con buona pace della condizione che l'Internazionale di Lenin e Trotsky poneva come preliminare all'adesione: separarsi dai riformisti. E con buona pace anche delle critiche che il Pcl avanza a forze come l'Npa francese che esplicitamente teorizza l'unione di rivoluzionari e riformisti nel medesimo partito. Cosa che il Pcl non teorizza ma pratica.
Ma il problema non si ferma a chi si autodefinisce riformista. A puro titolo di esempio (ma chiunque può verificare da sé sui siti web) si trovano: sezioni che difendono "la democrazia partecipata", la Costituzione repubblicana e, con accenti dipietristi, manifestano financo sostegno alla magistratura (che i rivoluzionari, abitualmente, definiscono "borghese"). Citiamo: "Noi, Pcl di Parma, diamo il massimo appoggio alla magistratura, affinché possa lavorare nella totale serenità ed obiettività". Un'altra sezione è intitolata a Curiel, teorico della "democrazia progressiva" e maestro degli stalinisti Longo e Secchia. Un'altra sezione, su posizioni più vicine alla Lega, (anche se purtroppo intitolata alla povera Rosa Luxemburg) protesta perché "La forza pubblica di questo territorio può contare" su scarsi organici (tra carabinieri e polizia), il che porta (come ha fatto presente il Pcl in "un incontro col viceprefetto vicario") a una "emergenza sicurezza". Un'altra (Brianza) si caratterizza, invece, per una linea castro-chavista e pubblica testi di Fidel sostenendo (proprio nei giorni del mezzo milione di licenziamenti annunciati) che "Cuba aumenta salari e pensioni". Un'altra (Molise) concepisce la militanza "rivoluzionaria" sotto forma di continui esposti alla magistratura (con tanto di richiami al codice penale) e di appelli personali a Napolitano. Un'altra (Marche) si pronuncia a favore delle nazionalizzazioni delle aziende: purché fatte secondo quanto previsto "dagli articoli 42 e 43 della Costituzione". Un'altra (Massa Carrara) pare più vicina a posizioni neo-proudhoniane e propone "l'autogoverno solidale e cooperativo". Un'altra (Empoli) organizza iniziative su Berlinguer. Un dirigente (nella pagina "teorica" del sito nazionale) spiega perché la rivoluzione spagnola avrebbe insegnato che bisogna "unire anarchici e marxisti".
Abbiamo fatto questo lungo elenco (ma si potrebbe continuare per pagine e pagine) solo per chiarire che non si tratta di eccezioni (che pure un partito rivoluzionario sano dovrebbe in qualche modo affrontare) ma della norma. Se si fa eccezione per tre o quattro sezioni, tutte le altre esprimono un caleidoscopio di posizioni che va dal berlinguerismo al togliattismo, dall'anarchismo (nelle sue varianti) al dipietrismo. Non manca neppure una sezione che, con accenti mazziniani, ricorda il 150 anniversario dell'Unità d'Italia...
Siamo cioè di fronte all'esatto capovolgimento di un'organizzazione leninista, in cui, come è noto, a partire dalla condivisione di un programma fondamentale si ha la più ampia discussione interna e quindi l'unità nell'azione. Viceversa nel Pcl l'assenza di un programma comune a tutta l'organizzazione si combina con l'assenza di un dibattito interno che produce, infine, una federazione di gruppi con posizioni politiche differenti, talvolta opposte.

I frutti di una concezione mediatica del partito
Le bugie sui numeri e la costruzione di un partito che è al contempo piccolo ma arlecchinesco sono figlie di una concezione del partito che ha alcuni debiti col menscevismo (con la differenza che il menscevismo fu una forza reale). Dal menscevismo si riprendono varie cose: l'assenza di distinzioni effettive tra militanti e simpatizzanti, dunque il partito di iscritti; l'assenza di strutture dirigenti centralizzate (sostituite dal leader carismatico). A quel modello si aggiungono delle varianti moderne: la struttura "leggera", le elezioni trasformate da strumento secondario in uno dei fini principali e soprattutto l'ossessione per i mass-media. Chiunque abbia partecipato a una manifestazione negli ultimi anni avrà notato il leader del Pcl, Ferrando, che si aggira, scortato da alcuni sbandieratori, in cerca di giornalisti e telecamere. La visibilità sui mass-media, da possibile strumento accessorio nella costruzione di un partito reale, è diventato il fine di ogni iniziativa. Con dei capovolgimenti grotteschi: non si tenta (come sarebbe corretto) di far riprendere dalla stampa una posizione del partito: si definisce la posizione del partito in funzione della sua appetibilità per la stampa. Per lo stesso motivo (essere citati dalla stampa) si arriva a partecipare a manifestazioni anche di stampo reazionario. E non si parla di manifestazioni di massa ma di manifestazioni come quella del 5 aprile a Roma dove, come ha notato con ironia qualche giornalista, nel paio di centinaia di attivisti delle opposizioni borghesi, Ferrando si aggirava con alcuni attivisti mischiando le sue bandiere a quelle (ben più numerose) dei seguaci di Fini.
Ed è solo con l'ossessione per la presenza sui mass media e per una legittimazione nel mondo dei politici accreditati dalla stampa che si possono spiegare gli sconcertanti comunicati in cui il governo Berlusconi è da Ferrando attaccato non per le sue politiche anti-operaie ma perché "mina gli equilibri costituzionali", con l'acquisizione persino di un linguaggio indistinguibile da quello di qualsiasi partito dell'opposizione borghese.

Il fallimento della costruzione in due tempi
All'inizio del percorso di costruzione del Pcl, Ferrando teorizzava una costruzione rapida, passando per una scorciatoia, in due tempi: in un primo tempo reclutando chiunque fosse disponibile a riconoscere il suo "programma in quattro punti" (in realtà la sua direzione) e in un secondo tempo facendo avanzare verso un programma compiuto gli attivisti così raccolti su posizioni non rivoluzionarie.
Questa concezione della costruzione in due tempi del partito ha presentato infine il conto. Finita la stagione della visibilità mediatica (anche se qualche spazio, grazie a modi spregiudicati e autolesionistici, viene conquistato ancora) è finita anche la fase della "raccolta" (peraltro molto ristretta). Non solo: il secondo tempo, quello della "chiarificazione", non è arrivato. Perché? Perché non è possibile costruire un partito comunista attorno a un leader sospeso nel vuoto, senza struttura organizzativa, senza programma condiviso. Al più, con simili modalità si possono costruire (anche grazie a finanziamenti di settori interessati) partiti borghesi (come l'Idv attorno a Di Pietro o Fli attorno a Fini) o effimere esperienze di partiti mediatici (come il Movimento Cinque Stelle attorno a Grillo). Con un partito comunista (o che vuole essere tale) non funziona: il raggruppamento lasso attorno a un leader forte si sfalda perché solo una relazione reale (non mediatica) con le lotte può costruire il radicamento del partito; perché solo una elaborazione collettiva (non delegata al leader) può costruire i quadri del partito, il loro "comune sentire".
Ferrando ha pensato che il suo carisma (o presunto tale) avrebbe ovviato a tutto questo lavoro che Lenin e Trotsky ritenevano indispensabile. Ha creduto bastassero le sue uscite in Tv, i suoi comunicati stampa in sostituzione di un lavoro quotidiano di elaborazione e iniziativa, in sostituzione di un giornale e di un sito regolare frutto di un lavoro collettivo, in sostituzione persino di una organizzazione internazionale. Quest'ultima compare sulle bandiere del Pcl (che rivendicano la Quarta Internazionale) ma è solo virtuale. Il Pcl continua a far parte di un raggruppamento che si vuole internazionale, il Crqi. Ma il Crqi non ha organismi reali, né riunioni, né strutture, né pubblicazioni, né intervento. E non risulta che negli ultimi anni abbia acquisito nuove "sezioni" in qualche Paese, rimanendo composto soltanto dal Partido Obrero di Altamira in Argentina e da tre o quattro gruppi satellite (tra cui il Pcl).
Ma il completo fallimento della costruzione in due tempi è confermato dal fatto che persino il presunto "nucleo d'acciaio", cioè i due anziani leader che avrebbero dovuto preservare il programma da trasmettere in un secondo momento al resto del partito sono inevitabilmente precipitati nel pantano che hanno costruito. Come dimostra anche solo un unico esempio che vogliamo fare (tra i tanti possibili). Si guardi al programma in dodici punti che Ferrando ha presentato nei giorni scorsi alla stampa per le amministrative nella sua città (Savona). Per un partito rivoluzionario le elezioni dovrebbero essere soltanto (così almeno sono per il Pdac) un'occasione per presentare il proprio programma rivoluzionario a settori più ampi. E per il Pcl? Riportiamo per intero questi dodici punti: "1) Blocco delle concessioni edilizie, con autorizzazioni limitate al riutilizzo dell’estistente; 2) costruzione di una nuova edilizia popolare; 3) acqua pubblica; 4) aumento delle piste ciclabili e incremento della loro sicurezza; 5) politica rifiuti zero, con il metodo di raccolta a porta a porta “spinta”; 6) adattamento del vecchio ospedale San Paolo a sede universitaria umanistica; 7) destinazione della biblioteca pubblica a Palazzo Santa Chiara; 8) riapertura dell’ostello della Gioventù presso la fortezza del Priamar; 9) “vero” registro delle Unioni civili; 10) clausola sociale e conto trasparente per ogni appalto dato dagli enti comunali; 11) aree wi-fi comunali completamente gratuite e a disposizione del cittadino; 12) ripensamento globale della viabilità di Villapiana."
La domanda è: in cosa questo programma è differente da quello che potrebbe presentare una qualsiasi forza della sinistra governista o persino una lista civica? Dove è un riferimento (fosse pure vago!) non diciamo alla rivoluzione (che con questo programma proprio non c'entra) ma perlomeno alla esistenza di una società divisa in classi in lotta tra loro, alla classe operaia?
In realtà questo programma condensa tutta una concezione del partito in cui ogni mezzo (la visibilità sulla stampa, la partecipazione alle elezioni, ecc.) è regolarmente scambiato con il fine. Siamo anche oltre il motto di Bernstein (contro cui ironizzava Rosa Luxemburg) per cui "il fine è nulla, il movimento è tutto". Qui piuttosto il fine e il movimento sono nulla, le telecamere sono tutto.

Cinque anni dopo: la prova dei fatti
Lenin sosteneva che un partito rivoluzionario si può costruire solo raggruppando, attorno a un programma rivoluzionario, militanti inseriti nelle lotte e nei movimenti, edificando su quel programma una organizzazione centralizzata. Invece, nei cinque anni che sono trascorsi dalla rottura della vecchia sinistra del Prc (avvenuta appunto per questa divergenza di fondo), Ferrando ha voluto credere e far credere alla possibilità di percorrere una scorciatoia: costruendo un partito sulla base soltanto della visibilità mediatica del leader e quindi raccogliendo intorno a un guru indiscusso attivisti che sostengono le posizioni più disparate, senza una struttura di militanti centralizzata, senza partecipare alla costruzione di un'internazionale.
Ma i fatti (più ostinati di qualsiasi "narrazione" ad uso stampa) si sono incaricati di dimostrare che ciò non è possibile.
Era proprio necessario fare questa prova? Oppure era sufficiente prendere atto che una simile teoria menscevica (contro cui hanno lottato per tutta la vita Lenin e Trotsky) era già fallita infinite volte nella storia, persino quando disponeva di forze ben più consistenti? E ancora: era necessario logorare attivisti onesti? Quanti si sono avvicinati al Pcl (in virtù della sua visibilità mediatica) per poi uscirne rapidamente, delusi? E soprattutto quante altre energie saranno inutilmente dissipate nella prossima fase da questo partito virtuale? Forse non poche, visto che il Pcl, pur in crisi, pur in deficit di ossigeno mediatico (come Ferrando stesso lamenta), continua a godere di una relativa visibilità che utilizzerà, fino alla fine non lontana di questa esperienza, diffondendo illusioni e usando (seppure abbastanza raramente e in modo abusivo) il riferimento al leninismo e al trotskismo.
In questi stessi anni il Pdac che non ha mai fatto vanto di grandi numeri, che non ha mai goduto di grande visibilità sui mezzi di comunicazione, non essendo incappato in "scandali" mediatici partendo da una concezione diametralmente opposta del partito ha conosciuto una piccola ma costante crescita nel suo inserimento nelle lotte, nei movimenti, nell'attività sindacale. Nel Pdac sono cresciuti e crescono militanti che, a partire da un programma di fondo condiviso, dibattono, si confrontano a livello nazionale e nel quadro di una internazionale realmente esistente (e presente con propri partiti tanto in Europa come negli altri continenti). Militanti che si formano nel partito, fanno attività politica e sindacale (controcorrente, senza sconti a burocrazie e microburocrazie) non in funzione della cosiddetta "visibilità" ma in funzione di una costruzione reale.
Non abbiamo grandi vanti da esibire e siamo ben consci degli errori che commettiamo e dei limiti enormi che abbiamo di fronte al compito gigantesco (che non abbiamo la pretesa di risolvere da soli) di costruire un partito rivoluzionario e un'internazionale rivoluzionaria. Ma certo non cambieremmo questo piccolo patrimonio costruito nella realtà con una centesima parte di quel partito più virtuale che reale che Ferrando ha costruito, o cercato di costruire, ennesima riprova del fallimento della concezione menscevica, ennesima conferma, per dirla con Rosa Luxemburg, che "il futuro appartiene ovunque al bolscevismo".


note
(1) Cfr. il manifesto del 23 dicembre 2007.
(2) Oggi dirigente di spicco del Pcl, per molti anni parlamentare di Rifondazione: votò (oltre a molte altre cose), con voto nominale, il 19 novembre 1997, il Ddl 3240, "Norme sulla condizione dello straniero", che apriva i Cpt, cioè i lager per gli immigrati. Espulso da Rifondazione (ovviamente non per questo sostegno al governo, ma per beghe locali di assessorati) chiese un incontro al nostro partito, che gli rifiutammo; poco dopo entrò nel Pcl senza che gli fosse richiesta alcuna autocritica pubblica per le sue politiche governiste (a differenza di quanto viene fatto con altri, colpevoli di provenire dal trotskismo: vedi nota 3).
(3) Ora andranno sommati a questi numeri altri due o tre attivisti che, con grande enfasi (in effetti strana per un partito che millanta migliaia di presunti iscritti), il sito nazionale del Pcl vanta di aver strappato al Pdac a Pesaro, pubblicando un testo grottesco di questi attivisti che ricorda tristemente quelle abiure che negli anni Trenta la Gpu staliniana faceva firmare a chi lasciava l'opposizione di sinistra: una lunga ammissione di colpe e la riconoscenza per aver trovato infine la luce salvifica (nella fattispecie, Ferrando). Certo, negli anni dei processi di Mosca chi si adattava a firmare le abiure e a rinunciare a combattere lo faceva per cercare di salvare la pelle. Qui si tratta invece solo di qualche militante stanco di fare (come è normale per chi milita nel Pdac) una battaglia quotidiana controcorrente sul luogo di lavoro, nel sindacato, nelle lotte sociali e sa di poter trovare invece nel Pcl un luogo dove nulla di tutto questo è richiesto.




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